Interpretazione delle sentenze. Cassazione. Giudicato esterno. Limiti e condizioni dell'interpretazione del Supremo Collegio.
Corte di Cassazione Sez. Prima Civ. - Sent. del 15.10.2012, n. 17649
Presidente Plenteda - Relatore Didone
Ritenuto in fatto e in diritto
1.- Il Tribunale di Parma, con sentenza in data 30.10.2003 ha parzialmente accolto la domanda di insinuazione tardiva proposta da B.M.E. al passivo del fallimento di Be.An.Ma. , ammettendo in prededuzione il credito per l'importo di Euro 48.810,15, pari a lire 94.509.632 fondato sulle sentenze n. 697/94 e 148/1997 della Corte d'Appello di Bologna, le quali avevano definito una controversia iniziata dalle due sorelle B. (e dalla madre, poi deceduta in corso di causa) avanti al Tribunale di Reggio Emilia per la divisione dell'eredità paterna, e avevano riconosciuto a B.M.E. , ad integrazione della quota di legittima ad essa spettante (e pur dopo l'assegnazione, a tale titolo, oltre che dei beni mobili ed immobili già pervenutile per testamento, di ulteriori beni immobili) un credito residuo in denaro nei confronti del Fallimento.
La Corte di appello di Bologna, con la sentenza impugnata (depositata il 171.2006), ha rigettato l'appello proposto da B.M.E.
Ha osservato la corte di merito che con la sentenza n. 697/94 (non assumendo rilievo la successiva sentenza n. 148/97 che concerneva la definizione, non contestata, del rapporto successorio delle sorelle nei confronti della madre F.M. , deceduta in corso di causa) secondo la testuale dizione numerata della parte dispositiva, “la Corte di Appello, in parziale riforma della impugnata decisione del Tribunale di Reggio Emilia, 1) ha dichiarato che la quota ereditaria disponibile corrispondeva ad un valore di lire 16.255.714 e la quota legittima ad un valore di lire 32.511.428; 2) ha determinato in misura pari all'ammontare di lire 46.087.360 le quote di legittima di entrambe le parti, 3) ha dichiarato che la quota di legittima di B.M.E. sull'eredità paterna, doveva essere integrata nella misura corrispondente ad un valore di lire 26.406.893, 4) ha assegnato, pertanto, alla stessa, oltre ai beni mobili ed immobili già pervenutile per testamento, ulteriori beni immobili specificamente, indicati nonché “l'ulteriore somma di lire 22.201.893 al valore dell'epoca di apertura della successione”, 5) ha ordinato al Fallimento di restituire a B.M.E. gli immobili assegnatile al punto 4) ed, infine, 6) ha condannato il Fallimento considerate le assegnazioni sub 4 ed operate le compensazioni fra i crediti, a pagare in favore di B.M.E. la somma di lire 21.432.979 con gli interessi dai di della sentenza al saldo”.
Eventuali incongruenze logico-giuridiche riscontrabili tra il dispositivo come interpretato dal Tribunale e la parte motiva della sentenza si risolvevano, in ogni caso, “in vizi della decisione rilevabili soltanto con l'impugnazione della sentenza medesima e, quindi, in ipotesi, coperti dal giudicato”.
2.- Contro la decisione della corte territoriale B.M.E. ha proposto ricorso per cassazione affidato a motivi così rubricati: “violazione e falsa applicazione di norme di diritto; insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia prospettati dalle parti; violazione dei principi sull'interpretazione delle sentenze (artt. 132, 156, 360 nn. 3, 5 c.p.c.)”. Invoca Cass., 26 gennaio 2004 n. 1323.
Resiste con controricorso la curatela intimata.
Le parti, nel termine di cui all'art. 378 c.p.c., hanno depositato memoria.
3.- La ricorrente deduce, tra l'altro, che la sentenza n. 697/94 della Corte di appello di Bologna le aveva assegnato due distinti importi (la somma di lire 21.432.979 con gli interessi dal di della sentenza al saldo nonché la somma di lire 22.201.893, da rivalutarsi dalla data di apertura della successione) il secondo, assai elevato, “completamente trascurato per l'errore compiuto nel dispositivo della sentenza, che però si supera interpretando il dispositivo - come si deve - unitamente alla motivazione che la precede” (v. ricorso pag. 12).
Ora, in disparte che la ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza, non trascrive nel ricorso l'integrale motivazione della sentenza il cui giudicato è invocato contro la curatela e che sarebbe stato erroneamente interpretato, appare evidente che la stessa parte ricorrente riconosca l'esistenza di un errore nella sentenza stessa. Talché concorda - implicitamente - con la sentenza impugnata nella parte in cui ha evidenziato che eventuali discrepanze tra dispositivo e motivazione avrebbero dovuto essere fatte valere in sede di impugnazione e non pretendendo la correzione di esse con una interpretazione del dispositivo alla luce della motivazione.
Infatti, in presenza di un dispositivo contenente la chiara enunciazione per la quale la condanna del fallimento al pagamento della somma di “lire 21.432.979 con gli interessi dai di della sentenza al saldo”, determinata “considerate le assegnazioni sub 4 ed operate le compensazioni fra i crediti”, la decisione impugnata appare del tutto corretta là dove evidenzia l'esistenza di “vizi della decisione rilevabili soltanto con l'impugnazione della sentenza medesima e, quindi, in ipotesi, coperti dal giudicato”.
La ricorrente neppure indica in ricorso le somme che sarebbero state detratte in compensazione e quelle corrispondenti ai crediti che, invece, correttamente avrebbero dovuto essere detratte.
Va ribadito, comunque, che “l'interpretazione di un giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, nei limiti, però, in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione, in forza del principio di autosufficienza di questo mezzo di impugnazione, con la conseguenza che, qualora l'interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il predetto ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale” (Sez. L, n. 26627/2006; Sez. 3, n. 6184/2009; Sez. L, n. 10537/2010).
Nella concreta fattispecie le parti trascritte in ricorso non consentono di pervenire ad un risultato interpretativo diverso da quello fatto proprio dalla corte territoriale. Il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità - liquidate in dispositivo - seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 9.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori come per legge.
Depositata in Cancelleria il 15.10.2012
21-10-2012 00:14
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