Un ex segretario comunale, revocato dall'incarico, invia al Sindaco e alla Giunta uno scritto difensivo dove venivano riportate frasi offensive verso un uomo che avrebbe tenuto atteggiamenti “intimi” con una dipendente nei luoghi di lavoro. Detti scritti venivano consegnati ad un giornalista che li pubblicava su un quotidiano.-
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 8 gennaio – 19 febbraio 2014, n. 3973
Presidente Russo – Relatore Carluccio
Svolgimento del processo
1. V.C., ex segretario comunale del Comune di Gatteo, revocato dal Sindaco ai sensi dell'art. 15 del d.P.R. 4 dicembre 1997, n. 465, venne condannato dal Tribunale di Forlì, insieme al giornalista P.M. - in ragione della percentuale di colpa, rispettivamente del 20% e dell'80% - al risarcimento dei danni, in favore degli allora coniugi L.R. e M.B., per aver offeso la reputazione e l'onore di costoro in uno scritto difensivo, attribuendo al primo atteggiamenti "inequivocabili" con una dipendente nei luoghi di lavoro. Lo scritto difensivo era stato inviato al Sindaco e alla Giunta Comunale ed era stato redatto per rispondere alle contestazioni del Sindaco, che avevano condotto alla revoca dell'incarico; poi era stato riportato in un articolo di cronaca pubblicato sul quotidiano "Il resto del Carlino", firmato dal M., al quale il C. aveva consegnato la documentazione.
L'impugnazione, proposta dal solo C., venne respinta dalla Corte di appello di Bologna (sentenza dell'11 maggio 2009).
2. Avverso la suddetta sentenza, C. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, esplicati da memoria.
R. resiste con controricorso e deposita memoria. La B., ritualmente intimata, non svolge difese.
Motivi della decisione
1. La Corte di merito si è preliminarmente soffermata sulla portata offensiva delle affermazioni, contenute nelle controdeduzioni difensive del C., con le quali erano stati attribuiti al R. comportamenti «inequivoci» con una dipendente sul luogo dì lavoro. Ha ritenuto il carattere offensivo e lesivo della reputazione delle affermazioni, stante il carattere volutamente allusivo, la mancanza di dubbi sull'attribuzione di comportamenti a sfondo intimo sessuale e la natura di atto pubblico destinato alla affissione all'albo comunale, nel quale erano contenute. Ha evidenziato che tale atto aveva costituito il presupposto per la redazione dell'articolo da parte del giornalista, il quale aveva riferito di una storia a «luci rosse». Né, secondo la Corte, il carattere diffamatorio poteva essere messo in dubbio dalla circostanza che le nuove prove documentali in appello testimoniavano la successiva convivenza del R. con l'impiegata e la nascita di una figlia.
Quindi, ha argomentato in ordine alla scriminante dell'esercizio del diritto (art. 51 cod. pen.) invocata dall'appellante. La Corte di merito - diversamente dal giudice di primo grado - ha riconosciuto il rapporto di strumentalità tra le frasi offensive contenute nello scritto difensivo e le accuse rivolte al segretario comunale dal Sindaco nell'ambito del procedimento di revoca, nel quale il segretario era stato accusato del peggioramento dei rapporti umani con i dipendenti di alcuni uffici a causa di affermazioni lesive delle dignità. Tuttavia, secondo la Corte, la condotta non sarebbe scriminata sotto il profilo dell'esercizio del diritto (51 cod. pen.) di difesa perché la consegna materiale al giornalista della delibera comunale e delle difese allegate dimostrerebbe la volontà del C. di voler arrecare offesa.
Ad abundantiam, ha aggiunto espressamente la Corte, il risarcimento è dovuto per la lesione dei valori della persona costituzionalmente protetti, indipendentemente se costituiscano o meno un reato; è dovuto per fatti non previsti dalla legge come reato e se il fatto non integra reato (Cass. 14 ottobre 2008, n. 25157). Tale considerazione, secondo la Corte, spiega l'irrilevanza dell'archiviazione pronunciata in sede penale rispetto all'art. 595 c.p.
2. Le censure contenute nei motivi di ricorso sono strettamente intrecciate; di conseguenza è opportuna una trattazione unitaria.
2.1. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 51 cod. pen., 15, comma 5, del d.P.R. n. 465 del 1997, 2043 e 2059 cod. civ.
Si censura la Corte dì merito per aver ritenuto, in violazione delle suddette norme, che le allegazioni difensive contenenti frasi offensive fossero scriminate dall'esercizio del diritto di difesa perché strumentali alle contestazioni ricevute ai fini della revoca dell'incarico di segretario comunale e che non fosse scriminata, invece, per la volontà lesiva in essa manifestata, l'ulteriore condotta costituita dall'aver consegnato al giornalista le suddette allegazioni difensive.
In particolare, secondo il ricorrente, quest'ultimo comportamento non potrebbe assumere autonomo rilievo e sarebbe giuridicamente irrilevante; ed, erroneamente, la Corte di merito avrebbe considerato solo l'elemento soggettivo, quale la volontà di diffamare con la consegna dei documenti al giornalista, in mancanza dell'elemento oggettivo scriminato dall'esercizio del diritto, mentre il reato ha bisogno di entrambi gli elementi; quindi, una volta ritenuta la non esistenza della antigiuridicità del fatto non andrebbe compiuto altro accertamento.
2.2. Con il secondo motivo si deduce contraddittorietà della motivazione, per aver individuato nelle controdeduzioni scritte il momento perfezionativo dell'illecito ed aver valutato la sussistenza (dell'illecito) rispetto ad un momento successivo, anche autonomo rispetto alla condotta del giornalista.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 324, 333 cod. proc. civ. e 2909 cod. civ., in combinato disposto agli artt. 51 cod. pen., 15, comma 5, del d.P.R. n. 465 del 1997, 2043 e 2059 cod. cív., unitamente a contraddittorietà della motivazione.
Si imputa alla Corte di merito di aver ritenuto non scriminato il fatto della consegna della delibera e delle allegazioni difensive al giornalista, considerato come condotta distinta, in violazione delle suddette norme; in particolare, in violazione del giudicato formatosi sulla sentenza di primo grado, (che pure aveva negato la scriminante anche per la fase del procedimento), secondo la quale non vi era stato concorso tra le condotte del C. e del giornalista nel reato di diffamazione a mezzo stampa.
2.4. Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 cod. civ., oltre che dell'art. 51 cod. pen.
Si sostiene che la Corte avrebbe errato nel ritenere risarcibile il danno quando sono lesi valori costituzionali, indipendentemente dalla esistenza della tutela penale e indipendentemente dalla circostanza che, per effetto della scriminante, non sia integrato il reato. Mette in evidenza che la scriminante esclude l'antigiuridicità del fatto e che è risarcibile solo il danno ingiusto che è quello arrecato in difetto di una causa di giustificazione.
3. I motivi di ricorso sono infondati e vanno rigettati.
Preliminarmente, va sgombrato il campo dal vizio di motivazione, dedotto autonomamente con il secondo motivo e unitamente alla violazione di legge con il terzo. Le censure non hanno una specifica autonomia afferente alla quaestio facti, come è dimostrato anche dalla mancanza, in entrambi, del momento di sintesi o c.d. quesito di fatto, richiesto dall'art. 366 bis cod. proc. civ. secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità. Piuttosto, concernono profili giuridici sviluppati anche negli altri motivi.
3.1. Dall'ambito delle censure avanzate nei confronti della sentenza impugnata deriva che non si controverte più: sul carattere offensivo e lesivo della reputazione delle affermazioni contenute negli scritti in argomento; sul se il contenuto degli scritti difensivi utilizzati all'interno del procedimento di revoca dell'incarico di segretario comunale rientri nell'esercizio del diritto di difesa, con conseguente liceità del fatto. Le censure riguardano, invece, la mancata ricomprensione della condotta esterna al procedimento nell'ambito della attività resa lecita dall'esercizio del diritto di difesa.
Quindi, la questione centrale posta all'attenzione della Corte è «se, nell'ipotesi in cui uno scritto diffamatorio sia stato redatto dall'autore per difendersi (nella specie mediante invio al Sindaco e alla Giunta comunale nell'ambito del procedimento di revoca dell'incarico di segretario comunale) e, quindi, nell'esercizio del diritto di difesa, scriminato ai sensi dell'art. 51 cod. pen., rientri nell'esercizio del diritto, con conseguente liceità del fatto, anche l'attività, esterna (e successiva) al procedimento suddetto, consistente nella diffusione dello stesso scritto ad opera dello stesso soggetto (nella specie mediante la consegna ad un giornalista che lo riportò in un articolo pubblicato sul quotidiano).
Al quesito deve darsi risposta negativa.
3.2. Il confine funzionale, e temporale, tra atti strumentali alla difesa e atti che esorbitano dalla stessa emerge chiaramente dalla sentenza impugnata, che individua nella consegna degli scritti al giornalista l'atto con il quale si è voluto recare offesa.
Tuttavia, è opportuno soffermarsi sui profili giuridici che rilevano ai fini di tale distinzione, in tal modo integrando la motivazione del giudice.
3.3. In presenza della scriminante o causa di giustificazione dell"'esercizio del diritto" (art. 51 cod. pen.) un fatto, che altrimenti configurerebbe un reato, non è tale perché consentito. Il fondamento della liceità del fatto va individuato nella prevalenza dell'interesse attuabile mediante l'esercizio del diritto rispetto all'interesse tutelato dalla norma penale incriminatrice. In generale, il fatto scriminato è lecito per l'intero ordinamento giuridico e trova il proprio fondamento logico-giuridico nel principio di non contraddizione per cui lo stesso ordinamento non può consentire ed a un tempo vietare il medesimo fatto senza rinnegare se stesso.
Nella specie, vengono in questione due diritti a fondamento costituzionale: l'esercizio del diritto di difesa, in un procedimento amministrativo svolto in contraddittorio con l'interessato, volto alla revoca dell'incarico di segretario comunale per gravi violazioni dei doveri di ufficio, tutelato dall'art. 24 Cost.; il diritto all'onore e alla reputazione, tutelato dall'art. 2 Cost. Dalla valenza costituzionale di entrambi i diritti discende che non possono che essere molto stretti i casi in cui il bilanciamento tra di essi si risolva con la prevalenza dell'esercizio di diritto di difesa, e la conseguente esclusione della illiceità del fatto punito dalla norma penale per assicurare la tutela del diritto all'onere.
Il varco è innanzitutto delimitato dalla strumentalità dell'atto rispetto alla difesa nel processo/procedimento: le espressioni offensive devono essere attinenti in modo diretto ed immediato rispetto all'oggetto del processo/procedimento nel quale il diritto di difesa è esercitato.
Il varco è reso ancora più stretto dal carattere della necessità dell'atto difensivo. Ed, infatti, la giurisprudenza di legittimità in sede penale riconduce all'esercizio di diritto di difesa solo gli atti strettamente necessari alla stessa, con conseguente totale liceità ed esclusione di qualunque conseguenza pregiudizievole. Questo percorso è evidente nella delimitazione dell'ambito di operatività dell'art. 598 cod. pen., rispetto all'esercizio del diritto di difesa tutelato dalla Costituzione. Essendo prevista nell'art. 598 cit. la permanenza di conseguenze diverse dalla pena (cancellazione scritture offensive, risarcimento del danno) e, quindi l'esclusione della sola punibilità, si è riferito l'ambito di operatività di questa speciale causa di non punibilità a comportamenti che, pur strumentali all'esercizio del diritto di difesa (nei procedimenti giudiziari ed amministrativi), fossero non strettamente necessari alla difesa (perché altrimenti sarebbero stati scriminati ai sensi dell'art. 51 cod. pen.) ma esorbitanti (per es. contenendo gravi intemperanze verbali, insulti e invettive) rispetto alla stessa (Cass. pen. n. 39934 del 2005, Ferrari).
Quando manca il carattere necessario, e pure quando via sia la sola strumentalità, utile ai fini della sola irrilevanza penale (senza che vi siano differenze nelle diversità terminologiche tra l'art. 598 cod. pen. e l'art. 89 cod. proc. civ., Cass. pen. n. 6701 del 2006, Massetti ed altro), non ci può essere scriminante per l'esercizio del diritto di difesa.
Consegue che nella consegna al giornalista del documento difensivo contenente offese all'onore e alla reputazione è carente, prima ancora che il carattere della necessità difensiva all'interno del procedimento, lo stesso carattere di strumentalità rispetto alla difesa nel procedimento.
Pertanto, del tutto prive di fondamento risultano le censure, sotto vari profili, che assumono erroneamente come presupposto l'operatività della scriminante dell'esercizio del diritto fuori dal procedimento nel quale il diritto di difesa è esercitato.
Il ricorso va rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: «Nell'ipotesi in cui uno scritto diffamatorio sia stato redatto dall'autore per difendersi (nella specie mediante invio al Sindaco e alla Giunta comunale nell'ambito del procedimento di revoca dell'incarico di segretario comunale) e, quindi, nell'esercizio del diritto di difesa, scriminato ai sensi dell'art. 51 cod. pen., non integra esercizio del diritto di difesa l'attività, esterna (e successiva) al procedimento suddetto, consistente nella diffusione dello stesso scritto ad opera dello stesso soggetto (nella specie mediante la consegna ad un giornalista che lo riportò in un articolo pubblicato sul quotidiano), mancando il carattere di strumentalità e di necessità dell'atto rispetto all'oggetto del procedimento nel quale l'esercizio del diritto di difesa è tutelato».
3.4. La Corte di merito ha correttamente valutato la consegna al giornalista del documento contenente frasi offensive in modo autonomo rispetto alla scriminante dell'esercizio del diritto. Né a tale valutazione era di ostacolo l'archiviazione disposta dal giudice penale, essendo pacifico che «Il decreto di archiviazione dell'azione penale (adottato ai sensi dell'art. 408 e segg. cod. proc. pen.) non impedisce che lo stesso fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dal giudice civile, poiché, a differenza della sentenza, la quale presuppone un processo, il provvedimento di archiviazione ha per presupposto la mancanza di un processo e non dà luogo a preclusioni di alcun genere.» (Cass. 13 aprile 2007, n. 8888).
3.5. Né quale ostacolo a tale pronuncia poteva valere l'esclusione del concorso tra la condotta del C. e del giornalista, già affermata dal giudice di primo grado e ritenuta anche dalla Corte di merito che considera la condotta del C. in modo autonomo e indipendente dalla scelta del giornalista di pubblicare un articolo sulla base dei documenti ricevuti. Infatti, è pacifico che, affinché più persone possano essere chiamate a rispondere in solido di un fatto illecito, secondo la regola dell'art. 2055 cod. civ. è sufficiente che, anche con condotte indipendenti, tutte abbiano causato il medesimo fatto dannoso (Cass. 14 ottobre 2008, n. 25157).
4. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Non avendo la B. svolto attività difensiva, non sussistono le condizioni per la pronuncia in ordine alle spese processuali nei sui confronti.
Le spese, liquidate sulla base dei parametri vigenti di cui al d.m. n. 140 del 2012, seguono la soccombenza nei confronti del R.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore di L.R., delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
21-02-2014 22:07
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