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Sentenza

Licenziamento disciplinare e reintegra...
Licenziamento disciplinare e reintegra
Cass. Sez. Lav. 17 giugno 2020, n. 11701

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.T.; Controric. B.A.


La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare. Quale evento che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici e giuridici.

Licenziamento per giusta causa – Proporzionalità – Fattispecie non contemplata dal CCNL – Reintegrazione – Illegittimità – Tutela indennitaria – Applicabilità

La valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato in giudizio comporta l'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, quarto comma, L. 300/1970, solo qualora la fattispecie accertata sia specificamente contemplata dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale caso la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa, per le quali l'art. 18, quinto comma, L. 300/1970 prevede la tutela indennitaria c.d. "forte".
NOTA
La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, che aveva accertato l'illegittimità del licenziamento disciplinare con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente ed al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. I giudici di merito ritenevano che le condotte contestate non fossero di gravità e importanza tali da giustificare il licenziamento. Inoltre, sostenevano che, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 18, L. 300/1970, la tutela reale non richiederebbe che la norma collettiva prenda in considerazione lo specifico comportamento oggetto di contestazione, risultando invece applicabile anche laddove esista una fattispecie disciplinare, ancorché di carattere generale o di chiusura, nella quale il comportamento possa essere incasellato.
Il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione avverso la pronuncia della Corte d'Appello, eccependo innanzitutto che i giudici di merito avessero preso in considerazione elementi irrilevanti ai fini della verifica di proporzionalità della sanzione.
La Suprema Corte ritiene questo motivo di censura infondato, ribadendo il principio ormai consolidato secondo cui la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla porta oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare. Inoltre, la Corte precisa che la giusta causa di licenziamento, quale evento che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro, integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dal giudice valorizzando anche fattori esterni relativi alla coscienza generale e principi tacitamente richiamati dall'art. 2119 c.c. La disapplicazione di questi principi è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi di fatto si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici e giuridici (in senso conforme, Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).
Inoltre, le valutazioni espresse dal giudice di merito possono essere sindacate in sede di legittimità a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza di tale giudizio rispetto agli "standard" esistenti nella realtà sociale (in senso conforme, Cass., 26 marzo 2018, n. 7426; Cass., 4 maggio 2005, n. 9266).
Quale altro motivo di ricorso, il datore di lavoro lamentava una violazione dell'art. 18, comma 4, L. 300/1970, per avere i giudici applicato la tutela reintegratoria nonostante la condotta contestata non fosse espressamente prevista dalle previsioni collettive tra quelle punibili con una sanzione conservativa.
Il motivo viene accolto dalla Suprema Corte, in coerenza con i principi dalla stessa elaborati in tema di applicabilità della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970, come modificato dalla Legge Fornero.
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, la valutazione di non proporzionalità tra fatti contestati e licenziamento comporta la reintegrazione soltanto qualora la fattispecie concreta sia specificamente contemplata dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale ipotesi, la sproporzione tra condotta e sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa, per le quali l'art. 18, quinto comma, L. 300/1970, prevede soltanto la tutela indennitaria c.d. forte (in senso conforme, Cass., 5 dicembre 2019, n. 31839; Cass., 19 luglio 2019, n. 19578; Cass., 14 dicembre 2018, n. 32500; Cass., 12 ottobre 2018, n. 25534; Cass., 25 maggio 2017, n. 13178).
La limitazione della tutela reintegratoria alle sole ipotesi in cui il contratto collettivo tipizza la condotta e prevede l'applicazione di una sanzione conservativa è coerente con la lettera dell'art. 18, quarto comma, L. 300/1970, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano la tutela reintegratoria – che costituisce un'eccezione rispetto alla regola generale rappresentata dalla tutela indennitaria –, nonché con la ratio della norma, in cui la tutela reintegratoria presuppone l'abuso consapevole del potere disciplinare e una sicura e intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, dell'illegittimità del provvedimento espulsivo in ragione dell'insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare il licenziamento (in senso conforme, Cass., 19578/2019 cit.; Cass., 9 maggio 2019, n. 12365).
Avv. Antonino Sugamele

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