Le attestazioni contenute nella cartella clinica e redatte dalla medesima persona della quale viene in contestazione la responsabilità possono costituire piena prova a favore della stessa?
Finalità della cartella clinica
Accanto alle finalità cliniche e scientifiche, la documentazione sanitaria, e in particolare la cartella clinica ha, per disciplina normativa, ma soprattutto per l’uso che quotidianamente se ne fa (in sede penale, civile, assicurativa e amministrativa), una evidente destinazione alla prova giuridica dei fatti clinici in essa riportati.
Nella materia che ci occupa il problema che si pone, in particolare, è quello di trovare la giusta chiave di lettura per consentire la coesistenza delle seguenti tre affermazioni:
- la cartella clinica ha natura di atto pubblico e, in particolare, di certificazione amministrativa;
- le attestazioni contenute nella cartella sono spesso redatte dalla medesima persona della quale viene in contestazione la responsabilità;
- il principio generale secondo cui nessuno può precostituirsi prova a favore di se stesso;
- l’incompletezza della cartella clinica costituisce circostanza di fatto che il giudice può e deve utilizzare per ritenere dimostrata la sussistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente allorquando proprio detta incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico ed il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.
Normativa di riferimento
Al fine di rendere più agevole il percorso argomentativo volto alla soluzione della questione sopra prospettata, si ritiene possa tornare utile un rapido esame di alcune disposizioni relative al contenuto e al possibile utilizzo della cartella clinica e della scheda di dimissione ospedaliera.
In primo luogo, viene in rilievo l’art. 26 del Codice di deontologia medica del 18 maggio 2014 – sostitutivo del precedente Codice del 16 dicembre 2006 in base al quale «...Il medico redige la cartella clinica, quale documento essenziale dell’evento ricovero, con completezza, chiarezza e diligenza e ne tutela la riservatezza; le eventuali correzioni vanno motivate e sottoscritte. Il medico riporta nella cartella clinica i dati anamnestici e quelli obiettivi relativi alla condizione clinica e alle attività diagnostico-terapeutiche a tal fine praticate; registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua redazione. Il medico registra nella cartella clinica i modi e i tempi dell’informazione e i termini del consenso o dissenso della persona assistita o del suo rappresentante legale anche relativamente al trattamento dei dati sensibili, in particolare in casi di arruolamento in protocolli di ricerca…». Va richiamato, poi, il D.M. 28 dicembre 1991 (Istituzione della scheda di dimissione ospedaliera), che agli artt. 1 e 3 disciplina la scheda di dimissione ospedaliera (SDO), definendola «…parte integrante della cartella clinica…» , della quale, pertanto, assume medesima rilevanza probatoria.
Oltre a tali disposizioni merita, altresì, di essere menzionato il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), – come di recente modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, contente disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento UE 2016/679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati – che all’art. 92 stabilisce testualmente che:
«1. Nei casi in cui strutture, pubbliche e private, che erogano prestazioni sanitarie e socio-sanitarie redigono e conservano una cartella clinica in conformità alla disciplina applicabile, sono adottati opportuni accorgimenti per assicurare la comprensibilità dei dati e per distinguere i dati relativi al paziente da quelli eventualmente riguardanti altri interessati, ivi comprese informazioni relative a nascituri.
2. Eventuali richieste di presa visione o di rilascio di copia della cartella e dell’acclusa scheda di dimissione ospedaliera da parte di soggetti diversi dall’interessato possono essere accolte, in tutto o in parte, solo se la richiesta è giustificata dalla documentata necessità: a) di esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria , ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera f), del Regolamento, di rango pari a quello dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale [e inviolabile]; b) di tutelare, in conformità alla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale [e inviolabile]».
Dalla lettura di tale disposizione normativa è possibile ricavare che in materia di trattamento dei dati personali quando la conoscenza di un documento detenuto dall’amministrazione, benché recante dati sensibili di un terzo, costituisca, sulla base di circostanze concrete, elemento decisivo in ordine alla possibile proposizione di un’azione giudiziaria, il diritto di accesso deve avere la prevalenza sulla tutela della riservatezza del terzo coinvolto (si veda al riguardo, ex multis, Trib. Regionale di Giustizia Amministrativa Trentino Alto Adige – Bolzano, Sez. I, 09 gennaio 2017, n. 4, secondo il quale «…Nei rapporti fra diritto di accesso agli atti della p.a. e diritto alla riservatezza deve ritenersi che il primo, qualora sia motivato dalla cura o difesa di propri interessi giuridici, prevale sull’esigenza di riservatezza del terzo…»; T.A.R. Sardegna Cagliari, Sez. II, 18 febbraio 2013, n. 144).
Un ultimo cenno, infine, va fatto al D.M. 4 marzo 1993 (Determinazione dei protocolli per la concessione dell’idoneità alla pratica sportiva agonistica alle persone handicappate), il cui art. 4 stabilisce che «…In occasione degli accertamenti sanitari di cui all’art. 3, l’atleta dovrà presentarsi munito di certificazione o cartella clinica, rilasciata da una struttura pubblica o privata convenzionata, attestante la patologia responsabile dell’handicap…» . Dal dato normativo richiamato, risulta quindi evidente, d’un canto, l’equiparazione della cartella clinica alle altre certificazioni mediche, e, secondariamente, l’equiparazione delle cartelle rilasciate da strutture pubbliche con quelle rilasciate da strutture private convenzionate.
Natura della cartella clinica
La natura di atto pubblico e, in particolare, di certificazione amministrativa della cartella clinica è costantemente affermata, tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza. Al riguardo occorre fare una breve premessa sulla nozione e sulla disciplina tanto dell’atto pubblico, in generale, quanto della certificazione amministrativa. La nozione di atto pubblico è data dall’art. 2699 c.c. il quale definisce l’atto pubblico come «…il documento redatto, con le prescritte formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato…» . La collocazione della disciplina dell’atto pubblico nel libro “Della tutela dei diritti” nel capo “della prova documentale” pone in rilievo la sua efficacia di prova e, in particolare, di prova privilegiata. L’atto pubblico esprime, infatti, nel nostro ordinamento il massimo grado di certezza accordabile a un mezzo di prova. Perché ciò avvenga è, però, necessario che l’atto pubblico sia costruito sui seguenti presupposti:
- deve provenire da un pubblico ufficiale, vale a dire da un soggetto il quale, o per qualità permanente della sua attività o per l’occasionale o accessoria attribuzione, sia autorizzato territorialmente e funzionalmente a dare pubblica fede all’atto da lui formato;
- deve essere redatto nel pieno rispetto delle formalità previste dalla legge.
L’efficacia probatoria dell’atto pubblico è sancita dall’art. 2700 c.c. ai sensi del quale «…l’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti…» .
La norma in esame, mentre da un lato determina l’efficacia probatoria legale dell’atto pubblico, dall’altro lato contiene una chiarissima limitazione di tale efficacia ai soli elementi estrinseci, quali la provenienza del documento dal p.u. che lo ha formato, il momento della formazione (data), il luogo della formazione e in generale tutto ciò che davanti al p.u. è stato detto o fatto. Quanto al contenuto intrinseco, ossia al contenuto delle dichiarazioni, esso è certamente al di fuori dell’efficacia di prova legale, rientrando nell’ampia e normale libera valutazione da parte del giudice. Chiarito in termini generali il concetto di atto pubblico, occorre fare qualche cenno alla specifica categoria delle certificazioni amministrative.
Nel nostro ordinamento una definizione positiva di certificato amministrativo è contenuta nell’art. 1, comma 1, lettera f), del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa) secondo il quale per certificato s’intende «…il documento rilasciato da una amministrazione pubblica avente funzione di ricognizione, riproduzione o partecipazione a terzi di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri pubblici o comunque accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche…» .
Si è soliti distinguere, al riguardo, le certificazioni amministrative in due grandi categorie:
- le certificazioni proprie (o di esistenza od obiettive, quali ad esempio quelle di stato civile), contenenti l’attestazione di fatti o di operazioni che vengono imposti alla collettività come unica rappresentazione possibile della realtà considerata, e cioè come verità legale che non ammette prova contraria;
- le certificazioni improprie (o valutative o soggettive, ad esempio certificati medici), contenenti l’attestazione del giudizio conclusivo a cui è pervenuto il certificante nell’esame di una determinata situazione; giudizio conclusivo quest’ultimo che ammette in ogni caso prova contraria e la cui effettiva accettazione da parte dei consociati è fondata, in ultima analisi, sull’autorevolezza professionale o funzionale del certificatore stesso.
Tali due categorie di certificazioni divergono soprattutto in ordine alla loro efficacia. Mentre, difatti, le certificazioni proprie costituiscono certezza legale, esse cioè devono essere assunte da ogni operatore giuridico come l’unica rappresentazione possibile di quel particolare aspetto della realtà (ad esempio, chiunque è vincolato dalle certezze relative allo status familiae di altri soggetti risultante dai registri di stato civile, anche se alla sua scienza privata risulti uno stato reale diverso). Le certificazioni improprie, diversamente, costituiscono certezze informative o notiziali, ponendosi per l’operatore giuridico solo come una guida, come un’indicazione, la cui fondatezza è assistita da un alto grado di probabilità (commisurata all’autorità e al grado di prestigio di chi la emette), ma che l’operatore può sempre disattendere, assumendosene in tal caso, ovviamente, tutte le responsabilità. Le certezze informative, in altri termini, sono semplicemente assistite dalla c.d. presunzione iuris tantum di legittimità e possono costituire elementi di prova liberamente apprezzabili dal giudice ordinario di merito o dal giudice amministrativo, ed essere poste da questi ultimi a fondamento delle rispettive decisioni anche se provengono da un soggetto che sia parte in causa. Alle certificazioni improprie vanno assimilate, ai fini probatori, le informazioni che il giudice può discrezionalmente richiedere alla P.A. ai sensi degli artt. 213 c.p.c. e 96 disp. att. c.p.c.
Premesso quanto sopra sui concetti generali di atto pubblico e certificazione amministrativa, occorre esaminare la concreta applicazione della relativa disciplina alla documentazione sanitaria e, nello specifico, alla cartella clinica.
Al riguardo, risulta molto chiara la posizione della giurisprudenza, che in diverse occasioni ha avuto modo di affermare che le attestazioni contenute in una cartella clinica sono riferibili a una certificazione amministrativa per quanto attiene alle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essa contenute non hanno alcun valore probatorio privilegiato rispetto ad altri elementi di prova (Cassazione civ., Sez. Lav., ord. 20 novembre 2017, n. 27471; Cass. civ., Sez. III, 12 maggio 2003, n. 7201). La Suprema Corte, quindi, operando una distinzione tra le attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento e le manifestazioni di scienza (es. diagnosi), precisa che «…“Le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un’azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e ss. c.c. per quanto attiene alle trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse (Cass. N. 25568 del 30/11/2011)…» (da ultimo, Cassazione civ., Sez. VI L, ord. 30 luglio 2018, n. 20161). Con la conseguenza che nessun valore di prova privilegiata può essere riconosciuto alle circostanze non annotate nella cartella clinica, non potendo l’eventuale difettosa compilazione della stessa pregiudicare sul piano probatorio il paziente.
Divieto di precostituzione di prove in proprio favore
Posto quanto sopra, non può trascurarsi la circostanza che il più delle volte le attestazioni contenute nella cartella clinica sono redatte dalla medesima persona della quale viene in contestazione la responsabilità. Si pone, pertanto, il problema della necessità di coordinare l’efficacia probatoria riconosciuta alla documentazione sanitaria con il principio di carattere generale, vigente nel nostro ordinamento, del divieto di precostituzione di prove a proprio favore.
La giurisprudenza di legittimità, al riguardo, è da tempo costante nell’affermare che «…in ogni caso le attestazioni contenute nella cartella clinica non sono vincolanti allorché venga in contestazione la responsabilità della persona medesima che l’ha redatta, dato il principio per cui nessuno può precostituire prova a favore di se stesso…» (ex multis, Cassazione civ., Sez. III, ord. 12 maggio 2021, n. 12597; Cassazione civ., Sez. III, 12 maggio 2003, n. 7201; Cass. civ., Sez. III, 27 settembre 1999, n. 10695; Cass. civ., Sez. III, 18 settembre 1980, n. 5296). A ben guardare, quindi, la cartella clinica non fa piena prova a favore di chi l’ha redatta, neanche per i fatti ivi indicati come compiuti da un p.u. o in sua presenza, allorché venga in discussione la sua responsabilità.
Incompletezza ed omissioni nella tenuta della cartella clinica
Un cenno, infine, merita di esser fatto in ordine alle conseguenze che, sotto il profilo probatorio, possono derivare dall’incompleta o lacunosa redazione della cartella clinica.
In particolare – premesso quanto sopra detto, ossia l’obbligo del medico di redigere, con completezza, chiarezza e diligenza, la cartella clinica – la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che la lacunosa tenuta della stessa non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, al quale, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è quindi dato ricorrere a presunzioni ogni qual volta sia impossibile la prova diretta a causa della condotta della parte avverso la quale deve dimostrarsi il fatto oggetto di causa (ex multis, Corte d’Appello di Catania, Sez. I civ., 22 luglio 2022, n. 1592; Tribunale di Milano, Sez. I civ., 11 gennaio 2022, n. 83).
Come, difatti, recentemente chiarito dalla giurisprudenza della Suprema Corte «…La incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può e deve utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno, ciò per una ragione prima logica che giuridica, oltre che per il principio di vicinanza della prova. In particolare, quando la mancata prova derivi dalle carenze colpose della condotta del medico, tipicamente omissive, e astrattamente idonee a causare il pregiudizio lamentato, quel deficit rileva non solo in punto di accertamento della colpa ma anche di quello del nesso eziologico, non potendo logicamente riflettersi a danno della vittima, sia pur in generale onerata della dimostrazione del rapporto causale.…» (Cassazione civ., Sez. III, ord. 11 dicembre 2023, n. 34427).
Considerazioni conclusive
Alla luce di tutto quanto fin qui esposto è possibile concludere, in risposta ai quesiti posti in premessa, che:
- il regime di cui agli artt. 2699 e ss. c.c. trova applicazione esclusivamente per quanto attiene alle trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento;
- sono prive di fede privilegiata, e conseguentemente liberamente apprezzabili dal giudice, le valutazioni, le diagnosi e ogni altra manifestazione di scienza o di opinione in essa espresse;
- in ogni caso, in base al principio secondo il quale nessuno può precostituire prova a favore di se stesso, le attestazioni della cartella clinica, ancorché riguardante fatti avvenuti alla presenza di un pubblico ufficiale o da lui stesso compiuti (e non la valutazione dei suddetti fatti), non costituiscono prova piena a favore di chi le ha redatte;
- infine, l’incompletezza della cartella clinica costituisce circostanza di fatto che il giudice può e deve utilizzare per ritenere dimostrata la sussistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente allorquando proprio detta incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico ed il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.
20-05-2024 15:07
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