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Sentenza

Diritto Civile. Contratto con se stesso....
Diritto Civile. Contratto con se stesso.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - SENTENZA 15 marzo 2012, n.4143 - Pres. Oddo - est. D'Ascola

 

Motivi della decisione

 

2) Parte resistente ha eccepito la nullità della procura alle liti rilasciata da parte ricorrente a margine del ricorso per cassazione, per mancanza di riferimento al giudizio di legittimità.

Il rilievo è infondato, atteso che il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione e' per sua natura mandato speciale, come riconosciuto dalla giurisprudenza ormai costante (Cass. 26504/09; 10539/07; 28227/05), che ha superato quella, risalente al 1998, invocata dalla resistente.

2.1) Parimenti infondato è il secondo rilievo di nullità della, procura, in relazione alla “mancata indicazione della persona fisica che agisce in rappresentanza della società”, la cui firma, risulta illeggibile.

Nella specie consta dal mandato a margine del ricorso che a rilasciare la procura fu testualmente “L'amministratore Unico della Pro.Se.A srl”, come si legge dalla dicitura del timbro, sotto il quale vi è la firma illeggibile, preceduta anche dalla abbreviazione “N. Q.” (nella qualità) .

Il Collegio ritiene pertanto di adeguarsi alla giurisprudenza delle Sezioni Unite (SU 4814/05), a mente della quale l'illeggibilità della firma del conferente la procura alla lite, apposta in calce od a margine, dell'atto con il quale sta in giudizio una società esattamente indicata con la sua denominazione, e' irrilevante, non solo quando il nome del sottoscrittore risulti dal testo della procura stessa o dalla certificazione d'autografia resa dal difensore, ovvero dal testo di quell'atto, ma anche quando detto nome sia con certezza desumibile dall'indicazione di una specifica funzione o carica, che ne renda identificabile il titolare per il tramite dei documenti di causa o delle risultanze del registro delle imprese (v. anche Cass. 20596/07).

3) Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1367-2278-2384 e 2384 bis C.C. Illogicità e contraddittorietà della motivazione.

Parte ricorrente, riproponendo i temi di un'eccezione disattesa dalla Corte di appello, sostiene che il mandato alle liti sarebbe stato rilasciato, senza avere i poteri per farlo - soltanto da due dei tre liquidatori della Osla, i quali non potevano compiere l'atto, in quanto atto di straordinaria amministrazione.

La corte d'appello avrebbe errato quando ha ritenuto che tra i poteri di straordinaria amministrazione, per i quali era richiesta la firma congiunta dei tre amministratori, non rientrasse il potere di. agire in giudizio.

Secondo la ricorrente sono da considerare atti di ordinaria amministrazione solo “gli atti liquidatori in senso stretto” e non gli “atti liquidatori che perseguono tale scopo in via solamente mediata”, tra i quali rientrerebbe il conferimento di mandato alle liti, che sarebbe pertanto da considerare atto di straordinaria amministrazione.

La censura è infondata.

Premesso che il testo dell'art. 2278, 2°, c.c., inesattamente riportato in ricorso, prevede che i liquidatori rappresentano la società anche in giudizio, va respinta la tesi secondo cui gli atti processuali intrapresi per riportare beni nel patrimonio sociale, e non per alienarli, rientrino nel divieto di nuove operazioni di cui all'art. 2279 c.c. (cfr 15080/00; 1037/99).

Tale divieto non può trarsi, come vorrebbe la ricorrente, dalle regole societarie fissate dalla Assemblea, che, secondo il ricorso, affidava in via congiunta ai tre liquidatori i poteri di gestione straordinaria, tra i quali l'effettuazione di transazioni e l'alienazione a titolo oneroso di beni immobili e diritti reali immobiliari, lasciando alla maggioranza dei liquidatori le operazioni di gestione ordinaria con i “più ampi ed opportuni poteri al riguardo”.

Sul punto è logica e razionale la distinzione valorizzata dalla Corte d'appello, tra atti dispositivi e atti, come quello in esame, volti a definire il patrimonio sociale: è infatti evidente che la cautela della firma congiunta era misura prudenziale in relazione alle possibili diminuzioni del patrimonio conseguenti ad alienazioni, esigenza insussistente con riferimento ad attività processuale che non avrebbe portato a simili alienazioni, perché volta potenzialmente ad incrementare i beni patrimoniali e comunque a stabilire definitivamente la consistenza patrimoniale della società in liquidazione.

4) Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1395 e 1444 C.C. e vizi di motivazione.

L'art. 1395 reca: “È annullabile il contratto che il rappresentante conclude con se stesso, in proprio o come rappresentante di un'altra parte, a meno che il rappresentato lo abbia autorizzato specificatamente ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d'interessi”.

La sentenza impugnata ha escluso che sussistessero le eccezioni alla regola generale dell'annullabilità dell'autocontratto, perché l'assemblea della Osla non aveva autorizzato la vendita degli immobili in questione ma, nel 1990, aveva solo dato l'incarico di valutazione preliminare ad un'eventuale vendita dell'intera azienda e non di singoli terreni.

Inoltre, in altra delibera del 2001, aveva ritenuto che l'amministratore unico fosse in grado di chiudere le partite attive e passive aperte, senza dargli un'autorizzazione comprensiva di una precisa determinazione delle condizioni a cui concludere la vendita e in particolare senza specificare il prezzo, di talché non vi erano condizioni per ritenere operanti le ipotesi di cui all'ultima parte della norma suddetta.

Parte ricorrente sostiene che A.Z. non aveva agito in conflitto di interessi, ma previa autorizzazione assembleare, da rinvenire nelle due delibere di cui si è discusso nelle fasi di merito, le quali dovrebbero essere lette in funzione l'una dell'altra, in vista dello scopo finale della Osla di procedere comunque alla dismissione di tutte le attività sociali.

A tal fine critica la motivazione resa dalla Corte di merito in ordine alla rilevanza del fatto che il prezzo percepito dalla Osla nelle compravendite fosse stato riportato nei bilanci della società ed evidenzia che il verbale di assemblea del 17 maggio ‘96 riportava la comunicazione dello Z. ai soci circa l'alienazione di parte dell'immobile alla società Pro.Se.A. di talché la società, riconfermando la nomina dell'amministratore Z. per il triennio successivo, aveva approvato l'operato di lui. Si sarebbe trattato di atto di convalida tacita del contratto annullabile.

La censura è infondata. Quanto alla convalida del negozio annullabile, che consiste in una sostanziale rinunzia all'azione di annullamento ed e' subordinata alla duplice condizione della acquisita certezza della causa di invalidità del negozio e della volontà di non avvalersene, la Corte di appello si è attenuta ai principi sanciti dalla giurisprudenza di legittimità. Si è in passato ritenuta implicita la convalida tacita nella volontaria esecuzione del negozio annullabile, che di per sé e' riferibile sia all'adempimento di un supposto obbligo giuridico, sia alla volontà di convalidare detto negozio, solo in quanto risulti inequivocabilmente raggiunta la prova della già acquisita certezza della causa di annullabilità del negozio stesso (Cass. 2029/82).

Poiché nella specie non risulta che nelle citate assemblee di Osla fosse stato discusso ed evidenziato lo stato conflittuale in cui versava l'amministratore, risulta ineccepibile la conclusione raggiunta dai giudici di appello circa l'insussistenza di convalida ex art. 1444. Essi infatti hanno acutamente sottolineato che l'iscrizione dell'atto (recte, del corrispettivo percepito) in bilancio e l'approvazione del bilancio stesso erano atti necessari per la vita della società, neutri rispetto alla intenzione di convalidare o impugnare l'atto, al pari, va aggiunto, della conferma dell'amministratore di cui non venga discussa consapevolmente la pattuizione conflittuale.

4.1) Considerazioni simili valgono per la parte della sentenza che ha negato la sussistenza di autorizzazione a vendere o di determinazione del contenuto del contratto in modo da escludere la possibilità di conflitto d'interessi.

Mette conto chiarire che la dottrina ha costantemente insegnato che per la convalida tacita (di convalida espressa non v'è luogo per discutere) è necessario che l'atto di esecuzione trovi “supporto” in una volontà consapevole, dovendosi indagare se sia stato voluto l'atto di esecuzione e non gli effetti di esso, che discendono dalla legge se il rappresentato, consapevole del vizio che è immanente nel conflitto di interessi, lo ha posto in essere.

Questa consapevolezza sembra essere presupposto indefettibile - a maggior ragione - nell'ipotesi di eccezione, ex art. 1395 c.c., alla regola dell'annullabilità del contratto concluso con se stesso, stante la “similitudine funzionale”, descritta in dottrina, tra autorizzazione e convalida.

E' stato insegnato che l'autocontratto è un caso appariscente di conflitto di interessi, in riferimento al quale l'esigenza di specificatezza dell' autorizzazione potrebbe anche essere meno intensa, rispetto ad altre pattuizioni conflittuali.

Ma per ritenere sussistente l'autorizzazione in caso di contratto con se stesso, è essenziale la certezza che vi sia stata piena consapevolezza della situazione di conflitto.

In altre parole, si può affermare che è sufficiente senza altre specificazioni, perché vi sia valida autorizzazione, la conoscenza della stipula con se stesso che il rappresentante va a intraprendere, ma è necessario che sia certa la consapevolezza da parte del rappresentato di questo particolare tipo di conflitto.

Perché dalla conoscenza di esso il rappresentato si può prefigurare il rischio che va a correre.

4.2) Né rileva, nella specie, che siano state autorizzate modalità (l'interpello ad un perito stimatore) per la determinazione del prezzo di vendita o che il rappresentante si sia attenuto ai criteri suggeriti dal perito: non si può evincere da ciò la volontà di autorizzare la vendita, perché non vi era prezzo indicato, prezzo che anzi era rimesso alle valutazione del soggetto di cui è successivamente emerso il conflitto.

In tema di annullabilità del contratto concluso dal rappresentante con se stesso l'autorizzazione data dal rappresentato al rappresentante a concludere il contratto con se stesso in tanto può considerarsi idonea ad escludere la possibilità di un conflitto di interessi, e quindi l'annullabilità del contratto, in quanto sia accompagnata dalla puntuale determinazione degli elementi negoziali sufficienti ad assicurare la tutela del rappresentato; ne consegue che tale autorizzazione non e' idonea quando risulti generica, non contenendo, tra l'altro (come nella specie),     alcuna indicazione in ordine al prezzo della compravendita, che impedisca eventuali abusi da parte del rappresentante (Cass. 6398/11; 5906/04; 14982/02).

4.3) Giova chiarire che il ricorso non sembra porre espressamente la questione, non esaminata dal giudice di appello, della non annullabilità, in caso di assenza di danno, allorché il contratto sia comunque risultato vantaggioso.

Mette conto però riaffermare che non sono convincenti i tentativi di recenti studi, ispirati all'analisi economica del diritto, di condizionare l'annullabilità del contratto concluso in conflitto di interessi alla non vantaggiosità per il rappresentato.

Questa Corte ha già avuto modo di ribadire che per la configurabilità del conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato che, se conosciuto o conoscibile dal terzo, rende annullabile il contratto concluso dal rappresentante, ai sensi dell'art. 1394 cod. civ. (applicabile anche ai casi di rappresentanza organica di una persona giuridica), non ha rilevanza, di per sé, che l'atto compiuto sia vantaggioso o svantaggioso per il rappresentato e che non e' necessario provare di aver subito un concreto pregiudizio, perché il rappresentato possa domandare o eccepire l'annullabilità del negozio (Cass. 15981/07).

5) Con il terzo motivo sono denunciati vizio di omessa motivazione e violazione degli articoli 1385, 1710 CC.

La censura concerne la condanna del contraente al risarcimento del danno, domanda respinta dal tribunale di Roma in mancanza di “specifica rigorosa prova” circa lo stato degli immobili e la loro persistente locazione. La Corte di appello ha accolto il gravame anche su questo punto, rilevando che i contratti di locazione erano stati prodotti e che il valore locatizio era stato percepito da Pro.Se.A. o direttamente o indirettamente, beneficiando del bene locatole.

Il ricorso evidenzia da un lato che autore dell'illecito era lo Z. e non la società stipulante, “terza” rispetto ai contendenti rappresentante e rappresentato, dall'altro che non le era imputabile a titolo risarcitorio, con relativa rivalutazione, la somma eventualmente dovuta a titolo di obbligo restitutorio. La censura è fondata.

La sentenza non ha indagato in alcun modo sul titolo della condanna risarcitoria inflitta alla Pro.Se.A., omettendo anche di distinguere la posizione di Z. (verso il quale non risulta spiegata domanda risarcitoria per aver abusato dei suoi poteri rappresentativi o infedele esecuzione del mandato ex art. 1710 c.c., cass. 8882/91) e Pro.Se.A.

Essa ha quindi implicitamente trattato la ipotesi di annullamento del contratto invalido ex art. 1394 c.c. alla stregua di un'anomala ipotesi di responsabilità caratterizzata da danno in re ipsa. E' inoltre immediatamente passata dall'accertamento della invalidità del contratto all'esame della quantificazione del danno, configurandola nella perdita dei canoni locatizi.

Doveva invece qualificare l'ipotesi di responsabilità del contraente e distinguere l'obbligo di restituzione dei frutti dei beni compravenduti, goduti dal contraente, beni, a loro volta da restituire a parte venditrice, previa relativa domanda, dal danno cagionato dall'annullamento della compravendita o dar conto motivatamente del perché della identificazione tra queste due voci.

6) In relazione all'accoglimento di questo motivo di ricorso, resta assorbito il quarto motivo, attinente alla quantificazione del danno risarcibile.

7) E' invece infondato il quinto motivo, con il quale Pro.Se.A. si duole del mancato accoglimento della domanda di restituzione del prezzo versato.

La ricorrente sostiene che la restituzione doveva considerarsi effetto naturale e consequenziale dell'annullamento dei due contratti di compravendita e conseguentemente critica che sia stata esclusa l'ammissibilità della domanda restitutoria perché tardivamente introdotta.

Va per contro affermato che in materia contrattuale, pur essendo l'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta un effetto naturale dell'annullamento del contratto, non di meno sul piano processuale e' necessario che la parte proponga specifica domanda ai fini di detti effetti restitutori; ne consegue che, ove sia stata proposta in primo grado la domanda di annullamento del contratto con richiesta di risarcimento danni, al giudice d'appello e' preclusa, ai sensi dell'art. 183 c.p.c., la possibilità di prendere in esame la domanda restitutoria avanzata per la prima volta dopo la definitiva determinazione della materia del contendere, trattandosi di domanda nuova.

Discende da quanto esposto la cassazione della sentenza impugnata con riferimento al terzo motivo qui accolto, con assorbimento della quarta censura e rigetto nel resto.

La cognizione va rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Roma per il riesame, come precisato in riferimento al terzo motivo, della domanda di risarcimento danni, accolta dalla Corte d'appello omettendo adeguata motivazione.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta primo, secondo e quinto motivo di ricorso; accoglie il terzo, assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Avv. Antonino Sugamele

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