7 ricorsi per decreto ingiuntivo, tutti sistematicamente rigettati. E' denegata giustizia?
Tribunale di Potenza, sentenza 7 - 8 giugno 2017
Giudice Vetrone
Fatto e diritto
I. Con ricorso notificato in data 21 gennaio 2016, G. V. ha chiesto nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri un risarcimento, ai sensi della legge n. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, in relazione al danno che avrebbe subito dall'operato del Giudice di Pace di Taranto, dott. M. G..
Secondo l'assunto, quest'ultimo -nella qualità esposta - avrebbe “illegittimamente” espresso pronuncia di rigetto, ovvero di incompetenza territoriale, in relazione alle domande per sette ricorsi per decreto ingiuntivo (contrassegnati dai nn. 1686, 1687, 1688, 1689, 1690, 4945, 5415 R.G. del 2015), presentate dal medesimo G., nella veste di avvocato, per conseguire il pagamento di spettanze -ulteriori rispetto al già percepito- per prestazioni professionali da lui rese nell'ambito di altrettanti procedimenti giudiziari in cui aveva esercitato mandato in favore dell'Enel Distribuzione S.p.a..
II. A dire del ricorrente, il danno risarcibile, da lui patito, sarebbe derivato da detti provvedimenti d'”…illegittimo rigetto delle (proprie) istanze ad opera del predetto Giudice onorario…” e sarebbe stato quantificabile in complessivi €. 15.927,25 (pari al totale degli importi indicati in detti ricorsi), o altra maggiore o minore somma di g.zia, a lui spettanti “… a titolo di lucro cessante per l'omessa percezione del giusto compenso che gli sarebbe stata liquidata in relazione alle anzidette istanze…” .
III. Con riferimento a cinque dei citati ricorsi (n. 4945/15 RG; 5415/15 RG), il G. ha sostenuto che quel Giudice - avendo espresso la seguente motivazione: “…osservato che la procedura del ricorso per decreto ingiuntivo ai sensi degli art. 633 e ss. c.p.c. è azionabile solo nel caso di importi rientranti nei minimi tariffari, dovendo in caso contrario essere munito del parere di congruità dell'ordine di appartenenza, atteso che nel caso di specie la somma portata dal decreto di che trattasi chiaramente non è allineata ai minimi tariffari…” - aveva ritenuto non accoglibile la domanda monitoria; e ciò sarebbe accaduto nonostante quel giudice avesse convocato esso ricorrente per ottenere (ed avere) “chiarimenti” (forniti “con dovizia”) ed in detta sede non avesse fatto cenno a siffatta, presunta (non dovuta) carenza documentale, smentita “dalla documentazione prodotta a corredo della richiesta ingiunzione di pagamento.”.
IV. Con riferimento ai due restanti ricorsi, ha chiarito il G. che gli stessi erano stati rigettati sulla base d'una ritenuta incompetenza territoriale del Giudice adito, il quale aveva statuito che i medesimi avrebbero dovuto esser proposti al Giudice di Pace di Manduria, innanzi al quale si erano svolti i processi nei quali l'avvocato aveva prestato la propria opera.
V. Ciò premesso, l'attore, contestando le “…maliziose e tendenziose, oltre che illegittime, penalizzanti motivazioni addotte dal predetto Magistrato Onorario a supporto dei provvedimenti di rigetto pronunciati…”, “…motivazioni (che) evidenziano la volontà discriminatoria … nel manifesto, ostinato diniego, pur sussistendone le condizioni di legge, per l'accoglimento delle istanze del richiedente che avrebbero meritato ben altra pronunzia…”, ha chiesto al Tribunale adito di accertare l'illegittimità dei predetti provvedimenti con cui il giudice onorario G. “…ha disatteso la richiesta di sette ingiunzioni di pagamento in danno dell'Enel Distribuzione s.p.a”, e, per l'effetto, la condanna del Presidente del Consiglio dei Ministri al risarcimento del danno subito, come sopra indicato, oltre alla condanna alle spese del presente giudizio.
VI. Fissata dal precedente istruttore, con decreto 23.12.2016, la data del 07/06/2016 per l'udienza di comparizione delle parti e notificato lo stesso e ricorso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per essa si è costituita in giudizio l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Potenza, che ha resistito alla pretesa, concludendo per l'inammissibilità e/o l'infondatezza della domanda; vinte le spese.
VII. All'udienza dell'08/11/2016, questo estensore, avvicendatosi al giudice precedentemente designato nella trattazione della causa, ha rilevato che il G. non aveva avuto la rituale comunicazione ex art. 6 l. 117/1988 e di poter intervenire nel giudizio. Tale carenza veniva ovviata dal ricorrente, che se ne assumeva spontaneamente l'onere.
VIII. Quindi, all'udienza del 24/01/2017 era rigettata la richiesta di parte attrice volta ad ottenere i mezzi di prova articolati, ritenuti -per le ragioni ivi indicate- manifestamente irrilevanti ai fini del decidere.
IX. Infine, all'udienza del 23.05.2017 -in cui si presentava personalmente G. M., il quale rappresentava di aver contestualmente depositato in cancelleria comparsa di costituzione onde contrastare l'avversa domanda, ma che, melius re perpensa, intendeva rinunciare al giudizio- la causa sulle rassegnate conclusioni e previa accettazione di detta rinuncia ad opera del ricorrente, nonché d'analoga iniziativa dell' Avvocatura Erariale, era rimessa al collegio per la decisione, omessi i termini ex art. 190 cpc, giusta conferme richiesta delle parti.
X. Va dato atto che, con sentenza recentemente pronunciata (nella data del 04/04/2017), il giudice delle leggi ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla legge n. 18/2015, con particolare riguardo all'eliminazione del filtro di ammissibilità (già previsto dalla legge Vassalli n. 117 del 1988) a cui erano sottoposte le domande di risarcimento dei cittadini fino al momento entrata in vigore di detta nuova normativa. La rimessione della questione alla Corte Costituzionale era stata la conseguenza della decisione con cui la Corte di Cassazione (sent. n. 25216/2015) aveva affermato che, in tema di responsabilità civile dei magistrati, la sopravvenuta abrogazione della disposizione di cui all'art. 5 della l. n. 117 del 1988, per effetto dell'art. 3, comma 2, della l. n. 18 del 2015, non ha efficacia retroattiva, onde l'ammissibilità della domanda di risarcimento danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie deve essere delibata alla stregua delle disposizioni processuali vigenti al momento della sua proposizione, con la conseguenza che il giudizio di ammissibilità previsto dall'art. 5 cit. continua ad applicarsi alle (sole) domande avanzate con ricorso depositato prima del 19 marzo 2015, data di entrata in vigore della legge n. 18 del 2015.
Ne deriva che non vi può esservi dubbio sul fatto che, nella specie (in cui il ricorso è stato depositato il 04/12/206), non opera il citato “filtro”, nonostante ad esso – ed alla sua vigenza – abbia fatto primario, riferimento difensivo, da disattendere, l'Avvocatura erariale.
XI. Tanto premesso, il ricorso deve trovare la sorte del rigetto.
Vale puntualizzare che il ricorrente ha espressamente chiarito, sin dalla proposizione del ricorso -e ribadito nelle note autorizzate (pag. 3)- d'aver, nei riguardi dell'operato del Giudice di Pace di Taranto, “…contestato il diniego di g.zia previsto dall'art. 2 comma 1 dell'invocata l. 13.4.1988 n. 117.”.
Anche a stregua della prospettazione attorea, quindi, la presente domanda va inquadrata e qualificata in relazione alla evidenziata doglianza, afferente al “diniego di g.zia", sottesa alla pretesa. In tal senso milita anche la considerazione che il G. non ha fatto riferimento a profili d'erroneità (per dolo o colpa grave) - ma di mera illegittimità - dei provvedimenti qui censurati.
Orbene, ai sensi dell'art. 3 della ripetuta normativa (avente rubrica Diniego di g.zia): “1. Costituisce diniego di g.zia il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza g.ficato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria. Se il termine non è previsto, debbono in ogni caso decorrere inutilmente trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria dell'istanza volta ad ottenere il provvedimento.”.
Pertanto, se il diniego di g.zia si configura quando, trascorso inutilmente il termine di legge per il compimento di un atto da parte del magistrato nel suo ufficio, la parte ha presentato istanza per chiedere ulteriormente il compimento dell'atto e sono trascorsi invano trenta giorni dal deposito in cancelleria, è evidente che nella specie - nella quale il criticato giudice di pace di Taranto ha, non importando la modalità ed il merito della decisione, comunque provveduto sulle richieste del G. - non si sia affatto verificato il presupposto di fatto previsto dalla norma, posto che il ricorrente ha semplicemente riferito di aver avuto un provvedimento, che pacificamente è stato senz'altro e motivatamente pronunciato, ma che non era conforme alle sue aspettative, fermo restando - ad ogni buon conto - che “…nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto ne' quella di valutazione del fatto e delle prove” (c.d. “clausola di salvaguardia” ex art. 2.2 della l. n. 117/1988, nella sua immutata formulazione).
Di qui la ragione del presente rigetto.
XII. Per scrupolo di motivazione, occorre evidenziare che l'art. 4 della L. 117/1988, al comma 2, dispone che “L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno”.
Tale disposizione consacra il principio di sussidiarietà della responsabilità civile del magistrato, il cui ambito di applicazione ricomprende esclusivamente i pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, che non siano eliminabili mediante rimedi endoprocessuali.
Come affermato dalla Suprema Corte, il principio di sussidiarietà dell'azione avverso lo Stato si sostanzia nella necessità di «…dare la prevalenza alla rimozione del provvedimento dannoso e di privilegiare i rimedi endoprocessuali rispetto all'azione risarcitoria, subordinando quest'ultima alla circostanza che il danneggiato abbia utilizzato gli strumenti processuali normalmente apprestati dall'ordinamento per eliminare o, almeno, ridurre il danno» (Cass. n.7924/2015; n. 932/2017).
La ratio di tale previsione normativa consiste nella volontà di evitare l'instaurazione di un processo parallelo rispetto a quello in corso, il cui esito potrebbe interferire sull'iter processuale di merito, pregiudicando l'imparzialità dei giudici investiti della questione. Inoltre, solo in presenza di un arresto o di un comportamento giudiziale foriero di effetti tendenzialmente immutabili, potrebbe essere individuato un danno risarcibile per equivalente, evitando altresì il rischio di una duplicazione dei vantaggi che l'attore potrebbe conseguire, ove per avventura riuscisse ad ottenere sia il ristoro risarcitorio che il bene della vita dedotto nel processo a quo.
Orbene, nel caso di specie, l'attore ha posto a fondamento della spiegata domanda risarcitoria una serie di decreti con cui il giudice adito non ha (per le ragioni esposte, di merito e di rito) accolto le corrispondenti richieste di pronuncia di decreti ingiuntivi.
Ma siffatti provvedimenti di diniego, ai sensi dell'art. 640.3 c.p.c., non hanno affatto pregiudicato la riproposizione delle domande di cui ai ricorsi monitori, anche in via ordinaria: da ciò consegue che i provvedimenti de quibus non hanno avuto affatto efficacia preclusiva, e non sono stati idonei ad incidere sulla situazione giuridica soggettiva del G.: invero, il decreto di rigetto della richiesta di decreto ingiuntivo costituisce un provvedimento privo del carattere di decisorietà, ontologicamente insuscettibile di passare in giudicato e, per il quale, pertanto, per definizione non è applicabile la regola per cui “non siano più possibili la modifica o la revoca” (v. art. 4.2, primo inciso l. 117/1988).
Dalle presenti risultanze processuali emerge quindi in modo evidente la non ricorrenza nel caso all'esame del suddetto requisito, atteso che la reiezione delle domande del ricorrente G. ha lasciato del tutto impregiudicate le corrispondenti pretese sostanziali, suscettibili di essere azionate in vario modo ed in diverse vicende processuali, con possibile duplicazione -ove fossero state interamente accolte dal giudice del procedimento monitorio e da quello dell'immaginabile opposizione (art. 645 c.p.c.)- di quanto in questa sede richiesto a titolo di risarcimento.
Ed a ben vedere, siffatta constatazione consente addirittura di pervenire all'ulteriore considerazione che è dato nella specie escludere in nuce la sussistenza stessa di un “danno” risarcibile, da “lucro cessante”, asserito dal G., per giunta nella misura indicata con solo ipotetica quantificazione. Non a caso, onde poter agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali (e anche di quelli non patrimoniali) la legge de qua (art.2.1) presuppone che l'attore abbia subito “…un danno ingiusto… per diniego di g.zia…” .
XIII. É doveroso, infine, registrare che -a seguito della rinuncia del G. M., intervenuto all'esito del giudizio, accettata personalmente dal G., (unica) parte che poteva avere interesse alla prosecuzione- si è estinto in parte qua il processo e che le relative spese, giusta accordo, vanno compensate.
XIV. La soccombenza parziale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, parte resistente, difesa dall'Avvocatura Erariale, sulla questione (riget-tata) relativa alla asserita perduranza dell'ammissibilità del filtro d'ammissibilità, g.fica che le spese del giudizio siano compensate per un terzo; la restante quota, liquidata come in dispositivo, va posta -in favore della detta parte resistente - a carico del ricorrente G..
P.Q.M.
Il Tribunale di Potenza,
in composizione collegiale, definitivamente pronunciando, così provvede:
- dichiara l'estinzione del processo relativamente al rapporto fra G. V. e G. M., compensando fra i medesimi le spese di lite;
- rigetta nel resto il ricorso;
- compensa per un terzo le spese e competenze del presente giudizio, ponendo a carico del ricorrente G., in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la restante quota, che si liquida in €. 2.156,00, oltre spese generali, IVA e CAP, come per legge.
23-08-2017 15:09
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