Interpretazione ermeneutica e contratto.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - SENTENZA 27 marzo 2013, n.7791 - Pres. Goldoni – est. Proto
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell'art. 1418 e dell'art. 1350 c.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. sostenendo la sufficienza, nel caso di specie, per la realizzazione del requisito di forma, del testamento e l'idoneità della loro domanda riconvenzionale a integrare il requisito della forma scritta.
Il motivo si conclude con il seguente quesito: 'È legittimo operare in appello una reformatio in peius della sentenza impugnata disponendo, oltre al rilascio dell'immobile anche la condanna al risarcimento per occupazione sine titillo?'.
L'art. 366 - bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006 (per le sentenze, come quella oggi impugnata, pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del detto d.Lgs.), stabilisce che l'illustrazione di ciascun motivo di ricorso proposto ai sensi del nn. 1-2-3-4 dell'art. 360 c.p.c., debba concludersi, a pena d'inammissibilità del motivo stesso, con la formulazione di un quesito di diritto. La formulazione del motivo non corrisponde ai requisiti richiesti dalla citata norma perché la formulazione del quesito di diritto è meramente apparente e non risponde all'esigenza di cooperazione del ricorrente all'espletamento della suddetta funzione nomofilattica di questa Corte di Cassazione (la norma perseguiva, infatti, anche l'obiettivo di fissare il corretto principio di diritto al quale ci si debba conformare nei casi del genere: v. Cass. n. 14682/07) Nella fattispecie la formulazione del quesito di diritto è completamente estranea al motivo nel quale si sostiene la realizzazione del requisito della forma scritta; il quesito, invece, non concerne l'applicazione delle regole sulla forma del contratto e la relativa nullità, ma i limiti del potere decisorio del giudice di appello che non sono pertinenti rispetto al motivo.
Quanto all'applicabilità, ratione temporis, dell'art. 366 bis c.p.c., si osserva che la sentenza risulta depositata il 4/10/2006, ossia nella vigenza della suddetta norma; ai sensi dell'art. 133 c.p.c., la consegna dell'originale completo del documento-sentenza al cancelliere, nella cancelleria del giudice che l'ha pronunciata, avvia il procedimento di pubblicazione, il quale si compie, senza soluzione di continuità, con la certificazione del deposito mediante l'apposizione, in calce al documento, della firma e della data del cancelliere.
Infine, per il principio generale di cui all'art. 11, comma 1, disp. prel. cod. civ., secondo cui, in mancanza di un'espressa disposizione normativa contraria, la legge non dispone che per l'avvenire e non ha effetto retroattivo, nonché del correlato specifico disposto del comma quinto dell'art. 58 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in base al quale le norme previste da detta legge si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore della medesima legge (4 luglio 2009), l'abrogazione dell'art. 366-bis cod. proc. civ. (intervenuta ai sensi dell'art. 47 della citata legge n. 69 del 2009) è diventata efficace per i ricorsi avanzati con riferimento ai provvedimenti pubblicati successivamente alla suddetta data, con la conseguenza che per i ricorsi, come quello in esame, proposti antecedentemente (dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006) tale norma è da ritenersi ancora applicabile (Cass. Sez.3, n. 7119 del 24/03/2010). Sul punto è stato escluso ogni dubbio di legittimità costituzionale del comma quinto dell'art. 58 cit. per contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto rientra nella discrezionalità del legislatore disciplinare nel tempo l'applicabilità delle disposizioni processuali e non appare irragionevole il mantenimento della pregressa disciplina per i ricorsi per cassazione promossi avverso provvedimenti pubblicati prima dell'entrata in vigore della novella (Cass. Sez. L. n. 26364 del 16/12/2009). Pertanto il primo motivo va dichiarato inammissibile.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 1322 e 1367 c.c. in riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c. e sostengono che il negozio testamentario doveva essere considerato parte integrante di un complesso di rapporti disciplinati da singoli negozi interdipendenti e al complesso dell'assetto di interessi delineato dalle parti doveva essere applicata la regola ermeneutica, invece violata, per la quale doveva essere attribuito un significato che consentisse al negozio di produrre i suoi effetti.
A conclusione dell'illustrazione del motivo formula il seguente quesito di diritto: 'la regola sancita dall'art. 1367 c.c. va applicata solamente nel persistere del dubbio interpretativo oppure costituisce regola basilare in materia di interpretazione?'.
2.1 Il motivo è del tutto infondato e al quesito occorre dare risposta negativa tenuto conto che il giudice di appello non ha espresso dubbi interpretativi e non risulta che ve ne siano.
Questa Corte ha costantemente affermato il principio di diritto opposto a quello propugnato dai ricorrenti, essendo affermazione costante di questa Corte quella secondo la quale in tema di interpretazione del contratto, il criterio ermeneutico contenuto nell'art. 1367 c.c. - secondo il quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno - va inteso non già nel senso che è sufficiente il conseguimento di qualsiasi effetto utile per una clausola, per legittimarne una qualsivoglia interpretazione pur contraria alle locuzioni impiegate dai contraenti, ma che, nei casi dubbi, tra possibili interpretazioni, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può portare una (o più) di esse e perciò evitando di adottare una soluzione che la renda improduttiva di effetti. Ne consegue che detto criterio - sussidiario rispetto al principale criterio di cui all'art. 1362, primo comma, cod. civ. - condivide il limite comune agli altri criteri sussidiari, secondo cui la conservazione del contratto, cui esso è rivolto, non può essere autorizzata attraverso una interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, dovendo in tal caso il giudice evitarla e dichiarare, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto (Cass. 22/12/2011 n. 28357; Cass. 30/3/2007 n. 7972; Cass. 7/10/2004 n. 19994).
3. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con la condanna dei ricorrenti, in quanto soccombenti, al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a pagare a alla parte controricorrente Ru.Mi. e C.E. le spese di questo giudizio di cassazione che liquida in Euro 2.000,00 di cui Euro 200,00 per esborsi.
05-04-2013 13:03
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