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Sentenza

Correzione della sentenza: deve essere mera svista o disattenzione nella redazio...
Correzione della sentenza: deve essere mera svista o disattenzione nella redazione del provvedimento e, come tale, percepibile ictu oculi.
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 15 dicembre 2015 – 12 febbraio 2016, n. 2819
Presidente Di Palma – Relatore Nazzicone

Svolgimento del processo

Con ordinanza del 10 giugno 2013, resa ai sensi dell'art. 287 c.p.c., la Corte d'appello di Brescia, su ricorso della banca, ha disposto la correzione della sentenza da essa pronunciata in data 20 dicembre 2012, con la quale aveva respinto l'impugnazione principale ed accolto quella incidentale, proposte rispettivamente da C.E. e O.L. e dalla Banca Agricola Mantovana s.p.a. contro la decisione del Tribunale di Mantova del 14 dicembre 2007, la quale aveva condannato la banca a pagare ai medesimi la somma di Euro 89.885,81 a titolo di risarcimento del danno con riguardo all'ordine di acquisto di obbligazioni "Argentina 08 10%" del 17 maggio 1999, mentre aveva respinto ogni altra domanda proposta relativa all'ordine di acquisto dei titoli "Argentila 98/05 TV" del 9 marzo 2000.
Dato atto che la banca sin dall'atto di costituzione in appello aveva chiesto, quale conseguenza dell'auspicata riforma anche del capo di sentenza di primo grado che l'aveva vista soccombente, la condanna delle controparti alla restituzione della somma loro pagata in esecuzione della sentenza del tribunale, l'ordinanza ha disposto che, a correzione della sentenza stessa e ad integrazione della parte motiva, si legga: "Conseguentemente gli attori sono tenuti a restituire a Banca Agricola Mantovana s.p.a. quanto versato per effetto dell'efficacia esecutiva della sentenza pari ad Euro 105.551,44 oltre interessi legali dal 28/12/2007 al saldo"; mentre ad integrazione del dispositivo si legga altresì: "Condanna gli attori a pagare a Banca Agricola Mantovana s.p.a. (ora Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a.) la somma di Euro 105.551, 44 oltre interessi legali dal 28/12/2007 al saldo".
Con ricorso straordinario ex art. 111 Cost., C.E. e O.L. chiedono, sulla base di un motivo, la cassazione di questa ordinanza, previa riunione con il giudizio di cui al ricorso n. R.G. 13795/13, proposto dai medesimi avverso la predetta sentenza.
Resiste la banca con controricorso, depositando altresì la memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. - L'unico motivo del ricorso censura l'ordinanza impugnata per la violazione degli art. 287 e 28 8 c.p.c., trattandosi invece di una omessa pronuncia, non emendabile mediante il menzionato procedimento: l'ordinanza, modificando la motivazione e il dispositivo della sentenza della corte territoriale, è dunque impugnabile con ricorso straordinario, avendo essa in sostanza statuito nel merito.
2. - Il ricorso è inammissibile.
2.1. - L'art. 336 c.p.c., disponendo che la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che, non appena sia pubblicata la sentenza di riforma, vengano meno immediatamente sia l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, sia l'efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con conseguente obbligo di restituzione delle somme pagate e di ripristino della situazione precedente. In sostanza, è sufficiente l'accoglimento dell'impugnazione perché sorga l'obbligo restitutorio.
L'esistenza, peraltro, di un credito certo, liquido ed esigibile non comporta un'implicita condanna a pagare, quale contenuto non dichiarato della sentenza di riforma, ma esige la relativa pronuncia: in tal senso, il Collegio condivide l'orientamento maggioritario espresso da questa Corte (fra le altre, Cass. 5 febbraio 2013, n. 2662; 8 giugno 2012, n. 9287), che per tale profilo si intende ribadire, secondo cui una pronuncia giudiziale alla restituzione di quanto in precedenza versato non può ritenersi implicita nella riforma della sentenza impugnata, occorrendo, invece, un esplicito comando del giudice in tal senso.
2.2. - La necessità di una pronuncia restitutoria espressa rende ammissibile la relativa domanda: la quale, tuttavia, non costituisce presupposto indefettibile della pronuncia stessa.
Invero, la domanda, o meglio istanza, di restituzione della somma versata a controparte nell'esecuzione della sentenza, che poi venga riformata in sede di impugnazione, presenta caratteri del tutto peculiari.
Anzitutto, è ormai orientamento consolidato che essa possa essere proposta anche in appello, ove non integra una domanda nuova ex art. 345 c.p.c.: dal momento, infatti, che l'istanza di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado è conseguente alla stessa richiesta di modifica della decisione impugnata, essa non costituisce domanda nuova (sin da tempi lontani: e multis, Cass. 21 luglio 1981, n. 4684; Cass. 6 novembre 1995, n. 11527; Cass. 16 giugno 1998, n. 6002).
Anche coloro che reputano sia comunque necessaria una domanda affermano, infatti, che questa vada sì formulata a pena di decadenza con l'atto di appello, ma ciò solo ove questo sia proposto successivamente all'esecuzione della sentenza, mentre ne è ammissibile anche la proposizione nel corso del giudizio, qualora l'esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell'impugnazione (Cass. 30 aprile 2009, n. 10124, ed altre).
Onde, ove il pagamento sia intervenuto durante il giudizio di impugnazione, l'istanza restitutoria potrebbe anche essere formulata in qualunque momento, ad esempio all'udienza di discussione della causa in sede di precisazione delle conclusioni (come infatti statuito da Cass. 5 agosto 2013, n. 18611, e Cass. 16 maggio 2006, n. 11491) o, addirittura, nella comparsa conclusionale.
In sostanza, la sua proposizione si sottrae all'applicazione del regime processuale di tipo preclusivo (e, quindi, decadenziale), peculiare di ogni altro intervento giudiziale: proprio come affermano le Sezioni unite (Cass., sez. un., 7 luglio 2010, n. 16037) con riguardo alla domanda di distrazione delle spese di lite.
Inoltre, l'obbligo restitutorio è un effetto dipendente direttamente dalla riforma della decisione, che, eliminando la causa giustificativa del pagamento (la precedente pronuncia di condanna) ne integra di per sé un fatto costitutivo (cfr. art. 1173 c.c.), laddove l'avvenuto pagamento è l'altro presupposto integrativo della fattispecie (è situazione analoga a quella che si verifica in ipotesi di sentenza che accerti il difetto di una causa adquirendi per nullità, annullamento, risoluzione, rescissione o qualsiasi altra causa che faccia venir meno il vincolo originariamente esistente).
Ne consegue ulteriormente che, a parere del Collegio, è ammissibile la pronuncia anche d'ufficio sulle restituzioni conseguenti alla riforma della sentenza. Nel giudizio di appello, il ripristino potrà essere disposto anche di ufficio dal giudice, il quale ha il potere di adottare direttamente i provvedimenti a tal fine necessari, non diversamente da quanto accade nella situazione disciplinata dall'art. 669 novies c.p.c., in cui il giudice, nel dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare, deve dare direttamente le disposizioni necessarie a ripristinare la situazione precedente (in tal senso, v. già Cass. 19 febbraio 2014, n. 3889, in motivazione; 16 maggio 2006, n. 11491; 19 luglio 2005, n. 15220; 21 dicembre 2001, n. 16170): ciò appunto perché il diritto alla restituzione delle somme ricevute in esecuzione di una decisione sorge per il solo fatto della cassazione o della riforma della suddetta decisione, con la conseguenza che la domanda in tal senso della parte risultante vincitrice costituisce piuttosto una sollecitazione - mediante allegazione dei presupposti di fatto - all'uso del potere giudiziale.
Il Collegio reputa di aderire a tale orientamento, anche tenuto conto che, attesa la necessità che la sentenza di riforma, affinché costituisca titolo esecutivo, contenga la pronuncia di condanna alle restituzioni, sorgerebbe la necessità di proporre un'autonoma domanda in separato giudizio, ogni volta in cui la parte incorresse nella decadenza perorata dal più restrittivo orientamento.
Inoltre, si pensi ai casi in cui il pagamento in esecuzione della sentenza riformata fosse avvenuto in diversi momenti e soluzioni: in tal caso, diversamente opinando, l'interessato sarebbe costretto ad un frazionamento della domanda, in alternativa restandogli la strada dell'autonoma domanda per la restituzione, con conseguente effetto inflattivo dei giudizi non rispondente all'obiettivo costituzionalizzato dall'art. Ili Cost. della ragionevole durata del processo (così Cass. 5 agosto 2013, n. 18611).
Né argomento in contrario potrebbe essere tratto dalla esplicita previsione di cui all'art. 389 c.p.c., che richiede apposita domanda di restituzione o di riduzione in pristino, da proporre al giudice di rinvio o a quello che aveva pronunciato la sentenza cassata senza rinvio: norma che dipende dalla specificità del giudizio di legittimità, nell'impianto originario della disciplina incompatibile con i caratteri suoi propri (ed che il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, quando ha introdotto es. l'art. 384, 2 comma, c.p.c., avrebbe anche potuto coerentemente modificare).
Essa, dunque, può definirsi quale istanza, e pronuncia, accessoria a quella di accoglimento dell'impugnazione. Ove proposta all'interno del giudizio di impugnazione, la stessa non presenta propriamente i caratteri della domanda giudiziale in senso stretto, nel senso che non è una domanda autonoma e svincolata dal contenuto complessivo della decisione, ma ha questa come suo elemento costitutivo ed è da essa strettamente dipendente.
2.3. - Occorre ora rilevare come la procedura di correzione degli errori materiali, di cui agli art. 287 ss. c.c., sia stata negli ultimi anni oggetto di un'interpretazione estensiva da parte di questa Corte.
In particolare, le Sezioni unite (Cass., sez. un., 7 luglio 2010, n. 16037; e, quindi, e multis, le ordinanze 21 settembre 2015, n. 18596; ord. 29 luglio 2015, n. 16102; 8 luglio 2015, n. 14281; 7 luglio 2015, n. 14102; 25 giugno 2015, n. 13171; 5 giugno 2015, n. 11737; 11 aprile 2014, n. 8578), occupandosi dell'istanza di distrazione delle spese di lite, hanno posto l'accento sull'esigenza di "salvaguardare l'effettività del principio di garanzia della durata ragionevole del processo (come previsto dall'art. 111 Cost., comma 2), che secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 26373/2008) impone al giudice (anche nell'interpretazione dei rimedi processuali) di evitare comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, traducendosi, per converso, in un inutile dispendio di attività processuali non giustificate, in particolare, né dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio (art. 101 c.p.c.), né da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.)": orientamento che nel contempo fa "salvo il diritto... all'esercizio degli ordinari rimedi impugnatori che, ai sensi dello stesso art. 288, comma 4, possono essere, comunque, proposti relativamente alle parti corrette delle sentenze".
Tale pronuncia ha preso le distanze dall'indirizzo più restrittivo, che richiamava sistematicamente il tenore letterale dell'art. 287 c.c. e la sua interpretazione tradizionale, in forza della quale il procedimento di correzione è invocatale quando sia necessario ovviare ad un difetto di corrispondenza tra l'ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevabile dal testo stesso del provvedimento mediante il semplice confronto della parte del documento che ne è inficiata con le considerazioni contenute in motivazione, cagionato da mera svista o disattenzione nella redazione del provvedimento e, come tale, percepibile ictu oculi.
Le Sezioni unite hanno aderito ad un ampliamento di questa categoria, in particolare quanto all'omissione, facendo leva soprattutto sul carattere "necessitato" dell'elemento mancante e da inserire, ammettendo la correzione integrativa dell'atto anche per le statuizioni che, pur non risultando con certezza volute dal giudice, dovevano essere da lui emesse, senza margine di discrezionalità, in forza di un obbligo normativo; ed estendendola quindi a qualsiasi errore, anche non omissivo che derivi dalla necessità di introdurre nel provvedimento una statuizione obbligatoria consequenziale a contenuto predeterminato, ovvero una statuizione obbligatoria di carattere accessorio, anche se a contenuto discrezionale.
Più di recente, l'orientamento espansivo è stato ribadito, laddove (Cass., ord. 19 gennaio 2015, n. 730; e v. già ord. 30 maggio 2013, n. 13715; 5 giugno 2012, n. 8991) si è ammesso il ricorso al procedimento per la correzione di errore materiale, allorché non era stata disposta la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale: ciò, argomentando nel senso che il procedimento ex art. 288 ss. e 391-bis c.p.c. può essere applicato anche nel caso di omissione di provvedimento (in quel caso, espressamente richiesto) "che trovi il suo antecedente logico nell'accoglimento della domanda... o consegua direttamente dalla legge, come nel caso illustrato nell'art. 2668, 4 comma, c.c.".
Del resto, si è ammesso il procedimento (Cass. 4 settembre 2009, n. 19229), con una variante qualitativa, con riferimento a casi di errore omissivo - quale quello di mancata liquidazione degli onorari di avvocato, allorché il giudice aveva liquidato le spese e i diritti di procuratore, omettendo gli onorari, dopo aver affermato in motivazione che le spese dovevano seguire la soccombenza - dichiarando esperibile la procedura correttiva a fronte della divergenza tra l'espressione usata dal giudice e quanto egli, pur nell'assenza di dirette risultanze della sua volontà in tal senso, avrebbe comunque dovuto univocamente esprimere in forza di un obbligo normativo. Ciò perché, in siffatte ipotesi, ricorrerebbe ugualmente la necessità e automaticità dell'intervento correttivo, diretto a esplicitare un comando giudiziale "tradito" dalla concreta realizzazione espressiva; e quello che si "ricostruisce" non è la volontà "soggettiva" del giudice emergente dallo stesso atto, bensì la sua volontà "oggettiva", da considerarsi (necessariamente) immanente nell'atto per dettato ordinamentale.
In definitiva, il procedimento di correzione è esperibile in funzione di emendare il testo della sentenza, per tutti i casi in cui possa ritenersi che il Collegio sia incorso in errore e non abbia, invece, ritenuto ad esempio di aderire, per scelta positiva, ad uno specifico orientamento giurisprudenziale giustificativo della decisione assunta. Le menzionate Sezioni unite hanno applicato tale concezione dell'errore all'omessa pronuncia, ogni volta che si palesi dovuta più ad una mancanza materiale che non ad un vizio di attività o di giudizio da parte del giudice (e, quindi, ad un errore percettivo di quest'ultimo).
2.4. - Alla luce di tali approdi, reputa il Collegio che l'ordine di restituzione possa essere oggetto, quanto alla sentenza di riforma, del procedimento di correzione materiale, ai sensi dell'art. 287 c.p.c., allorché il giudice non vi abbia provveduto, pur esistendo in atti tutti gli elementi a ciò necessari.
La condanna alle restituzioni, invero, rimane sottratta in tal caso, per quanto sopra esposto, a qualunque forma di valutazione giudiziale, onde si rientra nell'ambito proprio della configurazione dei presupposti di fatto che giustificano la correzione e la relativa declaratoria necessariamente "accede" al decisum complessivo della controversia, senza, in fondo, assumere una propria autonomia formale: l'omissione stessa si collega, in sostanza, ad una mera disattenzione e, quindi, ad un comportamento involontario, sia nell'ari e sia nel quantum del provvedimento.
2.5. – L'esperibilità del procedimento di correzione comporta l'applicazione della relativa disciplina, ivi compresa la inimpugnabilità dell'ordinanza che lo concluda, se non in una con la sentenza oggetto dell'emenda.
L'art. 288 c.p.c., nel disporre che le sentenze possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l'ordinanza di correzione, appresta uno specifico mezzo, che esclude l'impugnabilità per altra via del provvedimento a lume del disposto dell'art. 177, 3 comma, n. 3, c.p.c., a tenore del quale non sono modificabili né revocabili le ordinanze per le quali la legge prevede uno speciale mezzo di reclamo; il principio di assoluta inimpugnabilità di tale ordinanza si estende al ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 cost.: invero, il provvedimento reso sull'istanza di correzione di una sentenza all'esito del procedimento regolato dall'art. 288 c.p.c. è sempre privo di natura decisoria, costituendo mera determinazione di natura amministrativa non incidente sui diritti sostanziali e processuali delle parti; per questa ragione resta impugnabile, con lo specifico mezzo di volta in volta previsto, solo la sentenza corretta (cfr. Cass., ord. 27 giugno 2013, n. 16205, ed altre).
Pertanto, le sentenze assoggettate al procedimento di correzione possono essere impugnate, per le parti corrette, nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l'ordinanza di correzione.
2.6. - Nella specie, la banca sin dall'atto di citazione in appello ha chiesto, avendo nelle more eseguito quanto indicato nella sentenza di primo grado, la restituzione della somma versata, ma ciononostante il giudice d'appello ha omesso di provvedervi, costringendo l'interessata ad instaurare il procedimento di correzione di errore materiale, con la quale l'omissione è stata emendata.
L'ordinanza, che ha accolto l'istanza di correzione, non è, pertanto, autonomamente impugnabile, onde il ricorso, per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile.
3. - Le spese di lite, attesa la novità della questione, vengono interamente compensate.
Deve provvedersi altresì all'accertamento di cui all'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'art. 1, comma 17, 1. 24 dicembre 2012, n. 228, applicabile ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge, avvenuta il 30 gennaio 2013.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa tra le parti le spese di lite.

Da atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
Avv. Antonino Sugamele

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