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Sentenza

La sentenza collegiale non è sottoscritta secondo le condizioni di cui all'artic...
La sentenza collegiale non è sottoscritta secondo le condizioni di cui all'articolo 132 cpc. Per la Cassazione la nullità è sanabile.
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 11 marzo – 20 maggio 2014, n. 11021
Presidente Rovelli – Relatore Vivaldi

Svolgimento del processo

La vicenda processuale trae origine da un giudizio di appello, definito con la riforma della sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda di usucapione dell'attrice, nel quale il presidente del Collegio aveva omesso di sottoscrivere la decisione (sentenza n. 322 del 2006).
Lo stesso presidente, informato del fatto dal cancelliere, dispose la comparizione delle parti in camera di consiglio e, quindi, fissò, con ordinanza, una nuova udienza collegiale per la rinnovazione della discussione della causa sull'assunto che, non essendosi completato l'iter decisorio del procedimento, doveva ritenersi persistere la potestas judicandi in capo all'organo giudicante, per cui la causa doveva (e poteva) nuovamente essere posta in decisione.
L'ordinanza fu impugnata dagli appellanti soccombenti con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. sul rilievo che, con essa, il collegio aveva considerato la sentenza non sottoscritta tamquam non esset e non solo giuridicamente inesistente, così precludendo la possibilità di impugnarla nelle forme di legge.
Evidenziarono, in particolare, che - secondo la costante giurisprudenza di legittimità - una volta intervenuta la pubblicazione della sentenza, il giudice adito si spoglia del potere di decidere sulla domanda portata al suo esame, restando la sua potestà giurisdizionale esaurita in relazione alla specifica controversia.
Nelle more del ricorso, la Corte d'Appello emise una nuova deliberazione (con la sentenza n. 862 del 2006, nella medesima composizione collegiale) di contenuto identico alla precedente.
Gli appellanti soccombenti proposero ricorso contro questa decisione, atteso che la pubblicazione della precedente sentenza, ancorché affetta da nullità assoluta, aveva comportato il totale esaurimento della potestà giurisdizionale del giudice in relazione alla specifica controversia.
Chiesero, quindi, la rimessione del processo alla Corte d'appello di Salerno perché provvedesse alla rinnovazione del giudizio con un diverso collegio. In cassazione i due ricorsi sono stati riuniti.
La Sezione Seconda civile, investita dei ricorsi (nn. 25447/2006 e 2696/2008), con ordinanza del 2.7.2013 n. 16571, emessa all'esito dell'udienza del 22.5.2013, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
I ricorsi riuniti sono stati chiamati alla presente udienza davanti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Motivi della decisione

1. La questione di diritto posta dall'ordinanza di rimessione.
La Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione, investita dei ricorsi nn. 25447/2006 e 2696/2008, con ordinanza del 2.7.2013, emessa all'esito dell'udienza del 22.5.2013, ha trasmesso gli atti al primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni unite, profilandosi, in relazione alla tematica che i ricorsi presentavano, un contrasto di soluzioni giurisprudenziali da parte delle sezioni semplici della Corte, e, comunque, ponendosi una questione di massima di particolare importanza con riferimento alla natura del vizio della sentenza collegiale priva della sottoscrizione del presidente del collegio, alla disciplina processuale applicabile, ed al regime della sua impugnabilità.
La Corte ha ripercorso e dettagliatamente illustrato l'iter della giurisprudenza della Corte che su tale tematica si è variamente pronunciata.
2. Gli orientamenti della Corte di cassazione.
Nell'interpretazione giurisprudenziale assumono rilievo due distinti profili.
Da un lato, le decisioni della Suprema Corte hanno investito l'ambito dell'art. 161 cpv. c.p.c., ossia, in concreto, se vi siano ipotesi in cui l'omessa sottoscrizione, parziale o totale, non determini necessariamente un vizio assoluto della sentenza.
Dall'altro, poi, l'elaborazione giurisprudenziale ha cercato di individuare quali fossero gli eventuali rimedi per ovviare al vizio in cui l'atto fosse incorso.
Secondo l'orientamento maggioritario, la sentenza collegiale priva della sottoscrizione del presidente del collegio (o dell'estensore) è affetta da nullità assoluta e insanabile (parificata all'inesistenza) per l'assenza di un requisito essenziale del provvedimento; e tale vizio non sarebbe emendabile, né con il procedimento di correzione degli errori materiali, né con la rinnovazione della pubblicazione da parte del medesimo organo (che ha esaurito la sua funzione giurisdizionale), senza possibilità di distinguere tra omissione intenzionale o involontaria (da S.U. 9.3.1981 n. 1297; da ultimo Cass.26.5.2009 n. 12167; Cass. 28.9.2006 n. 21049; in precedenza fra le tante Cass. 16.11.1988 n. 6204).
In questa evenienza la causa, in esito all'impugnazione, va rimessa al medesimo giudice che ha emesso il provvedimento che dovrà provvedere, non alla mera rinnovazione della sentenza ma al riesame del merito della controversia.
Un altro risalente orientamento, invece, ritiene che la sentenza sia integrabile attraverso l'applicazione del procedimento di correzione degli errori materiali, mentre un'ulteriore posizione distingue tra omissione intenzionale e omissione involontaria, ritenendo solo la prima inemendabile (Cass. 15.3.1952 n. 694; Cass. 13.10.1975n. 3310; da ultimo, segue questo orientamento Cass. 2.12.1983 n. 7226).
Una ulteriore tesi poi, pur ribadendo la gravità del vizio, ha ritenuto ammissibile che l'atto possa essere rinnovato dallo stesso giudice funzionalmente competente con l'emissione di una nuova, valida sentenza (Cass. 22.9.1993 n.9661; Cass. 31.10.2005 n. 21193).
Questa soluzione è apparsa idonea ad assumere uno specifico rilievo con riferimento alle pronunce della Corte di cassazione che siano affette da un simile vizio (vale a dire mancanti della sottoscrizione del consigliere estensore o del presidente del collegio).
Rispetto a queste, infatti, non sono esperibili gli ordinari mezzi di impugnazione, e l'esperimento dell'azione di nullità - di per sé limitata alla sola rimozione della decisione invalida - impedirebbe l'adozione di una valida pronuncia sostitutiva di quella nulla.
In dottrina, poi, anche se l'orientamento dominante ritiene la sentenza priva di sottoscrizione radicalmente nulla, e suscettibile di essere rimossa, oltre che con gli ordinari mezzi di impugnazione, solo con una autonoma azione di accertamento negativo, di per sé non sottoposta a limiti temporali, sono state avanzate tesi che ridimensionano l'incidenza del vizio.
Sotto questo profilo, infatti, si è affermato che l'art. 161 cpv. c.p.c. riguarda la sola ipotesi in cui l'omissione investa entrambe le sottoscrizioni - sia del presidente del collegio sia dell'estensore -, mentre, in tutti i casi di difetto parziale di sottoscrizione (indipendentemente dalla volontarietà o meno dello stesso), la vicenda si incanala nella disciplina nell'art. 156, secondo comma, c.p.c..
I rimedi.
Secondo l'orientamento prevalente, una volta intervenuta la pubblicazione della sentenza, il giudice adito si spoglia del potere di decidere sulla domanda già portata al suo esame, dovendosi considerare il suo potere di giurisdizione esaurito in relazione a quella controversia, e la sentenza emessa - anche se, eventualmente, gravemente viziata, come nell'ipotesi di mancata sottoscrizione rituale da parte del giudice - può essere esclusivamente rimossa o attraverso l'impugnazione al giudice sopra ordinato (a seconda dei casi, con l'appello o con il ricorso per cassazione) - e, quindi, con gli stessi rimedi prescritti dal primo comma dell'art. 161 cod. proc. civ. per le nullità a carattere relativo - ovvero con la proposizione di autonoma actio nullitatis, trattandosi di nullità assoluta.
La mancanza di questo requisito essenziale determina - come detto - la nullità assoluta della sentenza, senza la possibilità che il vizio sia sanabile, né attraverso il procedimento di correzione degli errori materiali (che presuppone un provvedimento dal contenuto affetto da omissioni od errori, ma ormai completo nel suo procedimento di formazione), né, tantomeno, con la rinnovazione della pubblicazione da parte dello stesso organo che - emessa la pronunzia - ha ormai esaurito la sua funzione giurisdizionale.
Tale vizio di nullità, rilevabile anche d'ufficio, comporta la rimessione della causa al medesimo giudice che ha emesso la sentenza carente di sottoscrizione, il quale viene investito del potere dovere di riesaminare il merito della causa stessa e non può limitarsi ad una semplice rinnovazione della sentenza.
Resta quindi escluso che dopo la pubblicazione della sentenza possa procedersi ad una integrazione delle sottoscrizioni con l'apposizione di quelle mancanti, per l'ormai avvenuta consumazione della potestà giurisdizionale da parte del giudice che ha emesso il provvedimento.
3. La decisione di questa Suprema Corte.
Sulla questione, quindi, le posizioni assunte dalla giurisprudenza - come si è visto - sono molteplici.
Dall'orientamento dominante, per il quale la sentenza collegiale priva della sottoscrizione del presidente o dell'estensore sarebbe affetta da nullità assoluta e insanabile, in quanto mancante di un elemento essenziale dell'atto si passa a quello, diametralmente opposto, per il quale il vizio sarebbe emendabile con la procedura di correzione degli errori materiali.
Ma queste prese di posizione riguardano la sentenza totalmente priva di sottoscrizione.
Quando invece l'omissione è parziale, la visione prospettica che le Sezioni Unite intendono percorrere è quella dell'applicabilità dell'art. 161, comma 1 c.p.c., con la conseguente conversione della nullità in motivo di impugnazione.
Innanzitutto, non conviene addentrarsi nell'irto sentiero tracciato da un fugace accenno della Relazione al codice di procedura civile: distinguere cioè tra errore e dolo del giudice nell'omettere la sottoscrizione.
Va svalutata la rilevanza della distinzione tra omissione volontaria e involontaria.
Invero, di regola gli stati soggettivi del giudice sono irrilevanti nel processo, e non costituiscono causa di nullità.
Quando il legislatore ha voluto dar rilievo processuale a tali stati cognitivi lo ha fatto con norme specifiche, che hanno anche previsto un procedimento volto a tale accertamento.
Di questa voluntas legis non c'è traccia alcuna nell'art. 161 c.p.c..
E - va aggiunto - a giusta ragione, perché prevedere una nullità assoluta nel caso di dolosa omissione di un giudice (che, magari, messo in minoranza non ha condiviso la decisione) significherebbe consentire a quella voluntas prava di raggiungere i suoi effetti perversi.
Le Sezioni Unite ritengono altresì che non sia percorribile il tracciato che porta all'applicazione della procedura di correzione degli errori materiali.
La ragione è palese: se la norma qualifica espressamente la sottoscrizione come elemento essenziale della sentenza, tanto da sancirne la mancanza con la sanzione della nullità, è evidentemente precluso il percorso ermeneutico che - in urto frontale con il testo e l'interpretazione sistematica - declassi quell'elemento da essenziale ad inessenziale per rendere possibile la procedura anzidetta.
Le Sezioni Unite ritengono invece che la soluzione della quaestio iuris vada trovata, valorizzando la distinzione tra "mancanza" e "insufficienza" della sottoscrizione del giudice.
Questa distinzione è familiare al codice (pensiamo all'art. 132 ultimo comma c.p.c.) e deriva dalla diretta e cospirante applicazione dei criteri ermeneutici testuale, logico e della ratio legis.
Cominciamo da quest'ultimo.
La sottoscrizione della sentenza è richiesta per il perfezionamento dell'atto.
La sottoscrizione è elemento essenziale perché la sentenza sia riconoscibile come tale e ne sia palese la provenienza dal giudice che l'ha deliberata.
Forti di questa ratio legis caliamoci, ora, sul testo della disposizione e applichiamo il criterio ermeneutico linguistico: si parla di sottoscrizione del giudice.
Se interpretiamo il testo alla luce della ratio legis, si aprono due interpretazioni possibili: a) per sottoscrizione bisogna intendere la doppia sottoscrizione del presidente e del relatore; b) per sottoscrizione bisogna intendere la sottoscrizione di almeno un giudice.
Ora, sotto il profilo testuale, mancanza ed insufficienza hanno una diversa estensione semantica: l'insufficienza si predica di ciò che esiste, non di ciò che non esiste.
Per fare un esempio, una motivazione mancate non può essere definita insufficiente. E si può qualificare insufficiente solo una motivazione che comunque c'è.
Anche sotto il profilo logico, mancanza e insufficienza non sono categorie concettualmente assimilabili in un unicum indifferenziato.
La mancanza di un elemento dell'atto significa assenza totale dell'elemento.
L'insufficienza significa invece che l'elemento esiste ma è viziato: non è mancante, ma manchevole.
Alla diversità concettuale corrisponde una diversità funzionale.
Nel nostro caso, la mancanza di sottoscrizione impedisce la riconducibilità dell'atto al giudice collegiale. Laddove invece l'insufficiente sottoscrizione da parte del giudice collegiale non impedisce che (tramite la firma presente) la sentenza sia direttamente ascrivibile al giudice che l'ha pronunciata.
I criteri ermeneutici testuale, logico e della ratio legis sono definitivamente rafforzati dal criterio ermeneutico dell'interpretazione costituzionalmente orientata.
Vengono in rilievo il principio di razionalità e quello di ragionevole durata. Dal principio di razionalità, che deve innervare qualsiasi interpretazione giuridica, ricaviamo il seguente argomento: a) secondo un criterio di normalità, la mancanza di una delle firme di una sentenza collegiale è normalmente (cioè nella quasi totalità dei casi) dovuta a semplice dimenticanza; b) ora, è irrazionale far derivare da un mero, banalissimo errore conseguenze così catastrofiche per la parte vittoriosa e conseguenze così clamorosamente favorevoli per la parte soccombente.
Il principio di razionalità è, a sua volta, potentemente rafforzato dal principio di ragionevole durata del processo e della sua diretta implicazione operativa: cioè il criterio di efficienza processuale.
Questo principio ci dice: le nullità insanabili hanno un effetto devastante sul processo.
Un tale effetto si giustifica solo se il costo del ritardo è bilanciato (e dunque giustificato) dal risultato di accrescere sensibilmente la giustizia del processo.
Dunque, il principio di ragionevole durata trova un limite insormontabile nel principio del giusto processo.
Ma, nel nostro caso, un'interpretazione che sancisse la nullità assoluta della sentenza priva di una delle due sottoscrizioni sarebbe un formidabile vulnus alla ragionevole durata del processo ma - al tempo stesso – sarebbe una ferita aperta allo stesso principio del giusto processo, perché si annullerebbe una sentenza conforme al giusto processo (a meno che ovviamente non vi siano altri vizi: ma questa è prospettiva che non ci riguarda).
È davvero difficile immaginare un'interpretazione che - in un colpo solo - ferisca giusto processo e ragionevole durata.
La distinzione, invece, tra mancanza e insufficienza della sottoscrizione schiva tutti questi inconvenienti e ripristina la razionalità del sistema: non si può rispondere a quello che è - secondo criteri di normalità - un banale errore di dimenticanza con una reazione così spropositata come la nullità assoluta.
Occorre una rispondenza logica - cioè una proporzione - tra azione e reazione: all'errore per dimenticanza si reagisce col meccanismo della nullità sanabile, cioè del primo comma dell'art. 161 c.p.c..
La nullità c'è perché la fattispecie processuale concreta non è conforme al tipo normativo in quanto un elemento strutturale di essa - pur essendoci - è difettoso.
Ma si tratta di un vizio emendabile, nel senso che la mancata proposizione del motivo di impugnazione da luogo ad una fattispecie processuale alternativa - normativamente prevista dall'art. 161 comma 1 c.p.c. - equipollente a quella tipica ed idonea al raggiungimento dello scopo.
4. L'esame dei ricorsi.
Le conclusioni cui si è pervenuti rendono evidente l'inammissibilità dei ricorsi per cassazione proposti.
Il primo ricorso (R.G. 25447/2006) è stato proposto avverso un provvedimento - l'ordinanza del 28.7.2006 - che non ha contenuto decisorio, con la conseguente inammissibilità della sua impugnazione con il ricorso ex art. 111 Cost..
Il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., infatti, è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi ed abbiano carattere decisorio; cioè siano in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale (fra le varie S.U. ord. 8.3.2006 n. 4915; S.U. ord. 23.1.2004 n. 1245).
Il che ovviamente non è con riferimento ad un'ordinanza che chiude soltanto una fase incidentale del processo.
Il secondo ricorso (R.G.2698/2008) ha ad oggetto l'impugnazione della sentenza nuovamente resa dalla Corte di merito correttamente, con la sottoscrizione anche del Presidente del Collegio, ma emessa - per le ragioni dette - in carenza di potestas iudicandi.
Le ricorrenti, invece, avrebbero dovuto impugnare con ricorso per cassazione ai sensi dell'artt. 360 n. 4 c.p.c. proprio la prima sentenza, pubblicata in data 31.3.2006, emessa dalla Corte di merito priva della sottoscrizione del Presidente del Collegio, convertendo il vizio in motivo di ricorso per cassazione.
Diversamente, questa sentenza è passata in giudicato per la sua mancata impugnazione.
Conclusivamente, i ricorsi sono dichiarati inammissibili.
Le ragioni della decisione e la complessità delle questioni trattate giustificano la compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando a sezioni unite, dichiara inammissibili i ricorsi. Compensa le spese.
Avv. Antonino Sugamele

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