Patto di prelazione. Violazione e danni.
Cassazione, sez. II, 24 aprile 2012, n. 6474
(Pres. Schettino – Rel. Falaschi)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 23 luglio 1991 i coniugi P.M. e C..D.R. evocavano, dinanzi al Tribunale di Salerno, M.U. , D. ed A. e premesso di avere sottoscritto in data 30.1.1971 con U..M. , dante causa dei convenuti, scrittura privata con la quale veniva costituito, in loro favore, in caso di vendita, diritto di prelazione sul fondo di proprietà del M. , sito in (omissis) , censito al N.C.T. al foglio 12, p.lle 65, 66 e 67, accordo che però veniva disatteso avendo i M. alienato il terreno de quo a Mo.Ca. e M..S. senza consentire loro di esercitare la prelazione, chiedevano dichiararsi il terreno in questione trasferito in loro favore per effetto della pattuita prelazione e della accettata proposta; in via subordinata, emettere sentenza ex art. 2932 c.c.; in via di ulteriore subordine, in ipotesi di perdita di disponibilità del bene da parte dei convenuti, condannare gli stessi al risarcimento dei danni.
Instaurato il contraddittorio, si costituivano i M. , i quali nel contestare la fondatezza delle domande, eccepivano, in via preliminare, la nullità della scrittura esibita dagli attori e posta a fondamento della loro pretesa, la quale presentava abrasioni alla seconda facciata laddove veniva individuato il bene oggetto del diritto di prelazione che riguardava rappezzamento posto sul lato nord, per cui presentavano querela.
Con successivo atto di citazione notificato il 24 gennaio 1992 i medesimi attori evocavano, dinanzi allo stesso Tribunale, i coniugi Ca..MO. e M..S. , acquirenti del terreno in questione, onde ottenere dagli stessi il risarcimento dei danni per il mancato acquisto. I due giudizi venivano riunite ed il Tribunale adito, espletata - istruttoria, con sentenza del 26.5.2004, riconosceva la violazione del patto di prelazione, che essendo di natura obbligatoria, comportava il risarcimento nei soli confronti dei convenuti M. , domanda che però respingeva perché priva di prova nel quantum e non quantificabile nemmeno alla stregua dell'art. 1226 c.c..
In virtù di rituale appello interposto dai coniugi P. - D.R. , con il quale lamentavano il mancato risarcimento dei danni, la cui determinazione poteva avvenire anche sulla base di c.t.u. che essi avevano sollecitato, stante la destinazione dell'appezzamento di loro proprietà, sul quale avevano edificato immobile che al primo piano era adibito ad officina meccanica ed avevano richiesto concessione finalizzata ad operazioni di revisione di autoveicoli, ma necessitando di ampliamento dei locali, avevano provveduto ad installare una tettoia provvisoria per riparare le attrezzature dalle intemperie, costi sostenuti convinti del buon esito dell'acquisto, la Corte di appello di Salerno, nella resistenza degli appellati M. ed A. , i quali eccepivano la novità delle circostanze dedotte con finalità risarcitorie, con inammissibile ampliamento del petitum, nonché degli appellati MO. - S. , rigettava il gravame. A sostegno della adottata sentenza la corte distrettuale evidenziava che pur essendo stato impugnato il quantum del risarcimento dei danni, andava esaminato anche l'an del danno medesimo, giacché le circostanze dedotte dagli appellanti a sostegno della loro pretesa attenevano non solo a fatti dedotti per la prima volta in appello, dunque vere e proprie questioni nuove, ma soprattutto erano da collegare ad attività di ampliamento dell'officina avviata solo dopo l'inizio dell'azione civile con la quale esercitavano il diritto di prelazione e nella quale, prudentemente, contemplavano in via gradata domanda risarcitoria. Si trattava, pertanto, di danno derivato dal solo comportamento, quanto meno imprudente, degli appellanti, inadempiute le condizioni prescritte dagli artt. 1223 e 1225 c.c. circa la consequenzialità "immediata e diretta" della perdita e/o del mancato guadagno rispetto all'inadempimento e della prevedibilita del danno. Avverso l'indicata sentenza della Corte di appello di Salerno hanno proposto ricorso per cassazione i coniugi P. - D.R. , che risulta articolato su cinque motivi, al quale hanno resistito con controricorso i M. e la A. , rimasti contumaci i coniugi MO. - S. .
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 2909 c.c., 329, 346 e 42 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. per avere la corte territoriale, nonostante non vi fosse stato appello incidentale in ordine all'an del danno accertato dal giudice di primo grado, pronunciato in ordine alla responsabilità contrattuale dei venditori per il mancato esercizio del diritto di prelazione convenzionale, così violando il giudicato interno formatosi sul capo della sentenza relativo all'an. Il primo motivo denuncia, in tutta evidenza secondo lo svolgimento della censura, un errar in procedendo, nel quale i giudici dell'appello sarebbero incorsi per aver dato ingresso nel giudizio, ritenendola ritualmente introdotta, alla questione concernente l'an della responsabilità contrattuale dei venditori con riferimento al diritto di prelazione concordato fra le parti con la scrittura privata del 30.1.1971. Il tenore della censura consente (v. ex multis, e per un principio di diritto non controverso e costantemente riaffermato da questa Corte di legittimità, Cass. 18 febbraio 1993 n. 1988) un esame diretto degli atti processuali, segnatamente l'originaria sentenza del Tribunale di Salerno, giacché nel complessivo svolgimento, unitariamente considerato, la Corte di merito ha ritenuto che il giudice di prime cure "...riconosceva la violazione del patto di prelazione, di natura obbligatoria, nei confronti dei convenuti M. e in astratto il diritto al risarcimento del danno senza accordarlo in concreto perché privo di prova nel quantum e non quantificabile nemmeno alla stregua dell'art. 1226 c.c.", e dunque introdotta in sede di gravame, "per quanto non vi sia alcun appello sul punto, il riferimento al quantum del risarcimento del danno, la cui determinazione è stata sollecitata dagli appellanti, non può esimere dalla analisi dell'an del danno, che forse troppo frettolosamente è stato affermato dal giudice di primo grado". Infatti, premesso che il giudizio di appello - in relazione al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (imposto dall'art. 112 c.p.c.), cui fa riscontro il principio del tantum devolutum quantum appellatum (artt. 342, 345 c.p.c.) - ha per oggetto la medesima controversia, decisa dalla sentenza di primo grado, entro i limiti, tuttavia, della devoluzione, quali risultano fissati dai motivi specifici che l'appellante ha l'onere di proporre con l'atto d'appello (ai sensi dell'art. 342 c.p.c.), senza possibilità di internazione nel successivo corso delle stesso giudizio di gravame (ai sensi dell'art. 345 c.p.c.), con la conseguenza che - secondo la giurisprudenza di questa Corte (in tal senso, vedi, per tutte, le sentenze 9 febbraio 2002 n. 191, 2 gennaio 2001 n. 6) - la sentenza di secondo grado non può trattare e decidere una questione, già decisa in primo grado, se - in difetto di specifico motivo d'appello - quella decisione risulti ormai coperta dal giudicato sostanziale interno (art. 2909 c.c.), che è rilevabile - anche d'ufficio - in sede di legittimità. Coerentemente, il principio secondo cui l'interpretazione dell'atto di appello - al pari dell'interpretazione di qualsiasi domanda, eccezione o deduzione di parte - da luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, non trova applicazione - secondo la giurisprudenza di questa Corte (in tal senso, vedi, per tutte, le sentenze 16 luglio 2002 n. 10314, 7 maggio 2002 n. 6526, 23 maggio 2001 n. 7049, 26 aprile 2001 n. 6066, 2 marzo 2001 n. 3016, 28 agosto 2000 n. 11199, e specificamente in ordine alla decisione di primo grado 6 febbraio 1971 n. 311) - quando si assuma che l'interpretazione, accolta dal giudice di merito appunto, abbia determinato un vizio - che sia riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 cpc) oppure, come nella specie, del principio del tantum devolutum quantum appellatum (art. 434, 437 c.p.c.) ed alla conseguente formazione e preclusione del giudicato sostanziale interno - trattandosi, in tal caso, della denuncia di un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere - dovere di procedere direttamente all'esame ed all'interpretazione degli atti processuali, ed, in particolare, della decisione appellata - per quel che qui interessa - come, in genere, di qualsiasi istanza e deduzione di parte (v. specifica sul punto Cass. 6 febbraio 1971 n. 311).
Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata non merita le censure che le vengono mosse con il primo motivo del ricorso principale.
Invero la sentenza di primo grado aveva dichiarato che "pur ritenendo che nella fattispecie gli attori hanno diritto al risarcimento del danno da parte dei M. per il loro comportamento, trovasi però nell'impossibilità di qualificarlo considerato che non è stata data prova né dell'an né del quantum" (v. pag. 5). All'esito dell'interpretazione diretta della decisione di primo grado - nel senso sopra prospettato - risulta, quindi, rispettosa degli enunciati principi - di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c., cit.) e, segnatamente, del tantum devolutum quantum appellatum (art. 434, 437 c.p.c., cit.) - la sentenza di appello, ora investita dal ricorso per Cassazione, laddove - muovendo, proprio, dal rigetto di detto motivo dello stesso appello principale - perviene alla declaratoria di non ristorabilità delle voci di danno indicate dagli appellanti, affermazione non in contraddizione con l'avvenuto riconoscimento dell'inadempimento contrattuale dei M. , che avrebbe anche consentito l'affermazione, nel valutare il "quantum debeatur", da parte del giudice di appello di ritenere inesistente l'entità del danno.
Con il secondo motivo viene censurata la violazione degli artt. 1218, 1223, 1225, 1226, 1453 c.c. e 112 e 345 cpc in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. per avere erroneamente la corte distrettuale ritenuto la specificazione del danno formulata nell'atto di appello integrante domanda nuova, mentre, di converso, è incontestata la omnicomprensività della richiesta di risarcimento avanzata fin dal primo grado. Aggiungono i ricorrenti che la corte di merito non avrebbe potuto dichiarare inammissibile il ricorso, bensì avrebbe dovuto ammettere, "alla stregua del disposto dell'art. 345 cpc. ante novella, i mezzi istruttori richiesti". Parimenti infondato è il secondo mezzo.
Per costante orientamento di questa Corte, ribadito anche in tempi recentissimi (v. Cass. 31 agosto 2011 n. 17879), in tema di risarcimento dei danni da responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, la tendenziale unitarietà del diritto al risarcimento e il suo riflesso processuale, costituito dall'ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione, comportano che, quando un soggetto agisce in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni cagionatigli da un determinato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta. Ora, è ben vero che tale principio soffre eccezioni nel caso in cui nell'atto introduttivo siano indicate e quantificate specifiche voci di danno, ma ciò sempre e solo nell'ipotesi in cui la specificazione si presti ad essere ragionevolmente intesa come volontà di escludere dal petitum le voci non menzionate, dovendo altrimenti alla stessa attribuirsi un valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intende ottenere il ristoro (cfr. Cass. 17 dicembre 2009 n. 26505; Cass. 19 maggio 2006 n. 11761). Ne deriva che le questioni poste dal motivo di ricorso in esame esulano propriamente dall'ambito della denuncia di violazione dell'art. 345 c.p.c. ante riforma, avendo piuttosto attinenza con l'interpretazione della domanda stessa, e cioè con un'attività che, involgendo un mero accertamento di fatto, pertiene al giudice di merito ed è sindacabile solo sotto il profilo del vizio motivazionale, qui neppure prospettato (v. Cass. 12 marzo 2010 n. 6038). La sentenza impugnata ha correttamente rilevato che le parti attrici chiesero in primo grado "il risarcimento dei danni" causati dalla condotta dei M. con la cessione del fondo a terzi e quindi la domanda doveva essere necessariamente intesa come comprendente qualsiasi voce di danno originata dal comportamento lesivo. Tale interpretazione della domanda è in sintonia con il principio della unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale dell'ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione (scaturente dal rispetto dei canoni della concentrazione e della correttezza processuale).
Nel caso in esame, gli appellanti hanno provveduto a specificare le singole componenti del danno delle quali chiedevano il ristoro e la corte distrettuale ha pronunciato su di esse, così come definite dall'atto introduttivo del gravame, evidenziando la mancanza di un nesso causale con il fatto lesivo dedotto, ossia la vendita del suolo a terzi. Infatti la corte di merito, pur rilevando che la specificità delle voci era stata introdotta per la prima volta in appello, non ha però ritenuto nuova ed inammissibile in radice ex art. 345 c.p.c. la domanda risarcitoria come fatta valere dagli appellanti, tant'è che ha passato in rassegna ogni singola voce, esaminandola nel merito.
Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 1219, 1223, 1225, 1226, 1227, 2697 e 2909 c.c. in relazione all'art. 360 n. 3 cpc per non avere ritenuto la corte di merito la risarcibilità del danno patrimoniale futuro, quale nella specie costituito dai costi sostenuti per la rimozione delle opere, realizzate dopo l'introduzione del presente giudizio, resisi necessari per la mancata acquisizione del terreno limitrofo per violazione del patto di prelazione convenzionale, che costituirebbe ipotesi di danno in re ipsa.
Con il quarto motivo viene dedotta la insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio per avere il giudice dei gravame ritenuto l'opera di abbattimento dell'ampliamento dell'officina meccanica conseguenza "di uno scellerato comportamento" dei ricorrenti e non già della mancata vendita del terreno confinante ai ricorrenti da parte dei resistenti M. . Il consulente tecnico di parte ha pure definito la circostanza del "danno per mancato accorpamento del terreno adiacente alla propria consistenza immobiliare". I due motivi, riflettenti la violazione di legge e l'omesso, insufficiente e contraddittorio percorso motivazionale, vanno esaminati congiuntamente per l'intima connessione dei temi da essi involti.
Quanto alla censura di mancato riconoscimento del nesso causale tra la condotta dei M. di cessione a terzi del suolo e le voci di danno lamentate dai ricorrenti, ritiene questa Corte che essa sia egualmente infondata.
Infatti, per giurisprudenza pacifica il criterio in base al quale sono risarcibili i danni conseguiti dall'inadempimento - in tema di responsabilità contrattuale - deve intendersi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in modo da comprendere nel risarcimento i danni indiretti e mediati, che si presentino come effetto normale, secondo il principio della c.d. regolarità causale (v. Cass. 6 marzo 1997 n. 2009; Cass. 10 novembre 1993 n. 11087; Cass. 11 gennaio 1989 n. 65; Cass. 18 luglio 1987 n. 6325; Cass. 20 maggio 1986 n. 3353; Cass. 16 giugno 1984 n. 3609). Pertanto un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evènto causante non appaiono del tutte inverosimili (c.d. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, come è stato esattamente osservato, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell'imputazione del danno).
Ribadito, quindi, che ai fini dei sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il nesso di causalità fra inadempimento ed evento, può essere anche indiretto e mediato (Cass. 11 gennaio 1989 n. 65, cit.), cosi come risarcibile è anche il danno eziologicamente correlato alla denunciata condotta lesiva ma che si produce successivamente all'instaurazione del giudizio ed ancora il danno patrimoniale futuro che si produrrà secondo una ragionevole e fondata attendibilità (v. Cass. 20 gennaio 1987 n. 495), la sentenza impugnata correttamente ha ritenuto, sulla base delle risultanze istruttorie, che l'iniziativa degli attori-ricorrenti volta alla realizzazione di attività di revisione di autoveicoli e delle opere edilizie, nonché delle attività strumentali, fosse del tutto imprudente per non avere gli stessi atteso l'esito del giudizio.
Occorre considerare che la vendita del fondo a terzi, avvenuta con atto del 13.7.1991, è intervenuta prima della stessa citazione (notificato l'atto introduttivo il 23.7.1991), per cui al momento della richiesta di concessione di attività di revisione dei veicoli (depositata il 12.12.1995), gli attori avrebbero dovuto sapere che in quanto titolari di un diritto di prelazione esclusivamente di tipo convenzionale, non avrebbero avuto spazio per l'azione ex art. 2932 c.c., comportando solo una efficacia obbligatoria (v. Cass. 18 luglio 2008 n. 19928).
In tal senso, del resto, statuisce il Tribunale e non c'è appello sul punto.
In definitiva, essi non dovevano porre in essere attività, quale quella intrapresa di revisione dei veicoli, con costruzione di manufatti ad essa strumentali, che postulavano l'acquisto del fondo confinante.
I ricorrenti lamentano, altresì, che la sentenza impugnata abbia ritenuto la insussistenza del nesso di causalità anche per le altre voci di danno.
Ritiene questa corte che anche detta censura è infondata.
È vero che la originaria domanda risarcitoria deve ritenersi tendenzialmente comprensiva di ogni voce di danno derivante dall'inadempimento, sennonché detto principio va letto nel sistema in cui si pone e cioè va coordinato con le norme cardini della domanda e del relativo onere probatorio nel processo.
Infatti dalla decisione impugnata non risulta che i ricorrenti abbiano dimostrato avanti al giudice di primo grado il danno per il mancato accorpamento del terreno adiacente alla propria consistenza immobiliare. In altri termini, a fronte di una domanda generica degli attori di condanna dei convenuti al ristoro dei danni, senza alcuna specificazione delle "voci" o componenti dei pretesi danni, la corte di merito (confermando la decisione del giudice di primo grado) ha affermato che la "quantificazione" risultava sfornita del benché minimo supporto probatorio; del resto una decisione diversa sul punto avrebbe comportato un indebito esonero dal fornire elementi concreti da sottoporre alla verifica del giudice da parte di chi ne era onerato, ai fini della determinazione del quantum dei pretesi danni, ciò anche alla luce dell'art. 345 c.p.c., nel testo previgente alle modifiche di cui alla legge n. 353/1990, nella specie applicabile ratione temporis.
Con il quinto ed ultimo motivo viene lamentata la violazione dell'art. 92 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 3 cpc per essere stati i ricorrenti ingiustamente condannati al pagamento delle spese processuali nonostante l'accertata violazione del patto di prelazione convenzionale da parte dei M. .
Del pari infondato è l'ultimo motivo, giacché la condanna alle spese processuali pronunciata in appello appare improntata al principio della soccombenza e causalità, per quanto sopra esposto. Le spese del giudizio di Cassazione debbono essere sopportate dalla parte soccombente e sono liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.
10-05-2012 00:00
Richiedi una Consulenza