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Sentenza

Spot pubblicitario per la vendita di un rilevatore di autovelox. Nello spot vien...
Spot pubblicitario per la vendita di un rilevatore di autovelox. Nello spot viene inserito senza autorizzazione un brano del telegiornale di Canale 5. La giornalista conduttrice chiede 700 miloni di lire di risarcimento.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 8 ottobre – 27 novembre 2015, n. 24221
Presidente Salmé – Relatore Barreca

Svolgimento del processo

1.- A. S., giornalista televisiva, citava in giudizio dinanzi al Tribunale di Padova le società T. e S. s.r.l. e T.N.E. - D. E. s.p.a. per sentirle condannare in solido al risarcimento dei danni, morali e patrimoniali, quantificati nell'importo di lire 700.000.000 od in altra cifra ritenuta di giustizia. L'attrice assumeva che i danni le erano stati causati -per lesione della sua reputazione personale e professionale e per violazione del suo diritto all'immagine- dalla trasmissione sulla rete televisiva T.N.E. (di cui D. E. s.p.a. era editrice) di uno spot pubblicitario distribuito dall'altra società convenuta, che aveva ad oggetto un dispositivo in grado di rivelare all'automobilista la presenza di autovelox sulla strada; nel filmato era stato inserito, senza autorizzazione, un brano del TG5, trasmesso dalla rete televisiva Canale 5, in cui la dottoressa S., in qualità di giornalista conduttrice riferiva della commercializzazione dell'apparecchio e della contesa circa la sua legalità.
1.1.- Si costituiva la società T. e S. s.r.l., affermando di non aver partecipato alla produzione ed alla distribuzione della televendita.
Si costituiva anche la società editrice, resistendo alla domanda e svolgendo domanda di manleva nei confronti, oltre che dell'altra convenuta, della società E. P. S.r.l., committente del comunicato, che chiedeva ed otteneva di chiamare in causa.
La società chiamata in causa si costituiva, svolgendo difese analoghe a quelle della D. E. s.p.a.
1.2.- Il Tribunale -dopo l'interruzione del giudizio dovuta alla dichiarazione di fallimento della società E. P. S.r.l. (il cui curatore aveva poi comunicato di non avere interesse alla costituzione) e la sua riassunzione da parte dell'attrice- accoglieva la richiesta istruttoria di quest'ultima e prendeva visione della videocassetta contenente lo spot pubblicitario.
Quindi, con sentenza del 26 luglio 2006, rigettava la domanda compensando le spese processuali.
2.- Avverso la sentenza A. S. proponeva appello, a cui resisteva soltanto D. E. s.p.a.. Gli altri appellati restavano contumaci.
Con la sentenza qui impugnata, pubblicata il 12 marzo 2012, la Corte d'Appello di Venezia ha rigettato l'appello, condannando l'appellante al pagamento delle spese del grado.
3.- Contro questa sentenza A. S. propone ricorso affidato a tre motivi illustrati da memoria. La società A. T. N. E. s.p.a., già A. T. N. E. s.r.l. incorporante D. E. s.r.l., si difende con controricorso e memoria.

Motivi della decisione

1.- La Corte d'Appello, condividendo la valutazione compiuta dal giudice di primo grado, ha respinto l'impugnazione per le seguenti ragioni:
- a) nel caso di specie non è avvenuto che l'immagine della S. sia stata associata al prodotto, del quale si voleva promuovere la vendita, al fine di fare insorgere nel pubblico la convinzione che la giornalista televisiva reclamizzasse il prodotto stesso. In particolare, la Corte ha escluso che la predetta sia divenuta, suo malgrado, "testimonial" del prodotto reclamizzato;
- b) l'inserimento nello spot pubblicitario (che «si dilunga sulle caratteristiche tecniche del prodotto») di una parte di un telegiornale di Canale 5, del quale era conduttrice la S., era volto a trasmettere al pubblico soltanto l'importanza a livello nazionale del prodotto. In particolare, la Corte ha riconosciuto il collegamento tra l'affermazione contenuta nel filmato «che di detto prodotto si erano occupati anche la stampa e la televisione» e l'inserimento del brano di un telegiornale nazionale che dava notizia della commercializzazione del dispositivo e della disputa sulla sua legalità;
- c) non è configurabile il reato di diffamazione proprio perché è mancata l'associazione tra (il volto del)la conduttrice ed il prodotto, e quindi non è configurabile alcuna lesione del decoro e dell'onore della giornalista.
2.- Col primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 10 cod. civ. in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ., al fine di censurare essenzialmente le affermazioni di cui al precedente punto b), senza darsi carico di quelle sopra riportate sub a).
Secondo la ricorrente, la Corte di merito non avrebbe dovuto tenere conto, come ha fatto, delle specifiche modalità di diffusione del filmato e delle asserite finalità informative dello stesso, in quanto l'art. 10 cod. civ. tutelerebbe l'immagine impedendo a priori a chiunque di utilizzare a proprio arbitrio immagini altrui "trasfondendole" in messaggi pubblicitari, senza l'autorizzazione del soggetto ritratto. Richiama, a sostegno del proprio assunto, precedenti di questa Corte (in specie Cass. n. 8838/07, ma anche Cass. n. 22513/04 e Cass. n. 4785/91), e di giudici di merito. Svolge ulteriori distinte considerazioni volte a sostenere l'invocata affermazione di responsabilità anche a carico della concessionaria della pubblicità e dell'emittente televisiva.
2.1.- Col secondo motivo la ricorrente denunzia il vizio di motivazione sotto i seguenti due profili:
- contraddittorietà, perché la Corte avrebbe affermato che unico presupposto per la diffusione delle immagini è il consenso- dell'interessato, mentre poi ha escluso l'illecito malgrado questo consenso mancasse;
- contraddittorietà, perché non sarebbe "logicamente sostenibile" che non vi sarebbe stato alcun collegamento tra la dottoressa S. ed il prodotto reclamizzato, tanto da escludere perciò il reato di diffamazione, malgrado la sua immagine fosse stata diffusa nello spot in oggetto proprio mentre veniva trasmessa una parte di telegiornale in cui si parlava di tale dispositivo.
2.2.- Col terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 595, 185 cod. pen. e 2043 e 2059 cod. civ. in relazione all'art. 360 comma primo n. 3 cod. proc. civ., al fine di censurare l'affermazione della Corte di merito sopra riportata sub c), perché vi sarebbe stato un collegamento tra l'immagine della giornalista ed il prodotto e questo sarebbe stato sufficiente a renderla "testimoniai" di un dispositivo che "aggira i controlli", sì da apparire strumento di pubblicità di pratiche illecite. Il giudice di merito avrebbe dovuto considerare anche il tipo di prodotto in relazione al quale era stata utilizzata l'immagine della ricorrente, nota ed accreditata giornalista.
3.- I motivi, da esaminarsi congiuntamente perché connessi, non meritano di essere accolti.
Il principio dì diritto cui la giurisprudenza di questa Corte ha improntato le proprie decisioni in materia di abuso dell'immagine altrui può ritenersi espresso dalla massima per la quale la divulgazione dell'immagine, senza il consenso dell'interessato, con riguardo alla particolare ipotesi del ritratto di persona che possa definirsi notoria, è lecita soltanto se ed in quanto risponda alle esigenze di pubblica informazione, (sia pure intesa in senso lato), non anche, pertanto, ove sia rivolta a fini pubblicitari (così Cass. n. 1503/93; cfr. anche Cass. n. 4031/91, richiamata nella sentenza impugnata).
Già la massima appena riportata e le altre decisioni, richiamate nel ricorso (in specie, Cass. n. 8838/07, ma anche Cass. n. 4785/91 e n. 22513/04), consentono di smentire la perentoria affermazione, su cui si basa il primo motivo, ma in parte anche il secondo (che erroneamente attribuisce l'assunto al giudice di merito), per la quale sarebbe sufficiente la pubblicazione dell'immagine altrui in assenza di consenso dell'interessato a far sorgere in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento del danno.
Piuttosto, perché si configuri l'abuso ai sensi dell'art. 10 cod. civ., è necessario che la divulgazione dell'immagine, sia in fotografia che, come nella specie, in filmati televisivi, non sia necessitata o giustificata da finalità di informazione, bensì utilizzata, senza consenso, per finalità commerciali o pubblicitarie.
Pertanto, la questione posta dal ricorso è, per un aspetto, relativa alla demarcazione, in diritto, tra fini pubblicitari e fini di pubblica informazione della divulgazione dell'immagine altrui; per altro aspetto, relativa alla verifica, in fatto, della sussistenza degli uni o degli altri.
3.1.- Quanto al primo aspetto, è da escludere che -come pure sostiene la ricorrente- il solo inserimento non autorizzato dell'immagine di una persona nota nel contesto di un filmato destinato a pubblicizzare un prodotto comporti che anche la diffusione dell'immagine si intenda fatta per la medesima finalità commerciale.
Perché questa finalità venga perseguita è necessario che vi sia uno sfruttamento della notorietà ai medesimi fini pubblicitari; cioè è necessario o che il personaggio appaia suo malgrado come "testimonial" del prodotto reclamizzato o che, anche prescindendo da questo ruolo, il pubblico, cui il messaggio pubblicitario è destinato, finisca per associare il personaggio al prodotto, di modo che il collegamento realizzato tra il primo ed il secondo induca a ritenere che, anche se non reclamizzi il prodotto, l'interessato ne condivida comunque la propaganda o la commercializzazione. 3.2.- La verifica non può affatto prescindere -come pretenderebbe la ricorrente- dalle caratteristiche del messaggio pubblicitario. Più specificamente, come è detto nel controricorso, non può prescindere dalla valutazione delle modalità con le quali si è realizzata la divulgazione dell'altrui immagine e dal contesto nel quale si è inserita.
Si tratta di un accertamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato.
4.- La sentenza impugnata è coerente con i principi di diritto sopra enunciati e non è contraddittoria né illogica né quanto alle affermazioni in diritto né quanto alla motivazione sul fatto.
La Corte di merito non ha affermato che fosse sufficiente la mancanza del consenso dell'interessato per rendere illecita qualsivoglia utilizzazione della sua immagine.
Piuttosto, dopo aver premesso che il consenso è necessario soltanto per autorizzarne lo sfruttamento a fini commerciali/pubblicitari, ha riscontrato l'insussistenza, nella specie, di questi fini.
Con motivazione congrua, della quale si è detto sopra al punto b), ha escluso che i destinatari del messaggio pubblicitario potessero aver compiuto un'associazione tra il dispositivo pubblicizzato e la persona dell'odierna ricorrente, osservando come non ne fosse stata utilizzata l'immagine, bensì fosse stato trasmesso un brano di telegiornale nazionale, del quale la S. si trovava ad essere la conduttrice, onde corroborare la notizia -fornita con lo stesso messaggio pubblicitario- che del prodotto in pubblicità si erano occupati stampa e televisione nazionali. E' vero che si tratta di una finalità informativa solo in senso lato, essendo evidente che questa informazione contribuiva alla pubblicizzazione del prodotto. Tuttavia, il giudice di merito ha fatto bene a prescinderne, perché ciò che interessava ai fini della decisione sulla domanda risarcitoria -alla stregua dei principi regolatori della fattispecie- era escludere lo sfruttamento commerciale della notorietà della giornalista che per quel risarcimento aveva agito. Correttamente la Corte è giunta a negare che il messaggio pubblicitario fosse tale da coinvolgere, suo malgrado, la giornalista nell'attività di propaganda del prodotto.
5.- Dato tutto quanto sopra, è corretta in diritto anche la conclusione circa la mancanza di qualsivoglia pregiudizio al decoro ed alla reputazione, anche professionale, della giornalista. A questo fine sarebbe stato sì necessario considerare il tipo di prodotto reclamizzato, come sostenuto col terzo motivo, soltanto se si fosse ritenuta l'associazione, a fini pubblicitari, tra la giornalista televisiva ed il prodotto.
Soltanto se avesse riscontrato l'abuso dell'immagine, il giudice di merito sarebbe potuto passare ad accertare se, oltre alla produzione di danni patrimoniali, vi fosse stato anche un pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona, addirittura integrante gli estremi del reato di diffamazione.
Tuttavia, questa ulteriore verifica non si è resa necessaria, in ragione dell'accertata mancanza dell'illecito sfruttamento dell'altrui immagine.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida, in favore della resistente, nell'importo di € 7.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.
Avv. Antonino Sugamele

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