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Sentenza

Per usucapire un bene in comunione ad altri si deve avere il possesso e esterior...
Per usucapire un bene in comunione ad altri si deve avere il possesso e esteriorizzare il comportamento.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 26 marzo - 18 luglio 2013 n. 17630
Presidente Goldoni – Relatore Scalisi

Svolgimento del processo

F.I. con atto di citazione del 21 marzo 1994 conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Brescia F.C. , + altri, esponendo che in data (omissis) era deceduto in (…), lo zio paterno, U..F. , al quale erano intestati alcuni beni immobili tra i quali un fabbricato in (omissis) , con relativa quota in comproprietà del cortile comune; che fin dal 1957 esso attore aveva svolto in tale fabbricato la propria attività di falegnameria occupandolo ininterrottamente senza corrispondere alcunché allo zio, che alla morte dello zio l'immobile di cui si dice è stato inserito nella denunzia di successione sottoscritta da F.R. , con evoluzione agli eredi legittimi; che egli riteneva di aver usucapito la proprietà di tale immobile, avendolo goduto uti dominus per oltre 20 anni, che era caduto in successione anche un terreno di cui al catasto di Nave foglio 36 mapp. 30 e 31 dim. 510 e mq. 1040.
Tutto ciò premesso chiedeva che venisse dichiarato l'avvenuto acquisto per usucapione del fabbricato in (…) che fosse disposta la divisione del terreno, già indicato.
Si costituivano tutti i convenuti ad esclusione di F. , L. , An. , A. e Fe.Ma. , fratelli e nipoti dell'attore, dichiarando di aderire alla domanda di divisione del terreno e contestando invece, l'asserito acquisto per usucapione del fabbricato, che ritenevano che doveva essere ritenuto compreso nella massa ereditaria da dividere.
Il Tribunale adito,disposta consulenza tecnica, istruita la causa con sentenza del 24 ottobre 2002, rigettava la domanda di usucapione e dichiarava lo scioglimento della comunione ereditaria, assegnando il fabbricato ed il terreno ai resistenti e, ponendo a carico degli stessi un conguaglio in favore dell'attore e dei convenuti contumaci pari a L. 3.800.000. Riteneva il Tribunale che l'attore non aveva dato prova di aver posseduto con l'animus rem sibi habendi, considerato che era possibile, dati i rapporti molto stretti del de cuius con il nipote (anche dal punto di vista della coabitazione) che la disponibilità dell'immobile avrebbe potuto essere avvenuta per mera condiscendenza.
Avverso questa sentenza proponeva appello I..F. ribadendo la richiesta di vedersi riconosciuto l'avvenuto acquisto per usucapione del fabbricato e che fosse disposta la divisione della sola eredità relitta.
Si costituivano gli appellati già costituitisi in primo grado resistendo all'impugnazione e chiedendo la conferma della sentenza gravata.
Restavano contumaci F.L. , An. , A. , M. .
La Corte di appello di Brescia dopo aver disposto l'integrazione del contraddittorio nei confronti di Fe.Ma. , con sentenza n. 46 del 2007 rigettava l'impugnazione, condannava l'appellante al pagamento delle spese del grado di giudizio. Secondo la Corte di Brescia la presunzione di cui all'art. 1141 cc. è stata nel caso concreto vinta dalla testimonianza di R.G. , al quale lo stesso I. aveva detto che l'editicio era dello zio U. anche se il locale affittato al teste si trovava nella sua disponibilità per via dell'ospitalità data al nipote dallo zio medesimo. Pertanto, l'attore aveva la consapevolezza di detenere il bene, traendone i frutti con il consenso dell'effettivo intestatario. Avuto riguardo al dopo la morte dello zio U. , sul bene si formò una comunione tra gli eredi ed è pacifico il principio giurisprudenziale secondo cui con riferimento ai beni in comunione non è sufficiente il solo possesso perché possa maturare l'usucapione a favore di uno dei compartecipanti occorrendo un comportamento materiale che esteriorizzi sin dall'inizio in maniera non equivoca l'intento di possedere in maniera esclusiva.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da F.I. con ricorso affidato a due motivi di cui il primo articolato su due profili, illustrati con memoria. Gli eredi di F.C. + altri, hanno resistito con controricorso. F. , L. , An. , A. e Fe.Ma. , in questa sede non hanno svolto alcuna attività giudiziale.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo F.I. denuncia Violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 1158, 1164, 1697 cc e 116 cpc. in relazione all'art. 360 n. 3 cpc, nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360 n. 5 cpc, per non avere la Corte di Appello ritenuto provato l'esercizio del possesso uti dominus da parte di F.I. sull'immobile di causa, anche nel periodo antecedente la morte di F.U. , avvenuta il (omissis).
A).- Secondo il ricorrente la Corte bresciana non avrebbe sufficientemente chiarito le ragioni che escludevano un possesso uti dominus da parte di I..F. in ordine al fabbricato di cui si dice. Il fatto controverso e decisivo sarebbe costituito, sempre secondo il ricorrente, dalla circostanza che sarebbe stato raggiunto, ad avviso della Corte di merito, un accordo tra zio e nipote con oggetto la determinazione e la riscossione dei frutti dell'immobile che escluderebbe l'animus possidendi in capo al nipote. Piuttosto, specifica il ricorrente, la Corte di merito avrebbe trascurato la circostanza processuale dell'effettivo esercizio del possesso uti dominus sin dal 1958 e, cioè, anche nel periodo precedente la morte dello zio. In particolare, nel corso del giudizio di primo grado, I..F. avrebbe prodotto: a) delle ricevute di pagamento degli anticipi relativi al contratto di utenza dell'energia elettrica; b) copia dei certificati CCIAA relativi all'inizio sin dal 1.1.1959 della propria attività, sempre presso l'immobile di (…), ciò a comprova ineluttabile dell'uso esclusivo uti dominus del fabbricato di via (omissis). Relativamente a questa documentazione la Corte di appello, specifica il ricorrente, non avrebbe affermato nulla, ignorando le risultanze della stessa e non motivando alcunché in proposito. E di più, la Corte di merito, avrebbe interpretato erroneamente la deposizione del teste R.G. , così come anche delle altre deposizioni testimoniali, i quali, invece, avevano asserito direttamente o indirettamente che I..F. aveva esercitato il possesso esclusivo uti dominus sul bene di cui si dice.
B.- Secondo il ricorrente la Corte di merito avrebbe violato la legge, in particolare, la normativa di cui agli artt. 1140, 1141, 1158, 1164, 2697 cc. e 116 cpc, considerato che nel giudizio di merito l'attore avrebbe fornito prova piena e rituale dell'esercizio del possesso esclusivo uti dominus per il periodo richiesto dalla legge ai fini dell'usucapione immobiliare e che, pertanto, nel caso concreto non fosse necessario una interversio possessione.
Pertanto, il ricorrente conclude formulando il seguente quesito di diritto: Se ai fini dell'acquisto del diritto di proprietà per usucapione ex art. 1158 cc. in relazione anche agli artt. 1140, 1141, 1164 cc. il possessore, coerede e/o comproprietario possa provare il requisito del possesso ventennale uti dominus sull'immobile senza la necessità di compiere atti di interversio possessionis alla stregua dell'art. 1164 cc. potendo, invece, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa, incompatibili con il permanere del compossesso altrui".
1.1- Il motivo nella sua duplice articolazione è infondato.
Intanto, va qui evidenziato che al di là di ogni altra considerazione (sulla sostanziale e, in sede di legittimità, non consentita richiesta di riesame del merito della controversia, che la doglianza pure espone), va osservato che l'indagine volta a stabilire se determinate attività pongano in essere una situazione di possesso, utile ai fini di usucapione, ovvero siano dovute a mera tolleranza di chi potrebbe opporvisi, così da non poter servire di fondamento all'acquisto del possesso, ai sensi dell'art. 1144 cc, è indagine riservata al giudice di merito ed implica un apprezzamento di fatto, che, per l'appunto, diversamente da quanto raffigurato dal ricorrente, la Corte di merito risulta avere operato nella specie, dandone specifica ed in sé coerente motivazione, come innanzi riassunta in narrativa. D'altra parte, le dichiarazioni rese dal ricorrente al R. hanno indubbia valenza probatoria, potendo, al limite, essere assimilate ad una confessione stragiudiziale. In ogni modo dimostrano sufficientemente l'animus del predetto e giustamente sono state valorizzate nella sentenza impugnata.
In ragione di ciò, correttamente, la Corte di merito ha affermato che nel caso concreto la presunzione di cui all'art. 1141 primo comma è stata vinta dalla testimonianza di R.G. , al quale lo stesso I. aveva detto che l'edificio era dello zio U. anche se il locale affittato al teste di proprietà dello zio U. si trovava nella sua disponibilità per via dell'ospitalità data dal nipote allo zio medesimo. È evidente, ha chiarito ancora la Corte bresciana che l'accordo raggiunto verbalmente tra zio (proprietario) e nipote (detentore) al quale il R. pagava direttamente l'affitto non può essere stato idoneo a far sorgere nell'odierno appellante l'animus possidendi (egli stesso infatti ebbe a riconoscere la proprietà dello zio). Pertanto, appare evidente che la Corte bresciana, dopo attenta analisi, e dopo aver valutato l'assetto probatorio ha ritenuto che il rapporto di fatto tra I. e il bene di cui si dice integrava gli estremi di un'ipotesi di detenzione e non, invece, di possesso, consapevole, per altro, che il mero pagamento delle utenze domestiche non è di per sé sufficiente a dimostrare l'animus possidendi dell'usucapente o la pubblicità del possesso. Di qui l'ulteriore conseguenza che prima della morte dello zio U. , F.I. non aveva maturato il tempo dell'usucapione per mancanza non del corpus possessionis, ma per la mancanza dell'animus possidendi.
La Corte di merito, correttamente e con un iter logico condivisibile perché rispondente ai principi giuridici del nostro sistema normativo, ha, altresì, escluso che nel tempo successivo alla morte dello zio U. , I. avesse potuto acquistare il bene per usucapione perché, dopo la morte dello zio U. , si formò una comunione tra gli eredi ed è pacifico il principio giurisprudenziale secondo cui con riferimento ai beni in comunione non è sufficiente il solo possesso perché possa maturare l'usucapione a favore di uno dei partecipanti, occorrendo un comportamento materiale che esteriorizzi sin dall'inizio in maniera non equivoca l'intento di possedere il bene in maniera esclusiva.
1.1.a).- La censura in esame, comunque, appare infondata anche perché il ricorrente non deduce alcun fatto idoneo a mettere in dubbio l'attendibilità del teste R., né un fatto idoneo a neutralizzare la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto di fondarsi esclusivamente sulla ammissione di I. , testimoniata dal R., decisione che per altro appare coerente con il fatto incontestato che il nipote coabitasse con lo zio.
2.- Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 720 cc. in relazione all'art. 360 n. 3 cpc, nonché omessa e comunque insufficiente, motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360 n. 5 cpc. per avere la Corte di Appello confermato l'assegnazione degli immobili agli altri eredi richiedenti ex art. 720 cpc.
Avrebbe errato la Corte di Brescia, secondo il ricorrente nell'aver confermato l'assegnazione degli immobili agli altri eredi richiedenti ex art. 720 cpc, omettendo di motivare sul fatto controverso costituito dal presupposto per l'assegnazione dell'immobile ex art. 720 agli altri coeredi e, cioè, dell'esistenza di quelle ragioni di opportunità che dovevano necessariamente essere indicate a giustificazione della scelta.
2.1.- Il motivo è infondato.
In tema di divisione di cose comuni, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale di questa Corte (Cfr. sentenza n. 22857 del 28/10/2009) che pienamente si condivide come il più aderente alla lettera ed alla "ratio" ispiratrice delle regole dettale dall'art. 720 cod. civ., per il caso in cui, in presenza di un immobile indivisibile (o non comodamente divisibile), vi sia una pluralità di richieste di assegnazione, i criteri di attribuzione fissati dal citato articolo, in base ai quali l'immobile medesimo deve essere compreso per intero (con addebito dell'eccedenza) nella porzione del condividente avente la quota maggiore, ovvero nella porzione di più condividenti, qualora questi ne chiedano congiuntamente l'attribuzione, devono essere "preferibilmente" seguiti, nel senso che il giudice se ne può discostare solo per motivi di opportunità attinenti all'interesse comune dei condividenti, e purché assolva all'obbligo di fornire adeguata e logica motivazione della diversa valutazione di opportunità adottata.
Ora, nel caso in esame, la Corte di Brescia ha correttamente applicato il criterio indicato dall'art. 720 cod. civ. atteso che ha assegnato il bene ereditario ai coeredi che ne avevano fatto richiesta e che detenevano i 9/10 del bene stesso. E, a ben vedere, questa attribuzione contiene già una adeguata motivazione della scelta effettuata considerato che, come la stessa sentenza chiarisce, i coeredi cui è stato assegnato il bene detenevano la quota maggiore del bene stesso dato che i 9/10 rappresentano quasi la totalità del bene stesso.
Piuttosto, altre ragioni avrebbe dovuto addurre la Corte di Brescia, ove al contrario avesse ritenuto di attribuire il bene all'unico coerede, cioè al sig. I. , dato che la scelta sarebbe stata esattamente diversa da quella prescritta dall'art. 720 cc.
In definitiva, il ricorso va rigettato, la particolarità delle questioni prospettate giustificano la compensazione delle spese giudiziali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso compensa le spese giudiziali.
Avv. Antonino Sugamele

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