Cassazione civile, sez. III, sentenza 18.05.2011 n. 10813 Direttive comunitarie, self executing, danni, sussistenza
La III Sezione
Svolgimento del processo
p.1. Nell'aprile del 2001 A.Q. e gli altri resistenti indicati in epigrafe (ad eccezione di E.V. e C.V.L. , che intervenivano nel giudizio), nonché altri soggetti che poi non prendevano parte al successivo giudizio di appello, tutti laureati in medicina e chirurgia, convenivano in giudizio, davanti al Tribunale di Genova gli, allora Ministeri della Sanità, del Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica, dell'Università e della Ricerca Scientifica, e della Pubblica Istruzione, nonché l1 Università degli Studi di Genova, e, adducendo di avere frequentato le scuole di specializzazione presso detta Università negli anni accademici 1982-1983 e seguenti fino a quello 1990-1991 (nei termini per ciascuno indicati), conseguendo le specializzazioni riconosciute dalle direttive CEE n. 362/75 e n. 363/75, come trasfuse, coordinate ed integrate nella direttiva n. 82/76, senza ricevere alcuna remunerazione per l'attività prestata, chiedevano: a) che fosse dichiarato che per i corsi di specializzazione seguiti avevano diritto a percepire un'adeguata remunerazione; b) e che, in conseguenza, i convenuti fossero condannati, solidalmente o alternativamente, al pagamento delle somme non percepite per gli anni di formazione in base alla legge n. 257 del 1991, interpretata alla luce delle dette direttive, disapplicandola nella parte in cui riservava l'applicazione del beneficio riconosciuto dalla normativa comunitaria soltanto ai medici perfezionandi ammessi nell'anno accademico 19914992, con quantificazione del dovuto nella misura adeguata alla stregua dei principi affermati dalle sentenze della corte di Giustizia della Comunità Economica Europea del 25 febbraio 1999 (in causa C-131-97) e del 3 ottobre 2000 (in causa C-371-97) e comunque in misura non inferiore a lire 21.500.000 per ciascun anno di specializzazione, oltre interessi e rivalutazione monetaria in conformità all'art. 6 del citato d.lgs. n. 257 del 1991.
p.1.1. Le amministrazioni convenute, costituendosi eccepivano, oltre al difetto di giurisdizione dell'A.G.O., il loro difetto di legittimazione passiva, la prescrizione sia sotto il profilo della responsabilità contrattuale che extracontrattuale, l'infondatezza delle avverse pretese per la non immeditata esecutività delle direttive comunitarie invocate e, quindi, per l'insussistenza di diritti soggettivi anteriormente al loro recepimento nell'ordinamento nazionale, la non equiparabilità di coloro che avevano frequentato le scuole di specializzazione anteriormente al L991 a coloro che le avevano frequentate successivamente.
In sede di precisazione delle conclusioni gli attori e gli intervenienti formulavano anche richiesta di condanna dei convenuti al risarcimento di tutti gli ulteriori danni patiti e patiendi da ciascuno per l'omesso ed incompleto recepimento della, direttive de quibus.
p.2. Con sentenza del maggio dei 2004 il Tribunale di Roma, per quanto ancora interessa, qualificava la causa petenti fatta valere dagli attori e dagli intervenienti come avente titolo in un'obbligazione di natura contrattuale basata su33'invocata diretta applicazione della normativa comunitaria e sulla correlativa disapplicazione della normativa in tema confliggente e non già in una responsabilità da fatto illecito per mancato recepimento della disciplina comunitaria nell'ordinamento interno, ma escludeva sia che il pur manifesto contrasto tra l'art. 8 del d.lgs. n. 257 del 1991 e la direttiva CHE n. 76 del 1982 potesse risolversi mediante l'invocata disapplicazione della normativa interna, per non essere presente nel diritto comunitario il riconoscimento del diritto in modo chiaro ed incondizionato, sia che ricorressero le condizioni per un'interpretazione comunitariamente orientata, sia che si prospettasse una questione di costituzionalità. In via subordinata affermava inoltre che il diritto fatto valere dagli attori e dagli intervenienti si sarebbe comunque dovuto reputare prescritto ai sensi dell'art. 2948 n. 4 c.c., così rigettando le relative domande.
p.3. La sentenza veniva appellata dai resistenti indicati in epigrafe davanti alla Corte d'Appello di Genova, la quale, nella costituzione delle amministrazioni, con sentenza non definitiva del 4 giugno 2008, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato le eccezioni pregiudiziali e preliminari delle convenute ed ha dichiarato che agli appellanti “compete il riconoscimento, in conformità alle direttive comunitarie di cui in motivazione, del diritto a percepire una adeguata remunerazione per la frequenza dei corsi di specializzazione presso l'Università di Genova, alle condizioni da verificarsi, e nella misura da determinarsi, nell'ulteriore corso del procedimento, riguardo al quale ha provveduto con separata ordinanza”.
Tale dichiarazione è stata fatta previa qualificazione della domanda degli attori e degli intervenienti nel senso di “azione diretta a conseguire il soddisfacimento diretto di un diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione piuttosto che il risarcimento del danno conseguente al mancata adempimento dell'obbligazione a quel diritto correlata” e ciò previa applicazione della disciplina del d.lgs. n. 257 del 1991, con espunzione del limite temporale da esso posto all'applicazione della disciplina comunitaria.
p.4. Contro questa sentenza hanno proposto congiunto ricorso per cassazione affidato a due motivi i Ministeri della Salute. dell'Economia e delle Finanze, e dell'Istruzione Università e Ricerca, nonché l'Università degli Studi di Genova.
Hanno resistito gli intimati con congiunto controricorso.
Sono intervenute nei giudizio di cassazione il Codacons (Coordinamento di associazioni per la tutela dell'ambiente e dei diritti dei consumatori) e l'Articolo 32-Associazione Italiana per i Diritti del Malato - Aidma.
p.5. Le intervenienti hanno depositato memoria.
Successivamente alle conclusioni del Procuratore Generale hanno, altresì, depositato asserite note di udienza.
Motivi della decisione
p.1. Preliminarmente va rilevata l'inammissibilità dei due interventi, spiegati in questa sede dal Codancons e dalla Aidma, atteso che “Non è consentito nel giudizio di legittimità l'intervento volontario del terzo, mancando una espressa previsione normativa, indispensabile nella disciplina di una fase processuale autonoma, e riferendosi l'art. 105 cod. proc. civ. esclusivamente al giudizio di cognizione di primo grado, senza che, peraltro, possa configurarsi una questione di legittimità costituzionale della norma disciplinante l'intervento volontario, come sopra interpretata, con riferimento all'ari:. 24 della Costituzione, giacché la legittimità della norma limitativa di tale mezzo di tutela giurisdizionale discende dalla particolare natura strutturale e funzionale del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione. Né risulta possibile la conversione in ricorso incidentale dell'atto, inammissibile, con il quale il terzo pretenda di intervenire nel giudizio di legittimità, attesa la necessaria coincidenza fra legittimazione, attiva e passiva, all'impugnazione ed assunzione della qualità di parte nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata”. (Cass. sez. un. n. 1245 del 2004; in senso sostanzialmente conforme, Cass. sez. un. n. 8882 del 2005).
Oscillazioni, sulle quali, però non è qui la sede per indugiare, si sono manifestate sull'intervento del successore a titolo particolare, ai sensi dell'art. 111 c.p.c., figura alla quale le Sezioni Unite, però, non intesero riferirsi, essendosi occupate dell'intervento ai sensi dell'art. 105 c.p.c..
Il principio affermato dalle Sezioni Unite, data la sua assorbenza in tema di intervento volontario ai sensi dell'art. 105 c.p.c., esclude la necessità di soffermarsi su come e se, in ipotesi, l'intervento in discorso fosse riconducibile ad una delle fattispecie di cui a tale norma.
p.1.1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta "violazione e falsa applicazione [del] Decreto legge [sic] n. 257/1991; Direttiva CE 362/75, 82/76; L. 370/99; artt. 2946, 2948 cod. civ.; art. 360 n. 3 c.p.c.".
Vi si critica la sentenza impugnata, là dove ha disatteso l'eccezione di prescrizione quinquennale ai sensi dell'art. 2948 n. 4 c.p.c., prospettata dai ricorrenti ed ha negato che una qualunque ipotesi di prescrizione fosse potuta decorrere con riferimento alla domanda per come qualificata, affermando che fino a quando nel diritto italiano non fosse stata introdotta una norma giuridica specifica di riconoscimento di una remunerazione a coloro che avevano frequentato le scuole di specializzazione nel periodo fra il 1982 ed il 1991, doveva farsi riferimento al principio, emergente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui, finché una direttiva sufficientemente specifica nell'individuare un diritto a favore dei singoli ma non considerabile come self - executing e, quindi, bisognosa comunque di attuazione da parte degli ordinamenti interni, non sia correttamente trasposta nell'ordinamento nazionale, i singoli non sono in grado di acquisire piena conoscenza dei loro diritti, onde, fino ai momento in cui abbia luogo l'esatta trasposizione della direttiva, lo Stato inadempiente non può eccepire la tardività di un'azione giudiziaria avviata nei suoi confronti, a tutela dei diritti che le disposizioni di tale direttiva riconoscono, e solo da tale momento può decorrere un termine incidente sulla proponibilità di "una domanda nell'ambito dell'ordinamento statuale.
Con il secondo motivo si deduce "violazione e falsa applicazione [del] D.Lgs. 257/1991; Direttive CEE 75/363, 82/76; artt. 1223 e 2043 cod. civ.. Difetto di motivazione - art. 360 n. 3,4, 5 c.p.c.".
Il motivo di violazione di norme di diritto censura la sentenza impugnata per avere essa ritenuto possibile che l'azione dei ricorrenti fosse da qualificare come azione diretta a conseguire il soddisfacimento diretto di un diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione piuttosto che il risarcimento del danno conseguente ai mancato adempimento dell'obbligazione a quel diritto correlata e ciò previa applicazione della disciplina dei d.lgs. n. 257 del 1991, con espunzione del limite temporale da esso posto all'applicazione della disciplina comunitaria.
Viceversa, secondo la giurisprudenza di questa Corte (viene citata Cass. n. 3283 dei 2008) la pretesa dei ricorrenti non avrebbe potuto essere cosi qualificata, bensì ricollegata ad un illecito da violazione da parte dello Stato Italiano degli obblighi derivanti dai Trattato CE.
Il "difetto di motivazione" si risolve, in realtà, in una censura in iure, tant'è che è conclusa da un quesito di diritto: essa, infatti, imputa alla sentenza impugnata di non avere provveduto, nel riconoscere l'applicabilità della disciplina di cui al citato d.lgs., alla necessaria verifica dell'esistenza nella frequentazione dei corsi da parte dei ricorrenti di “caratteristiche analoghe a quelle previste dalla normativa comunitaria”.
p.2. L'esame del primo motivo e della prima censura del secondo motivo può procedere congiuntamente.
Quest'ultima, anzi, denunciando un errore di qualificazione della domanda in cui sarebbe incorsa la Corte d'Appello, si profila logicamente preliminare, sia perché l'esito del suo scrutinio assume rilievo, ancorché nella prospettazione dei ricorrenti, ai fini della stessa individuazione del regime prescrizionale di. diritto interno e della sua compatibilità con la giurisprudenza comunitaria, sia perché, trattandosi di un problema di qualificazione in iure della domanda giudiziale è esaminabile da questa Corte, quale quaestio iuris. senza il limite della prospettazione della censura, alla condizione che restino immutati i fatti che della censura. sono oggetto e che individuano la domanda.
La prima censura del secondo motivo è fondata, perché la qualificazione della domanda dei ricorrenti ritenuta corretta dalla sentenza impugnata, a preferenza peraltro dell'altra prospettata dai medesimi, è erronea non meno di quanto la stessa Corte territoriale ha ritenuto la prospettiva dell'azione di risarcimento danni. La domanda proposta dai ricorrenti in relazione alle loro varie posizioni è, infatti, da qualificarsi secondo una terza opzione, la quale, tuttavia, non potrà comportare la cassazione della sentenza.
Tale terza opzione di qualificazione della domanda è quella che in relazione a domande simili le Sezioni Unite della Corte, nella sentenza n. 9147 del 2009 hanno ritenuto di offrire sulla base dell'apprezzamento della vicenda della inattuazione statuale delle direttive invocate dai resistenti in modo diverso sia dalla prospettiva della diretta applicazione del d.lgs. n. 257 del 1991, ritenuta dalla sentenza impugnata, sia dalla prospettiva della individuazione di una responsabilità statuale da fatto illecito ai. sensi dell'art. 2043 c.c..
La sostituzione della qualificazione in iure corretta a quella fra le due postulate dagli attori all'atto della proposizione della domanda giudiziale, che è stata condivisa dalla Corte genovese, nonché all'altra che essa ha disatteso e con la censura in esame si vorrebbe riconosciuta da giudice di merito alla stregua dell'art. 2043 c.c. è possibile in questa sede perché i fatti storici posti a base della domanda ed il petitum di essa e, dunque, il bisogno di tutela giurisdizionale che ha determinato la controversia, non mutano in alcun modo, ma sono soltanto ricondotti da questa Corte al loro corretto referente normativo astratto, nell'esercizio della mera attività di qualificazione in diritto della vicenda e segnatamente della domanda, Nella stessa sentenza n. 9147 del 2000 le Sezioni Unite hanno proceduto proprio in questo senso.
p.3. Ciò premesso, il Collegio intende in primo luogo dare continuità all'insegnamento delle Sezioni Unite sulla qualificazione della pretesa degli specializzandi relativa alla mancata remunerazione per l'attività prestata nell'ambito dei corsi di specializzazione. Insegnamento che si è espresso con il principio di diritto, secondo cui “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi, più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto - anche a prescindere dall'esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria - allo schema, della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi, ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell'ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell'ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall'ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un'idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all'adempimento di una obbligazione ex lege riconducibile all'area della responsabilità contrattuale, all'ordinario termine decennale di prescrizione”.
Il Collegio non ignora che l'arresto delle Sezioni Unite è stato da parte della dottrina criticato con riferimento all'affermazione del non potersi collocare il comportamento dello Stato, di inadempimento dell'obbligo di attuazione di una direttiva, sul piano dell'illecito aquiliano ai sensi dell'art. 2043 c.c., per non essere qualificabile come comportamento antigiuridico nell'ambito dell'ordinamento interno, ma solo in quello comunitario.
La critica, peraltro, sembra avere frainteso l'affermazione della non illiceità ed antigiuridicità di tale comportamento, perché le ha attribuito un carattere assoluto, invece che relativo alla sola fattispecie di cui all'art. 2043 e ss. c.c..
Viceversa, l'intento delle Sezioni Unite, là dove hanno fatto quella affermazione sembra da relativizzare, cioè si deve intendere parametrato esclusivamente alla qualificazione di illiceità ed antigiuridicità alla stregua di quelle norme e secondo le note identificative delle fattispecie da esse previste. Infatti, avendo le stesse Sezioni Unite qualificato il comportamento de quo come determinativo di un'obbligazione di natura "contrattuale", cioè direttamente originante dall'inadempimento di un obbligo, quello di attuare la direttiva comunitaria ed avendo Esse, in ossequio a quanto imposto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, considerato tale inadempimento come determinativo di un diritto al risarcimento del danno a favore del singolo, è palese che Esse non hanno affatto inteso escludere in assoluto il carattere antigiuridico ed illecito (nel senso di cantra ius) del detto comportamento sul piano dell'ordinamento interno. Le Sezioni Unite, cioè, venendo in considerazione la pretesa degli specializzandi di un risarcimento per mancata consecuzione di un'adeguata remunerazione (ma non diversamente è a dire per la pretesa al risarcimento per la mancata attribuzione al titolo di studio a suo tempo conseguito di un valore idoneo a consentirne l'utilizzazione in ambito comunitario, che costituisce l'altro possibile pregiudizio derivante dall'inattuazione delle direttive in discorso), cioè di un diritto che le note direttive imponevano fosse loro riconosciuto dall'ordinamento interno, hanno considerato tale pretesa come riconducibile al concetto generale dell'obbligazione e, dovendo individuare sul piano dell'ordinamento intermo la fonte di quest'ultima e la sua collocazione alla stregua dell'art. 1173 c.c., hanno considerato il comportamento dello Stato di inadempimento della direttiva come un fatto idoneo a produrre sul piano interno, nei confronti dei soggetti cui in base alla direttiva si sarebbe dovuto riconoscere un certo diritto, un'obbligazione risarcitoria. L'insorgenza di tale obbligazione quale conseguenza dei fatto è stata giustificata sulla base dei vincoli che dall'ordinamento comunitario derivano all'ordinamento interno per effetto dell'inadempimento di una direttiva riconoscente in modo sufficientemente specifico un diritto ai soggetti dell'ordinamento interno, ma non avente carattere self - executing.
La fonte normativa della idoneità del fatto a produrre l'obbligazione in questione discende direttamente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, manifestatasi per la prima volta con la nota sentenza 19 novembre 1991, Francovich, cause C-6/90 e C-9-90 e, quindi, precisata - come ricordato dalle Sezioni Unite - dalla sentenza 5 marzo 1996, Brasserie du Pecheur e Factortama III, cause C-46/93 e C-48/93.
In forza della necessità di riconoscere sul piano dell'ordinamento interno i dieta della Corte di Giustizia, l'inadempimento del legislatore italiano all'attuazione di una direttiva riconoscente in modo specifico determinati diritti ai singoli, ma non self - executing, è venuta a connotarsi sul piano dell'ordinamento interno come fatto generatore di un'obbligazione risarcitoria, cioè come fonte di un'obbligazione di ristoro, ed è evidente che, se da luogo ad un'obbligazione di questo tipo, cioè che impone una prestazione a ristoro dell'inadempimento, tale comportamento si caratterizza necessariamente come antigiuridico anche sul piano dell'ordinamento interno, dato che è da considerare nel suo ambito come "fatto" produttivo della nascita di un'obbligazione e, quindi, di una conseguenza negativa per lo Stato.
p.3.1. La scelta delle Sezioni Unite, d'altro canto, si può ritenere in qualche modo obbligata, per il fatto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia cui si è appena sopra fatto riferimento esige che l'obbligazione risarcitoria dello Stato non sia condizionata al requisito della colpa, il che di regola è, invece, necessario nell'illecito ex art. 2043 c.c. e, vero che nel sistema delle norme ad esso successive ve ne sono alcune che fondano la responsabilità almeno in parte su presupposti oggettivi, che prescindono cioè dalla colpa, ma. non si comprende come la responsabilità in questione potrebbe essere ricondotta ad alcune di esse,, attesa la loro specificità.
Solo la norma generale dell'art. 2043 c.c, quale norma identificatrice della figura del fatto illecito, si presterebbe, infatti, a ricevere come figura, particolare eletta responsabilità, perché se questa si volesse considerare come fatto illecito non potrebbe che evocarsi la norma de qua, giacché essa prevede una fattispecie com'è noto atipica, che, dunque, sarebbe la sola che si presterebbe a contenere la figura in questione.
p.3.2. Né, d'altro, canto si può ritenere, come pure è stato adombrato, che al requisito della colpa di. cui all'art. 2043 c.c. sostanzialmente sia riconducibile il carattere dell'inadempimento, siccome individuato come rilevante, ai fini dell'insorgenza dell'obbligo risarcitorio, dalla citata giurisprudenza comunitaria, cioè quello dell'essere la violazione sufficientemente qualificata, id est grave e manifesta. Non si comprende, infatti, come tali connotazioni, in quanto relative al mero dato oggettivo del grado di scostamento della legislazione nazionale da quanto imponeva la direttiva, possa trasformarsi in un requisito soggettivo come la colpa. D'altro canto, nei casi di inadempimento totale, si sarebbe per definizione in un'ipotesi di violazione grave e manifesta. Sicché l'argomentazione, ferma la sua non condivisibilità, sarebbe pertinente al solo caso di inadempimento parziale, salvo a stabilire come si debba intendere la parziarietà dell'adempimento e, particolarmente, se essa possa essere soggettiva, cioè concernere determinati soggetti che secondo la direttiva dovevano essere considerati.
p.3.3. In fine, deve anche escludersi che, alla qualificazione dell'obbligazione risarcitoria verso i singoli per inadempimento della direttiva, la giurisprudenza della Corte di Giustizia abbia dato urta caratteristica tale da imporre di ricondurla necessariamente nell'ordinamento italiano sotto la disciplina della lex aquilia. Non si può, cioè ritenere che, avendo quella giurisprudenza identificato il diritto del singolo come diritto al risarcimento del danno, il rinvio alla legislazione degli stati membri e, quindi, a quella dello Stato Italiano per l'individuazione della disciplina di tale risarcimento comporti che nel nostro ordinamento tale disciplina si debba identificare con quella di cui agli artt. 2043 c.c.
È sufficiente osservare che l'espressione risarcimento del danno nell'ordinamento giuridico italiano non è, com'è noto, coessenziale al sistema della sola responsabilità da illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c., ma è categoria, cioè tecnica di tutela, ben più ampia.
Dunque, l'identificazione nell'ordinamento italiano della disciplina della responsabilità nel caso di specie non poteva dirsi in alcun modo veicolata verso la disciplina degli artt. 2043 c.c., per cui l'operazione di sistemazione fatta alle Sezioni Unite nei senso di collocare la responsabilità nell'ambito della norma generale dell'art. 1176 c.c. fra gli altri fatti idonei a produrre l'obbligazione e specificamente un'obbligazione risarcitoria, ravvisandone la fonte nel carattere cogente ai fini dei la nascita di un obbligo risarcitorio, della citata giurisprudenza comunitaria, appare pienamente legittima ed anzi, se si considerano le peculiarità fissate dalla stessa giurisprudenza per l'operare dell'inadempimento quale fonte dell'obbligazione risarcitoria, appare vieppiù giustificata. Ciò, per non essere tale fonte riconducibile ad un fatto o ad atto produttivo dell'obbligazione già previsto da disposizioni dei diritto interno, bensì per essere qualificabile soltanto come uno specifico fatto emergente direttamente dall'ordinamento comunitario, nella specie attraverso la legittima manifestazione della sua forza cogente attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia.
p.3.4. Ribadito, dunque, che la responsabilità dello Stato per l'inadempimento di una direttiva comunitaria che riconosca in modo sufficientemente specifico un diritto, ma non sia self - executing, da luogo ad una fattispecie di responsabilità “contrattuale”, v'è da rilevare che le Sezioni Unite, con la qualificazione “contrattuale”, hanno chiaramente inteso riferirsi al concetto di "responsabilità contrattuale" non già nel senso di una responsabilità da contratto, il che sarebbe nella specie fuor di luogo, ma nel senso in cui di una responsabilità “contrattuale” si è sempre parlato tradizionalmente per significare che l'obbligazione risarcitoria non nasce da un fatto illecito alla stregua dell'art. 2043 e ss. c.c., ma è dall'ordinamento ricollegata direttamente alla violazione di un obbligo precedente, che ne costituisce direttamente la fonte. Si vuoi dire, cioè che il concetto di responsabilità contrattuale è stato usato dalle Sezioni Unite palesemente nel senso non già di responsabilità che suppone un contratto, ma nel senso - comune alla dottrina in contrapposizione all'obbligazione da illecito extracontrattuale - di responsabilità che nasce dall'inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, considerato dall'ordinamento interno, per come esso deve atteggiarsi secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, come fonte dell'obbligo risarcitorio, secondo la prospettiva scritta nell'art. 1173 c.c.
p.3.5. La qualificazione della responsabilità di cui si discorre come “contrattuale” ha come conseguenza, per come ritenuto dalle Sezioni Unite, che Sa disciplina della, prescrizione secondo l'ordinamento interno è quella decennale.
p.3.6. Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite e ribaditi nei termini qui indicati, la prima censura del secondo motivo è, dunque, accolta, ma la sovrapposizione della qualificazione dell'azione alla stregua di quanto affermato dalle Sezioni Unite a quella erroneamente ritenuta dalla Corte territoriale non potrà comportare, come s'è già anticipato ed emergerà dall'esito dello scrutinio del primo motivo, la cassazione della sentenza impugnata.
p.4 Anche lo scrutinio del primo motivo, intatti, evidenzia la sua fondatezza, ma non l'erroneità del dispositivo della sentenza impugnata, perché, se quest'ultima deve ritenersi erronea, là dove - pur sulla falsariga dell'ulteriore già acclarato errore di qualificazione della domanda - ha disatteso l'eccezione di prescrizione sull'assunto che nella specie non sia decorso alcun termine di prescrizione, non è erroneo, ma conforme a diritto il suo dispositivo, là dove ha negato che all'atto della domanda il diritto degli attori e qui resistenti non si fosse prescritto.
Queste le ragioni.
Ritiene il Collegio che la tesi seguita dalla Corte territoriale per giustificare l'affermazione che nessun termine di prescrizione sia mai decorso non sia condivisibile, perché la giurisprudenza comunitaria da essa implicitamente richiamata non la conforta.
Inoltre, poiché lo stato della giurisprudenza comunitaria appare oggi sufficientemente certo in questo senso, si deve escludere che ricorra una situazione di dubbio sull'interpretazione dell'incidenza del diritto comunitario sul punto, si che si imponga un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, che davanti a questa Corte rivestirebbe carattere obbligatorio.
È noto, infatti, che “Il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all'obbligo di rimettere alla Corte di giustizia della Comunità Europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un acte claire che, in ragione dell'esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell'evidenza dell'interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (cfr. Corte di Giustizia CEE 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit)” (Cass. (ord. interloc.) n. 22103 del 2007).
p.4.1. La giurisprudenza comunitaria cui la sentenza impugnata ha inteso riferirsi, pur senza individuarla, ma, peraltro, riportandone la motivazione (trasfusa anche nella massima ufficiale) è quella di cui alla nota sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 25 luglio 1991, Emmot resa nella C-208/90, secondo 1a quale “Finché una direttiva non è stata correttamente trasposta nel diritto nazionale, i singoli non sono in grado di avere piena conoscenza dei loro diritti. Tale situazione d'incertezza per i singoli sussiste anche dopo una sentenza con cui la Corte ha dichiarato che lo Stato membro di cui trattasi non ha soddisfatto gli obblighi che ad esso incombono ai semi della direttiva, e anche se la Corte ha riconosciuto che l'una o l'altra delle disposizioni della direttiva è sufficientemente precisa ed incondizionata per essere fatta valere dinanzi ad un giudice nazionale, Solo la corretta trasposizione della direttiva porrà fine a tale stato d'incertezza e nolo al momento di tale trasposizione si è creata la certezza giuridica necessaria per pretendere dai singoli che essi facciano valere i loro diritti. Ne deriva che, fino al momento dell'esatta trasposizione della direttiva, lo Stato membro inadempiente non può eccepire la tardività di un 'azione giudiziaria avviata nei suoi confronti da un singolo al fine della tutela dei diritti che ad esso riconoscono le disposizioni di tale direttiva, e che un termine di ricorso di diritto nazionale può cominciare a decorrere solo da tale momento”.
Questa decisione, va notato, si colloca in un momento, sia pure di poco anteriore, alla già citata sentenza sul caso Francovich, con la quale la Corte di Giustizia affermò che l'inadempimento di una direttiva sufficientemente specifica nell'attribuire un certo diritto, ma. non tanto da essere self - executing, da luogo ad un obbligo di risarcimento del danno a favore del singolo. Ed infatti, come emerge dalla lettura della vicenda giudiziale davanti al giudice nazionale (irlandese) nella specie la parte (la signora Emmot) non faceva, valere una pretesa risarcitoti a, ma rivendicava dallo Stato Irlandese i diritti riconosciuti dalla direttiva.
Inoltre, la decisione non si riferiva espressamente all'istituto della prescrizione, ma alla più ampia fattispecie dell'imposizione di termini di ricorso nell'ordinamento nazionale.
Successivamente, la giurisprudenza della Corte di Giustizia si è mossa, però, espressamente nel senso di ridimensionare la portata dell'affermazione della sentenza Emmot, Ciò, soprattutto con riferimento a vicende che non riguardavano pretese risarcitorie da inadempimento di direttiva bensì pretese verso lo Stato nazionale di carattere restitutorio di vantaggi conseguiti indebitamente in quanto l'ordinamento nazionale non si era conformato a direttive che imponevano l'esclusione di divieti. La ragione per cui non si. trattava di pretese di risarcimento danni va ravvisata, verosimilmente, nella circostanza che nel momento in cui le pretese erano state introdotte davanti al giudice nazionale la sentenza Francovich non era stata ancora, pronunciata. D'altro canto, solo con la già citata sentenza Brasserie au Pecheur, che è del 1996, l'arresto di cui alla Francovich venne precisato. Tuttavia, talvolta, specie da ultimo, la giurisprudenza di ridimensionamento della sentenza Emmott si è manifestata espressamente con riguardo a casi nei quali il soggetto dello Stato membro faceva valere proprio la pretesa al risarcimento da inadempimento della direttiva, piuttosto che il diritto stabilito da essa.
p.4.2. L'esame della giurisprudenza successiva alla sentenza Emmott evidenzia, in particolare, quanto segue:
a) già la sentenza 27 ottobre 1993, Steenhorst-Neerings, C-338/91, essendo stata invocata la sentenza Emmott nella controversia (e l'invocazione l'aveva fatta la stessa Commissione), ne restrinse sostanzialmente la portata, sia pure dicendo che l'applicazione del principio da essa stabilito non era pertinente nella specie, perché non si trattava di norma di diritto interno diretta, a stabilite, prima dell'attuazione della direttiva che veniva in rilievo, un termine per agire, bensì di norma che limitava l'effetto retroattivo di una domanda intesa ad ottenere una prestazione riconosciuta dalla direttiva: la massima affermata fu la seguente: “Il diritto comunitario non si oppone all'applicazione di una disposizione di legge nazionale in forza della quale una prestazione di inabilità al lavoro sia retroattiva a non oltre un anno prima della data di presentazione della domanda, qualora un singolo faccia valere i diritti direttamente attribuitigli, a decorrere dal 23 dicembre 1984, dall'art. 4, n. 1, della direttiva 79/7 in tema di divieto di discriminazioni fondate sul sesso in materia di previdenza sociale e, alla data di presentazione della domanda, lo Stato membro interessato non abbia ancora provveduto alla corretta attuazione di tale norma della direttiva nell'ordinamento giuridico interno”. È innegabile, però, che ritenendo legittima l'applicazione di un limite alla retroattività dell'azione diretta ad ottenere il diritto riconosciuto dalla direttiva che veniva in rilievo, sostanzialmente si escluse che la situazione di inattuazione della stessa potesse giustificare l'attribuzione di tutto ciò che in base ad essa il soggetto avrebbe potuto conseguire. Onde la specificità del caso giudicato rispetto al principio della Emmott diventa difficilmente comprensibile;
b) ad un caso assolutamente simile - per espressa affermazione della stessa Corte di Giustizia - a quello sub a) si riferisce la sentenza 6 dicembre 1994, Johnson, C-410-92, nella quale, però, il giudice comunitario, prima di ribadire l'identica ratio deciderteli di quel caso (cioè, trattarsi di limitazione dell'effetto retroattivo: punto 28), richiamandosi alla sentenza citata sub a) (punto 26) espressamente afferma, per giustificare l'irrilevanza dei principio della Emmott, che “dalla menzionata sentenza Steenhorst - Neerings deriva che la soluzione sviluppata nella sentenza Emmott era giustificata dalle circostanze tipiche di detta causa, nelle quali, la decadenza dai termini arrivava a privare totalmente la ricorrente nella causa principale della possibilità di far valere il suo diritto alla parità di trattamento in virtù della direttiva”. Affermazione questa che parrebbe significare che il principi deità Emmott può essere derogato a condizione che la disciplina interna non elimini tutti i benefici che il singolo avrebbe potuto conseguire in caso di totale attuazione della direttiva, ma li precluda solo in parte;
c) irrilevante è Corte di Giustizia 10 luglio 1997, Palmisani, C-261-95, poiché riguardò un caso in cui, nell'attuare tardivamente la direttiva, lo Stato Italiano aveva espressamente regolato l'azione risarcitoria da inadempimento e l'aveva assoggettata ad un termine decadenziale: si trattava, quindi, di diritto del singolo fatto valere sulla, base della disciplina di adempimento della direttiva che veniva in questione;
d) patimenti irrilevanti sono Corte di Giustizia 17 luglio 1997, Haahr Petroleum Lidt C-90-94 e 17 luglio 1997, Texaco, C-114-95 e C- 115-95, poiché si riferiscono a casi nei quali la sentenza Emmott era stata invocata in ipotesi di assoggettamento a termine di un'azione direttamente basata su una norma del Trattato e non su una direttiva.: la Corte comunitaria ebbe a rilevare che la sentenza Emmott non era pertinente, perché riguardava solo il caso del diritto fondato sulla direttiva;
e) di particolare importanza, viceversa, perché riguardò un caso nel quale veniva in rilievo un termine di prescrizione, è Corte di Giustizia 2 dicembre 1997, Faniask, C-188-95, la quale affermò che “il diritto comunitario non vieta ad uno Stato membro, che non ha attuato correttamente la direttiva 69/335, come modificata, di opporre alle azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in violazione di tale direttiva un termine di prescrizione nazionale che decorra dalla data di esigibilità dei tributi di cui trattasi, qualora tale termine non sia meno favorevole per i ricorsi basati sul diritto comunitario di quello dei ricorsi basati sul diritto interno e non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario”: in questo caso, la direttiva non adempiuta correttamente avrebbe comportato, se lo fosse stata, l'esclusione della debenza di determinati tributi e la parte privata, invocando la direttiva, aveva esercitato un'azione di rimborso di somme versate in eccedenza rispetto a quanto dovuto in presenza di corretta attuazione della direttiva. La Corte di Giustizia nuovamente ribadì, “che la soluzione sviluppata nella sentenza Emmott era giustificata dalle circostanze tipiche di detta causa, nelle quali la decadenza dai termini arrivava a privare totalmente la ricorrente nella causa principale della possibilità di far valere il suo diritto alla parità di trattamento in virtù di una direttiva comunitaria” (punto 51). Peraltro, in questo caso - riguardo al quale va nuovamente ribadito la rilevanza della impostazione data alla, controversia sul piano del diritto interno - la pretesa di restituzione di somme indebitamente pagate nella sostanza si poteva considerare, anche se nel dibattito processuale non io tu, come risarcitoria secondo le coordinate della Francovich;
f) la stessa soluzione e le stesse motivazioni della sentenza sub e) si trovano ribadite da Corte di Giustizia 15 settembre 1998, Arnaldo Energia s.p.a., C-279-96, C-280-96 e C-281-96, da Corte di Giustizia 15 settembre 1998, Spac s.p.a., C-260-96, e da Corte di Giustizia 15 settembre 1998, Edis, C-231-96, tutte relative controversie con lo Stato italiano, concernenti questioni similari, nella specie concernenti la c.d. tassa sulle società italiana, nonché da Corte di Giustizia 17 novembre 1998, Aprile, C-228-96, concernente termine di decadenza di azione di rimborso di tassa doganale, e da Corte di Giustizia 28 novembre 2000, Roquette Freres SA, C-88-99, relativa sempre ad azione di ripetizione di imposta nazionale indebitamente riscossa;
g) da ultimo, assume invece particolare rilevanza Corte di Giustizia (Grande Sezione) 14 marzo 2009, Danske Slagterier, C-445-06, la quale, intervenendo su un caso in cui la questione pregiudiziale era stata posta proprio circa l'applicazione di un termine di prescrizione previsto dall'ordinamento interno - quello tedesco - all'azione di risarcimento danni da carente trasposizione di una direttiva, ha statuito che “Il diritto comunitario non osta a che il termine di prescrizione di un'azione di risarcimento nei confronti dello Stato, basata sulla carente trasposizione di una direttiva, inizi a decorrere dalla data in cui i primi effetti lesivi di detta scorretta trasposizione si siano verificati e ne siano prevedibili altri, anche qualora tale data sia antecedente alla corretta trasposizione della direttiva in parola”.
Il caso concreto riguardava una pretesa risarcitoria fatta valere da una società danese contro io Stato tedesco per il fatto che Esso non aveva attuato correttamente una direttiva comunitaria prevedente l'obbligo di consentire l'importazione di carni suine aventi certe caratteristiche, di modo che quella società, essendo stata costretta ad importare carni di caratteristiche diverse, aveva subito perdite da minori ricavi.
La Corte di Giustizia ha motivato il principio sopra riportato in questi termini: “(47) Con la quarta questione il giudice del rinvio chiede se il termine di prescrizione di un'azione di risarcimento nei confronti dello Stato, basata sulla carente trasposizione di una direttiva, inizi a decorrere, a prescindere dal diritto nazionale applicabile, unicamente, a partire dalla completa trasposizione di tale direttiva, o se il termine in parola cominci a decorrere, conformemente al diritto nazionale, dalla data in cui i primi effetti lesivi di deità scorretta trasposizione si siano verificati e ne siano prevedibili altri. Qualora la completa trasposizione incida sul decorso dei termine di prescrizione di cui trattasi, il giudice a quo chiede se ciò valga in generale o soltanto quando la direttiva attribuisca un diritto ai soggetti dell'ordinamento. (48) In proposito giova ricordare che, come menzionato ai punti 31 e 32 della presente sentenza, in mancanza di una normativa comunitaria, spetta agli Stati membri disciplinare le modalità procedurali dei ricorsi diretti a garantire la piena tutela dei diritti conferiti ai soggetti dal diritto comunitario, norme sulla prescrizione incluse, purché tali modalità rispettino i principi di equivalenza e di effettività, Occorre inoltre ricordare che la fissazione di termini di ricorso ragionevoli, a pena di decadenza, rispetta siffatti principi e, in particolare, non si può ritenere che renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti attribuiti dall'ordinamento giuridico comunitario. (49) Nemmeno la circostanza che il termine di prescrizione previsto dal diritto nazionale inizi a decorrere dal momento in cui si sono verificati i primi effetti lesivi, e che siano prevedibili ulteriori effetti analoghi, è tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti attribuiti dall'ordinamento giuridico comunitario. (50) La sentenza 13 luglio 2006, cause riunite da C-295/04 a C-298/04, Manfredi e a. (Racc. pag. 1-6619), cui fa riferimento la Danske Slagterier, non è tale da inficiare detta conclusione. (51) Ai punti 78 e 79 della citata sentenza, la Corte ha considerato che non è da escludersi che un termine di prescrizione breve per la proposizione di un ricorso per risarcimento danni, decorrente dal giorno in cui un Intesa o una pratica concordata è stata posta in essere, possa rendere praticamente impossibile l'esercizio del diritto di chiedere il risarcimento del danno causato da tale intesa o pratica vietata, in caso di infrazioni continuate o ripetute, non è quindi impossibile che il termine di prescrizione si estingua addirittura prima che sia cessata l'infrazione e in tal caso, chiunque abbia subito danni dopo la scadenza del termine di prescrizione si troverebbe nell'impossibilità di presentare un ricorso. (52) Orbene, ciò non si verifica nella fattispecie della causa principale. Dalla decisione di rinvio, infatti, risulta che il termine di prescrizione di cui trattasi nella presente controversia non può cominciare a decorrere prima che il soggetto leso abbia avuto conoscenza del danno e dell'identità della persona tenuta al risarcimento. In siffatte circostanze è quindi impossibile che un soggetto che ha subito un danno si trovi in una situazione nella quale il termine di prescrizione inizi a decorrere, e addirittura si estingua, senza che detto soggetto nemmeno sappia di essere stato leso, caso che invece si sarebbe potuto verificare nel contesto della controversia all'origine della citata sentenza Manfredi e dove il termine di prescrizione cominciava a decorrere dal momento in cui veniva posta in essere l'intesa o la pratica concordata, e di cui taluni interessati potevano avere conoscenza unicamente in un momento decisamente successivo. (53) Quanto alla possibilità di stabilire il momento iniziale del termine di prescrizione prima della completa trasposizione della direttiva in parola, è vero che, al punto 23 della sentenza 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmott (Racc. pag. 1-4269), la Corte ha dichiarato che, al momento della trasposizione corretta della direttiva, lo Stato membro inadempiente non può eccepire la tardivi di un'azione giudiziaria avviala nei suoi confronti da un soggetto alfine di tutelare i diritti che ad esso riconoscono le disposizioni della direttiva, e che un termine di ricorso di diritto nazionale può cominciare a decorrere solo da tale momento. (54) Tuttavia, come confermato dalla sentenza 6 dicembre 1994, causa C-4W/92, Johnson (Racc. pag. 1-5483, punto 26), dalla sentenza 27 ottobre 1993, causa C-3 38/91, Steenhorst-Neerings (Racc. pag. 1-5475), deriva che la soluzione elaborata nella menzionata sentenza Emmott era giustificata dalle circostanze proprie di detta causa, dove la decadenza dai termini arrivava a privare totalmente la ricorrente nella causa principale della possibilità di far valere il suo diritto alla parità di trattamento in virtù di una direttiva comunitaria (v., altresì, sentenze 17 luglio 1997, causa C-90/94, Haahr Petroleum, Racc. pag. 1-4085, punto 52, e emise riunite C-114/95 e C-I 15/95, Texaco e Olieselskabet Danmark, Racc. pag. 1-4263, punto 48, nonché 15 settembre 1998, cause riunite da C-279/96 a C-281/96, Arnaldo Energia e a., Racc. pag. 1-5025, punto 20). (55) Orbene, nella causa principale, né dal fascicolo né dai dibattimenti nel corso della fase orale risulta che l'esistenza del termine controverso abbia condotto, come nella causa all'origine della citata sentenza Emmott, a privare totalmente i soggetti lesi della possibilità di far valere i loro diritti dinanzi ai giudici nazionali. (56) La quarta questione va pertanto risolta dichiarando che il diritto comunitario non osta a che il termine di prescrizione di un 'azione di risarcimento nei confronti dello Stato, basata sulla carente trasposizione di una direttiva, inizi a decorrere dalla data in cui i primi effètti lesivi di detta scorretta trasposizione si siano verificati e ne siano prevedibili altri, anche qualora tale data sia antecedente alla corretta trasposizione della direttiva in parola”.
p.4.3. Ora l'analisi della giurisprudenza comunitaria succeduta alla sentenza Emmott e particolarmente dell'ultima decisione di cui si è riferito, la quale, a differenza di quelle precedenti, concerne direttamente il caso della pretesa di risarcimento danni da inadempimento di una direttiva (e non pretese di rimborso per pagamenti che non sarebbero stati dovuti se la direttiva fosse stata attuata), suggerisce la seguente considerazione: se anteriormente alla sentenza da ultimo ricordata, poteva nutrirsi qualche dubbio sulla applicabilità del ridimensionamento a quel caso (l'azione risarcitoria da inadempimento di direttiva sufficientemente specifica da attribuire diritti, ma non self - executing), dopo detta sentenza ogni dubbio è venuto meno.
Queste le ragioni.
Prima della sentenza Danske Slagterier la circostanza che la giurisprudenza espressamente ridimensionatrice dell'ambito del principio stabilito dalla sentenza Emmott si fosse formata in riferimento a casi nei quali il soggetto dell'ordinamento interno non aveva esercitato almeno formalmente un'azione risarcitoria (verosimilmente perché aveva agito prima della Francovich, o perché la portata di essa non era ancora stata percepita), bensì, o un'azione tendente a rivendicare il riconoscimento dei diritti previsti dalla direttiva o una pretesa alla restituzione di quanto pagato a titolo di imposta o tassa non dovuta secondo la direttiva non adempiuta, poteva effettivamente suggerire (in disparte la valutazione del se le azioni esercitate sul piano dell'ordinamento interno, al di là del petitum, fossero nella sostanza dirette ad ottenere un risarcimento, il che, se poteva apparire eventualmente ipotizzarle nel secondo caso, posto che si trattava di direttive impositive di un divieto di tassazione o di imposta e l'avere pagato una tassa o un'imposta che non si sarebbe dovuto pagare integrava in ultima analisi un danno, lo era forse meno, ma lo era pur sempre anche nel caso dell'azione diretta a postulare il diritto riconosciuto dalla direttiva, posto che tale riconoscimento aveva valore sostanzialmente risarcitorio) il dubbio che un'azione esercitata sul piano del diritto interno con espressa invocazione del risarcimento del danno derivante dall'inadempimento di una direttiva, specie se attributiva di un diritto di contenuto positivo (e non negativo, come nel caso del divieto di tassazione o imposizione), fosse rimasta ancora sotto la copertura integrale del principio della Emmott o almeno, se non quel dubbio, la mancanza di un'espressa risposta sui punto della Corte di Giustizia.
L'esistenza del dubbio o quantomeno della mancanza di un precedente specifico poteva giustificare la prospettazione di una questione di rinvio pregiudiziale alla Corte comunitaria, per ottenere ima decisione sull'estensione o meno al caso dell'azione risarcitoria dell'oggettivo ridimensionamento del principio della sentenza Emmott. Tanto più in considerazione del fatto che esso era stata affermato in riferimento all'invocazione diretta di un diritto basato sulla direttiva ed in un momento nel quale non era stata pronunciata ancora la sentenza sul caso Francovich.
p.4.4. Una volta sopravvenuta la sentenza sul caso Danske Slagterier, il dubbio è, però, venuto meno e, pertanto, sussiste una situazione di un acte claire che esclude la possibilità e, in questa sede di ultima istanza, la necessità di un rinvio pregiudiziale.
Questa Corte è consapevole che. peraltro, un rinvio pregiudiziale risulta effettuato da un giudice di merito italiano (Corte d'Appello di Firenze 18 novembre 2009, C-452-09, in Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, C 24/32, 30.1.2010), j] quale ha posto alla Corte di Giustizia i seguenti quesiti: “se sia compatibile con l'ordinamento comunitario che lo Stato italiano possa legittimamente eccepire la prescrizione quinquennale o decennale ordinaria di un diritto nascente dalla direttiva CE n. 76/1982 per il periodo antecedente la prima legge attuativa italiana, senza con ciò impedire definitivamente l'esercizio del suddetto diritto avente natura retributiva fallimentare, o in subordine l'esercizio di una azione risarciforia/indennitaria, Se viceversa, sia compatibile con l'ordinamento comunitario che ogni eccezione di prescrizione sia preclusa perché definitivamente ostativa all'esercizio del suddetto diritto. Oppure se sia compatibile con l'ordinamento comunitario che ogni eccezione di prescrizione sia preclusa fino ali 'accertamento della violazione comunitaria da parte della CdG (nella specie fino al 1999). Oppure se sia compatibile con l'ordinamento comunitario che ogni eccezione di prescrizione sia comunque preclusa fino alla corretta e compiuta trasposizione della direttiva che ha riconosciuto il diritto, nella legislazione nazionale (nella specie mai intervenuto) come previsto dalla sentenza Emmott”.
L'ora citata ordinanza di rinvio pregiudiziale, nel motivare l'elevazione della questione pregiudiziale richiama parte della giurisprudenza della Corte di Giustizia anteriore alla sentenza Danske Slagterier, ma non considera quest'ultima (forse perché essa, di qualche mese anteriore, era ignota al giudice fiorentino). La motivazione del rinvio, basata sul fatto che non sarebbe chiaro il significato della ratio del ridimensionamento della sentenza Emmott espressa dal concetto di mancanza della privazione totale della possibilità di far valere il diritto basato sulla direttiva comunitaria, che vi sarebbe stata nel caso deciso da quella sentenza, non è condivisibile dopo la sentenza Danske Slagterier.
Infatti, questo concetto, che nelle prime pronunce successive alla Emmott era stato ancorato al fatto che davanti ai giudici nazionali veniva in rilievo non tanto una questione di decadenza o prescrizione dal diritto di far valere l'inadempimento ed ottenere la tutela dell'interesse da esso sacrificato nella sua totalità, bensì relativa alla limitazione del periodo per il quale tale interesse era riconosciuto, trova spiegazione nella sentenza Danske Slagterier, là dove essa, al punto (33), dopo avere ribadito che compete agli ordinamenti interni disciplinare l'azione risarcitoria diretta a far valere l'inadempimento di una direttiva attributiva di un diritto, nel rispetto dei principi di equivalenza (che impone di fissare termini che non siano meno favorevoli di quelli previsti per azioni analoghe) e di effettività (che impone comunque che il termine applicato non sia tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento), osserva, richiamando la sentenza Marks & Specner sul punto che il termine di prescrizione dev'essere stabilito previamente, per adempiere alla sua funzione di garantire la certezza del diritto, che; “una attuazione caratterizzata da un 'incertezza normativa significativa può costituire una violazione del principio di effettività, poiché il risarcimento dei danni-causati alle persone da violazioni del diritto comunitario imputabili ad un Stato membro potrebbe essere reso eccessivamente gravoso nella pratica, se detti soggetti non potessero determinare il termine di prescrizione applicabile con un ragionevole grado di certezza. (34). Spetta al giudice nazionale, tenuto conto del complesso degli elementi che caratterizzano la situazione di fatto e di diritto all'epoca dei fatti di cui alla causa principale, verificare, alla luce del principio d'effettività, se l'applicazione per analogia...[di un certo termine: nel caso di specie si trattava del termine ex art. 852, n. 1, del BGB tedesco] alle domande di risarcimento dei danni provocati a seguito della violazione del diritto comunitario da parte dello Stato membro interessato fosse sufficientemente prevedibile dai soggetti”. In sostanza, il mandato ai giudice nazionale di accertare se l'applicazione di un certo temine di prescrizione sia compatibile con il principio di effettività, valutato anche con il filtro della prevedibilità da parte dei soggetti, risulta idoneo a spiegare il senso di quel concetto.
Deve, poi, rilevarsi che il terzo quesito prospettato dalla Corte fiorentina ha trovato già una definitiva riposta negativa proprio nella stessa sentenza Danske Stogterier, che ha espressamente affermato che non si può subordinare il risarcimento del danno al presupposto di una previa constatazione, da parte della Corte di Giustizia, di un inadempimento del diritto comunitario imputabile allo Stato (punto (38), dove si richiama l'affermazione già fatta dalla già citata sentenza Brasserie du pecheur e Factortame e da quella 8 ottobre 1996, cause riunite C-I78/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94, Dillenkofer).
p.4.5. Questa Corte, dunque, sulla base delle complessive considerazioni svolte (che si è ritenuto di articolare diffusamente quanto all'esame della giurisprudenza comunitaria proprio per escludere che vi sia situazione di obbligo di rinvio) e di quanto appena evidenziato reputa che non ricorra una situazione di incertezza sull'interpretazione dei diritto comunitario, tele da imporre un rinvio pregiudiziale, perché la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in tema di azione risarcitoria di diritto interno, da inadempimento di direttiva sufficientemente specifica nell'attribuire ai singoli diritti, ma non self - executing, evidenzia conclusioni certe nei senso:
a) la regolamentazione delle modalità, anche quoad termini di decadenza o prescrizione, dell'azione risarcitoria da inadempimento di direttiva attributiva di diritti ai singoli compete agli ordinamenti interni;
b) in mancanza di apposita disciplina da parte degli Stati membri, che dev'essere ispirata ai principi di equivalenza ed effettività, il giudice nazionale può ricercare analogicamente la regolamentazione dell'azione, ivi compresi eventuali termini di decadenza o prescrizione, in discipline di azioni già regolate dall'ordinamento, purché esse rispettino i principi suddetti e Xparticolarmente, non rendano impossibile o eccessivamente gravosa l'azione;
c) l'applicazione di un termine di prescrizione che così ne risulti, cioè che derivi dal riferimento che il giudice nazionale fa ad una disciplina interna regolamentante altra azione, è possibile comunque solo se essa può considerarsi sufficientemente prevedibile da parte dei soggetti interessati, dovendo, dunque, il giudice nazionale procedere necessariamente a tale apprezzamento;
d) l'eventuale termine di prescrizione può decorrere anche prima della corretta trasposizione della direttiva nell'ordinamento nazionale, se il danno, anche solo in parte (è questo il significato del riferimento ai “primi effetti lesivi” contenuto nella sentenza nella sentenza Danske Slagterier) per questo soggetto si è verificato anteriormente.
p.5. Questi principi debbono ora. essere applicati all'interno del nostro ordinamento nazionale con riguardo alla vicenda di cui è causa.
p.5.1. Deve subito rilevarsi che essi legittimano pienamente l'operazione di qualificazione dell'azione di risarcimento fatta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9147 del 2009, posto che la Corte di Giustizia demanda all'ordinamento interno e, quindi, al legislatore nazionale di disciplinare detta azione e, subordinatamente, in caso di omessa legislazione, al giudice nazionale, di individuarla analogicamente. Le Sezioni Unite, sull'implicita contemplazione che l'ordinamento italiano prevede che obbligazioni possano sorgere genericamente da fatti idonei a produrle in conformità all'ordinamento giuridico, hanno considerato la giurisprudenza comunitaria come fatto idoneo a costituire tale fonte.
L'applicazione del termine di prescrizione decennale, della quale sopra si è data giustificazione, ove sia apprezzata sotto il profilo della prevedibilità da parte dei soggetti interessati, appare prevedibile, tenuto conto che il termine di prescrizione decennale (di cui all'art. 2946 c.c.) è quello generale e certamente più favorevole rispetto ai termini speciali, più brevi. Risponde, quindi, al principio comunitario di effettività.
Sarebbe, d'altro canto, consentito dall'ordinamento comunitario che tale termine decorresse prima della corretta trasposizione nell'ordinamento interno delle note direttive, qualora un danno anche solo iniziale si fosse verificato prima di tale trasposizione.
Occorre valutare se - in assenza di una specifica regolamentazione dell'azione risarcitoria da parte dello Stato Italiano in relazione al caso di specie - i principi generali propri dell'ordinamento italiano in tema di prescrizione consentano questo effetto, oppure non lo consentano, oppure lo consentano a partire da un certo momento.
p.5.2. Il dato di partenza al riguardo è che la corretta trasposizione di quelle direttive, cioè la loro integrale applicazione, non si è mai verificata nell'ordinamento italiano.
Essa, com'è noto, doveva avvenire entro il 31 dicembre 1982 (art. 16 della direttiva 82/76/CEE).
Lo Stato Italiano non rispettò tale termine, tanto che venne dichiarato inadempiente dalla Corte di Giustizia con sentenza del 7 luglio 1987, C-49-86.
La situazione di inadempienza verificatasi al 31 dicembre 1982 non fece cessare l'obbligo comunitario dello Stato Italiano di adempiere comunque le direttive sia pure in ritardo. Tale obbligo avrebbe potuto essere adempiuto integralmente soltanto se lo Stato italiano, nell'introdurre una disciplina attuativa della direttiva e conforme ad essa, avesse disposto non solo per l'avvenire, cioè in relazione alle situazioni dei singoli riconducigli ad essa dopo la sua entrata in vigore, ma anche prevedendo la retroattività di detta disciplina. Per un adempimento pieno sarebbe occorso che io Stato Italiano avesse dettato disposizioni intese ad attribuire i diritti previsti dalle direttive a coloro che, se le direttive fossero state adempiute entro il 31 dicembre 1982, si sarebbero trovati nelle condizioni per poterli acquisire e, quindi, ai medici specializzandi che avevano seguito i corsi di specializzazione a partire dal 1 gennaio 1983 e lo avevano fatto con modalità conformi a quanto prevedevano le direttive.
La previsione da parte della giurisprudenza comunitaria, a partire dalla sentenza Francovich, che l'inadempimento di una. direttiva attributiva di diritti ai singoli, ma non self-executing, dia luogo ad un obbligo risarcitorio, infatti, non toglie alla Stato membro la possibilità di adempiere tardivamente la direttiva provvedendo cioè non solo per il futuro, ma anche riguardo alle situazioni dei singoli successive alla scadenza del termine, si da soddisfarle. Sicché l'obbligo risarcitorio, dal punto di vista dello Stato membro si pone sostanzialmente come alternativo e ciò non solo sul piano dell'ordinamento comunitario, ma anche sul piano dell'ordinamento interno, fermo restando che la pretesa azionatole dal singolo in questo ambito è solo quella risarcitoria.
Il che, naturalmente, lo si osserva in generale, non significa che, in presenza di una situazione in cui sussista un dubbio sul se la direttiva sia stata recepita completamente, sia preclusa ai giudice nazionale la possibilità, di valutare, svolgendo la normale attività esegetica, se, in ragione del vincolo di conformazione dell'ordinamento interno a quello comunitario (ed anzi della necessità sul piano costituzionale - ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost. - che la stessa attività esegetica si svolga tendenzialmente nel senso di dare espansione alle norme interne in modo che quel vincolo risulti rispettato e sia assicurato l'integrale recepimento), sia possibile estendere l'ambito della legge nazionale ai diritti o ai soggetti riguardo ai quali sussista il dubbio ch'essa li abbia considerati.
Per altro verso e ritornando alla vicenda di cui si discorre, conforme alla sentenza Francovich, l'inadempimento determinò una situazione per cui de die in die, a favore di ogni soggetto che, nel caso di adempimento della direttiva al 31 dicembre 1982, si fosse venuto a trovare successivamente nella condizione di fatto per vedersi attribuire un diritto previsto dalla direttiva, nasceva l'obbligo dello Stato di risarcimento del danno a cagione della sua inadempienza.
Lo Stato Italiano, dunque, dopo il 31 dicembre 1982 si venne a trovare nella duplice condizione di obbligato sul piano comunitario ad un adempimento tardivo delle direttive e, mano a mano che per i medici maturavano le condizioni che in presenza di un'attuazione delle direttive avrebbero dato luogo a loro favore ai diritti previsti dalla direttiva e segnatamente quello all'adeguata remunerazione e quello a vedersi riconoscere l'idoneità dei titolo di specializzazione negli altri paesi comunitari, di obbligato - in conseguenza al risarcimento dei danni verso tali soggetti per la mancata consecuzione da parte loro di tali benefici. Tale obbligo, peraltro, sarebbe potuto venir meno se io Stato avesse adempiuto le direttiva con la previsione degli effetti retroattivi idonei ad attribuire a detti soggetti quei benefici, nonché a coprire eventuali danni da ritardo, in tal caso, intatti, la fonte dell'obbligo risarcitorie), cioè il comportamento di inadempienza delle direttive, sarebbe venuta meno, Peraltro, se l'adempimento tardivo non avesse coperto i danni da ritardo o avesse coperto i danni solo in parte, l'obbligo risarcitorio si sarebbe astrattamente concentrato solo sul residuo, in disparte, però, ogni valutazione sul se l'ordinamento comunitario e, quindi, di riflesso quello costituzionale, in virtù del vincolo di conformazione, possano tollerare una sorta di risarcimento tardivo solo parziale (come quello che si è avuto per certi soggetti ai sensi dell'art. 11 della l. n. 370 del 1999): questione questa che non è da discutere in questa sede.
p.5.3. È da rilevare che la situazione di obbligo dello Stato Italiano di adempiere le direttive dopo la scadenza del termine del 31 dicembre 1982 perdurò a livello dell'ordinamento comunitario e, quindi di riflesso con riguardo all'ordinamento interno fino al 20 ottobre 2007.
Queste le ragioni.
Le direttive 75/362/CEE e 75/363/CEE, nonché quella 82/76/CEE che ie modificò vennero abrogate dall'art. 44 della direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, n. 93/16/CEE, la quale, però, oltre a confermare la loro disciplina (per come risultante dalla direttiva di modifica) a regime per i medici specializzandi a tempo pieno e parziale (ali. I, artt. 1 e 2, in relazione agli artt. 24 e 25), stabilì nello stesso art. 44 che, nonostante l'abrogazione, restassero “salvi gli obblighi degli Stati membri relativi ai termini per il recepimento”, come da indicazione nell'allegato III, parte B, nella quale, in riferimento alla direttiva 82/6/CE trovasi richiamato il termine del 31 dicembre 1982. Questa previsione comportava che gli Stati totalmente o parzialmente inadempienti alle direttive de quibus e, quindi, lo Stato Italiana, dovessero comunque considerarsi obbligati a livello comunitario all'adempimento tardivo.
La più recente direttiva 2005/3 6/CE a sua volta, oltre a dettare negli artt. 25-26 una nuova disciplina dei medici specializzati, nell'art. 62 ha previsto, però, l'abrogazione a partire dal 20 ottobre 2007 (cioè dalla data della sua entrata in vigore) della direttiva 93/16/CEE. Ne consegue che, per effetto dell'abrogazione anche dell'art. 44 sopra citato, a quella data è cessato l'obbligo dello Stato Italiano di adempiere, sia pure tardivamente, le direttive
18-06-2011 00:00
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