Notizie, Sentenze, Articoli - Avvocato Civilista Trapani

Sentenza

Licenziamento per giusta causa: legittimo se il lavoratore viola l’obbligo di fe...
Licenziamento per giusta causa: legittimo se il lavoratore viola l’obbligo di fedeltà Corte di Cassazione Sez. Lavoro - Sent. del 02.11.2011, n. 22693
Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 4/12/08 - 13/3/09 la Corte d'Appello di Bologna rigettò l'impugnazione proposta da (…) avverso la sentenza n. 623/05 del giudice del lavoro del Tribunale di Reggio Emilia, con la quale era stata respinta la sua richiesta diretta a sentir accertare l'illegittimità delle persecuzioni e del demansionamento subiti oltre che del licenziamento intimatogli il 28/3/02 dal Consorzio della Bonifica (…), e nel confermare la gravata decisione compensò le spese del grado.

La Corte bolognese spiegò che era risultata provata la sussistenza dell'ipotesi di licenziamento in tronco di cui all'art. 48 lett. g) del ccnl di settore, cioè la partecipazione dell'appellante a benefici in relazione agli affari trattati per ragioni d'ufficio, essendosi il medesimo, quale dipendente del Consorzio appellato, preso cura di affari tra quest'ultimo e la (… ) s.a.s, della quale era socio accomandante al 50%, senza che questa sua qualità fosse stata resa nota al Consorzio stesso, inoltre, non era stato provato il lamentato demansionamento.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il (…) il quale affida l'impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso il Consorzio della Bonifica (…).

Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1 Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione dell'art. 48, comma 1, lettera G) del CCNL per i dipendenti dei Consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario in relazione agli artt. 1362, 1363 e 1369 c.c. (art. 360 n. 3 epe.) e pone il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se l'art. 48, comma 1, lettera G del CCNL per i dipendenti dei Consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario vada interpretato, come sostenuto dal ricorrente, nel senso che il termine “affari trattati per ragioni d'ufficio” richieda che il dipendente abbia trattato direttamente o indirettamente l'affare o, comunque, sia intervenuto sullo stesso in modo tale da incidere sull'esito della trattativa, non essendo sufficiente, invece, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'Appello, la mera segnalazione, da parte del dipendente che non ha alcun potere di trattare l'affare o, comunque, di incidere sulla sua conclusione, al suo superiore gerarchico, della opportunità di determinate acquisizioni e della disponibilità della società di cui egli detiene una partecipazione (al 50%), senza rendere edotto di ciò il suo superiore, di fornire “servizi, materiali o prestazioni di tipo informatico” anche al dì fuori degli orari d'ufficio per far fronte alle ragioni d'urgenza segnalate dalla Direzione della datrice di lavoro.”

In pratica, nel contestare l'interpretazione della norma collettiva inerente l'illecito disciplinare in esame, cosi come operata dalla Corte territoriale, il ricorrente ne propone a sua volta una diversa, più restrittiva, basata, a suo giudizio, sul tenore letterale della stessa disposizione e sull'intenzione dei contraenti. L'interpretazione fornita dal (…) porta a ritenere che la norma in questione prevede che il dipendente abbia trattato direttamente o indirettamente l'affare o, comunque, che sia intervenuto sullo stesso in modo tale da incidere sull'esito della trattativa, circostanze, queste, che nella fattispecie, a giudizio del ricorrente, non avrebbero potuto realizzarsi, posto che egli non era titolare di alcun potere di trattare l'affare o, comunque, di incidere sulla sua conclusione. Aggiunge il ricorrente che egli si era limitato ad effettuare delle segnalazioni al suo superiore gerarchico in relazione a forniture che, come emerso dall'istruttoria, erano risultate necessarie, oltre a rivelarsi particolarmente convenienti.

Da parte sua la difesa del Consorzio obietta che l'interpretazione della locuzione “affari trattati” fornita dalla Corte d'appello è non solo corretta nella sua accezione ampia dell'espressione contrattuale adoperata dalle parti collettive ma è, altresì, rispondente al generale principio dell'obbligo di fedeltà previsto dall'art. 2105 cod. civ.

2 Col secondo motivo è lamentata la violazione degli artt. 7 L. 300/70 e 48 co. 1 lett. G) del CCNL per i dipendenti dei Consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario (sotto un distinto profilo rispetto a quello fatto valere con il motivo precedente), nonché dell'art. 39 Cost. (art. 360 n. 3 c.p.c.) e si forma il seguente quesito ai sensi dell'art. 366-bis e p.c. “Dica la Suprema Corte se, a fronte di una contestazione di addebito e di un conseguente licenziamento disciplinare intimato con esplicito ed unico riferimento ad una fattispecie di mancanza (nel caso de quo, “accettazione o richieste di compensi, partecipazione a benefici in relazione agli affari trattati per ragioni d'ufficio”) prevista da una norma del CCNL applicabile al rapporto di lavoro dedotto in giudizio (nel caso, l'art. 48, comma 1 lett. G) CCNL per i dipendenti dei Consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario), violi l'art. 7 legge 300/70, detta norma di CCNL, nonché l'art. 39 Cost. la decisione del Giudice del mento che ritenga di poter valutare, da un lato, la legittimità del licenziamento alla luce di una fattispecie diversa da quella “tipizzata contrattualmente” e posta a fondamento del licenziamento, dall'altro, la gravità di tale diversa mancanza prescindendo dalle valutazioni espresse dalle parti collettive nella tipizzazione delle varie ipotesi di giusta causa esemplificate nel contratto collettivo.” In sostanza, con tale censura il ricorrente contesta la decisione con la quale la Corte territoriale ha ritenuto che, se anche la mancanza disciplinare posta in essere dal dipendente non corrispondeva a quella di cui all'art. 48 comma 1 lett. G) del ceni di settore, in ogni caso doveva ritenersi integrata nella fattispecie la giusta causa del licenziamento di cui all'art. 2119 c.c.

Al riguardo la difesa del Consorzio obietta che la Corte d'appello non ha fatto altro che confermare l'orientamento giurisprudenziale per il quale, pur in presenza di una ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo, il giudice possa sempre verificare in concreto se il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso. Osserva la Corte che entrambi i motivi sono infondati.

1 Anzitutto, per quel che concerne il primo motivo, si rileva che la Corte di merito ha interpretato la norma collettiva “de qua” sul licenziamento in tronco nel senso che il significato da attribuire all'espressione “accettazione o richiesta di compensi, partecipazione a benefici in relazione agli affari trattati per ragioni di ufficio” non può essere che quello di benefici connessi a qualsiasi vicenda economica alla quale il dipendente finisce per essere interessato a causa del suo ufficio.

Invero, con argomentazione logica ed immune da vizi giuridici, la stessa Corte precisa che se l'espressione “affari trattati” dovesse essere intesa nel senso restrittivo di ” affari oggetto di contrattazione”, la norma in esame non potrebbe essere estesa a tutti i dipendenti, in quanto potrebbe valere solo per coloro che sono abilitati a trattare per il Consorzio vincolandolo giuridicamente. L'interpretazione offerta dalla Corte di merito appare corretta in quanto risulta essere aderente sia al dato letterale della norma di cui all'art. 48, comma 1″, lettera G) del CCNL per i dipendenti dei Consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario, sia al significato logico della stessa, posto che consente di ritenerla operativa in via generale per tutte le ipotesi in cui possano configurarsi situazioni di compensi o benefici ricavati dall'aver trattato affari per ragioni d'ufficio, a prescindere dalla circostanza puramente casuale dell'eventuale esistenza in capo al singolo dipendente interessato dal procedimento disciplinare del potere di contrattare o meno per il Consorzio. Non è, infatti, mancata l'occasione di affermarsi (Cass. sez. lavo. n. 10636 del 9/5/2006) che “nell'interpretazione della disciplina contrattuale collettiva dei rapporti di lavoro, censurabile in sede di giudizio di cassazione solo per vizi dì motivazione e violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, sebbene la ricerca della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio dell'interpretazione letterale delle clausole, assume valore preminente il criterio logico-sistematico di cui all'art. 1363 cod. ci., che impone di desumere la volontà dei contraenti come manifestata nella globalità delle clausole afferenti il contratto collettivo ed aventi immediata attinenza alla materia in contesa, (in senso conforme v. anche Cass. sez. lavo. n. 14461 del 22/6/2006). In ogni caso il primo motivo di censura è infondato anche per un'altra ragione: invero, lo stesso non investe l'altra “ratio decidenti” sottesa alla motivazione di rigetto dell'impugnazione, cioè quella che fa discendere la legittimità dell'intimato licenziamento in tronco dal fatto specifico di avere il dipendente taciuto deliberatamente al suo datore di lavoro la sua consistente partecipazione (50%) al capitale della (…) s.a.s., divenuta la principale fornitrice del Consorzio, comportamento, questo, tanto più grave in quanto rapportato all'elevata qualifica rivestita dal (…) all'interno dello stesso Consorzio e al correlato elevato grado di affidamento, il tutto di una gravità tale da porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento della prestazione, in quanto sintomatico di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. D'altra parte, come questa stessa Corte ha già avuto modo di precisare (Cass. sez. lav. n. 17514 del 26/7/2010) “in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro ”

Infine, non possono trovare ingresso nel presente giudizio, in quanto non allegate col ricorso, ma dedotte per la prima volta solo con la memoria di cui all'art 378 epe, le osservazioni svolte dal ricorrente con riferimento alle diverse ipotesi di abuso di fiducia per le quali la contrattazione collettiva contempla sanzioni di tipo conservativo, con la conseguenza che non è consentito esaminare le dedotte comparazioni con analoghe forme di illeciti disciplinari.

2 In merito alle doglianze espresse col secondo motivo del ricorso in ordine alla valutazione eseguita dalla Corte territoriale sulla gravità del licenziamento, anche al di là del riscontro della fattispecie tipizzata contrattualmente, si osserva, anzitutto, che tale autonoma “ratio decidendo non è stata investita nel merito da specifiche censure, come sopra già spiegato, e la stessa è anche adeguatamente motivata.

Non va, infatti, dimenticato che “in tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa (come avvenuto nella fattispecie col richiamo puntuale ai casi comprovati di attivo interessamento del dipendente agli affari commerciali intercorsi tra il suo datore di lavoro e la società fornitrice di cui era socio al 50% e con la conseguente motivata valutazione della gravità della situazione), si sottraggono al riesame in sede di legittimità.” (Cass. sez. lav. n. 7948 del 7/4/2011).

Inoltre, non va sottaciuto che la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi (in tal senso v. Cass, sez. lav. n. 2906 del 14/2/2005).

E' bene chiarire, a quest'ultimo riguardo, che in passato questa stessa Corte ha già avuto modo di precisare (Cass. sez. lav. n. 16260 del 19/8/2004) che “la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante la inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art 2119 cod. civ , e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore, salvo il caso in cui il trattamento contrattuale sia più favorevole al lavoratore. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto la condotta del dipendente così grave da giustificare il licenziamento, in quanto questi, approfittando della sua qualifica di addetto al controllo dei fogli di presenza, alterava dolosamente per oltre un anno la documentazione relativa alle sue stesse presenze in ufficio, in modo da risultare in servizio anche quando era assente per ferie o per malattia)”. In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di € 3000,00 per onorario, oltre € 50,00 per esborsi, nonché IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.
Depositata in Cancelleria il 02.11.2011
Avv. Antonino Sugamele

Richiedi una Consulenza