Il tentativo obbligatorio di conciliazione e prescrizione. E' atto interruttivo se comunicato alla controparte
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 maggio – 1° luglio 20113, n. 16452
Presidente Canevari – Relatore Arienzo
Svolgimento del processo
Con sentenza del 14.11.2009, la Corte di Appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame della società PAC Diviteliseo di Rita Di Vito & C s.n.c. ed in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Latina, liquidava le spese di lite del primo grado nella minor somma di Euro 4500,00, di cui Euro 2250,00 per onorari, confermando nel resto la pronunzia di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da F.S. volta al risarcimento dei danni subiti in occasione di un infortunio sul lavoro occorsole il 26.9.1998 presso l'azienda, ove era stata investita da un muletto. Rilevava che il termine di prescrizione quinquennale era stato interrotto dalla notifica del primo ricorso introduttivo del giudizio del 26.11.1999 e con la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione indirizzata anche all'appellante prima della scadenza del quinquennio e che il datore di lavoro aveva violato le prescrizioni poste dall'art. 33 d. lgs. 626/94 in materia di collocazione e segnalazione delle vie di circolazione dei pedoni e dei veicoli, non potendosi considerare imprevedibile ed abnorme la condotta dalla F. . Non vi era stata, poi, specifica contestazione delle voci di danno liquidate, sicché la determinazione quantitativa di quest'ultimo andava confermata. Per la cassazione della decisione ricorre la società, affidando l'impugnazione a quattro motivi.
La F. ha rilasciato procura speciale per la sola discussione orale.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso, la società denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 2943 c.c., ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., evidenziando che il primo ricorso era stato notificato, in data 26.11.1999, ad ente societario diverso e che anche la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, di cui all'art. 410, secondo comma, c.p.c., era stata inviata alla D.P.L. di Latina e ad altro ente.
Con il secondo motivo, si duole della omessa e, comunque, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, c.p.c., censurando l'omessa valutazione della circostanza della imprevedibilità della condotta della F. . Assume al riguardo la mancanza di una adeguata esplicitazione dell'iter motivazionale seguito dal giudice del gravame, che non chiarisce i termini in cui si sarebbe concretizzata la violazione della normativa antinfortunistica richiamata.
Con il terzo motivo, la società ulteriormente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e quindi vizio motivazionale, ascrivendo alla decisione la mancata spiegazione dell'iter argomentativo sulla cui base ha ritenuto l'insussistenza di una condotta imprevedibile ed abnorme della F. , non essendo stato chiarito il motivo per il quale la deposizione del teste T. non potesse essere valutata.
Infine, con l'ultimo motivo, censura la decisione per l'omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., osservando che non fosse indispensabile la contestazione delle singole voci di danno ai fini della contestazione dell'entità di risarcimento.
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, premesso che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all'esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall'art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo, deve ritenersi che, ai fini dell'espletamento del tentativo di conciliazione, il quale ai sensi dell'art. 412 cod. proc. civ. costituisce condizione di procedibilità della domanda, sia sufficiente, in base a quanto disposto dall'art. 410-bis cod. proc. civ., la presentazione della richiesta all'organo istituito presso le Direzioni provinciali del lavoro, considerandosi comunque espletato il tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, a prescindere dall'avvenuta comunicazione della richiesta stessa alla controparte. Tale comunicazione è, invece, necessaria, ai sensi dell'art. 410, comma secondo, cod. proc. civ., perché si verifichi la interruzione della prescrizione (Cfr. Cass. 121.1.2004 n. 967). In particolare, il secondo comma dell'attuale art. 410 c.p.c. dispone che la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Attesa, inoltre, la natura ricettizia degli atti interruttivi della prescrizione e considerato che il legislatore parla di interruzione e non di sospensione della prescrizione, deve ritenersi che la comunicazione che interrompe la prescrizione e sospende il decorso di ogni termine di decadenza è quella fatta al datore di lavoro (cfr. Cass. 18.10.2005 n. 20153). Nel caso all'esame la decisione impugnata ha evidenziato che la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione era stata indirizzata non solo alla DPL di Latina ma anche alla società appellante, come documentato in atti, prima della scadenza del quinquennio e tanto basta per disattendere la censura, non essendo precisato alcun elemento che valga ad inficiare le argomentazioni della Corte del merito riportate e non essendo neanche precisato se la doglianza sia stata ritualmente avanzata nella fase di merito.
I vizi motivazionali dedotti con i successivi tre motivi appaiono caratterizzati tutti da assoluta genericità.
Quanto alla prospettata omessa specificazione delle circostanze che avrebbero indotto il giudice del gravame a ritenere violata la normativa antinfortunistica richiamata, è sufficiente rilevare che, non configurando l'art. 2087 cod. civ. un'ipotesi di responsabilità oggettiva - in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento - ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure di allegare la novicità dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, senza che occorra, in mancanza di qualsivoglia disposizione in tal senso, anche la indicazione delle norme antinfortunistiche violate o delle misure non adottate, mentre, quando il lavoratore abbia provato quelle circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (cfr. Cass. 2.9.2003 n. 12789 e, più di recente, Cass. 17.2.2009 n. 3788). Gravando, quindi, sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo, coerentemente la Corte del merito, nel confermare la decisione di primo grado con riguardo alla responsabilità datoriale, ha rilevato, richiamando peraltro la relazione dell'Ispettore dell'ASL confermata in sede di escussione testimoniale, la violazione delle prescrizioni poste dall'ari 33 del d.lgs. 626/1994 riguardanti la collocazione e la segnalazione delle vie di circolazione dei pedoni e dei veicoli. Ha ritenuto pertanto raggiunta la prova della inadeguatezza degli strumenti di prevenzione predisposti dal datore di lavoro e ciò è sufficiente per ritenere del tutto priva di fondamento la censura proposta.
Anche con riguardo al terzo motivo, posto che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, e che pertanto il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, salvo che la condotta di quest'ultimo presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (cfr., tra le altre, Cass. 14.3.2006 n. 5493, Cass. 16253/2004), non risulta che l'iter argomentativo attraverso il quale la Corte ha ritenuto di escludere una tale evenienza sia stato idoneamente censurato, sotto il profilo del dedotto vizio motivazionale. Ed invero, a prescindere dalla circostanza che anche l'accertata imprudenza della lavoratrice non avrebbe condotto a conseguenze diverse in relazione ai principi giuridici affermati, una volta ritenuto che non era stata predisposta dal datore di lavoro adeguata segnalazione delle vie di circolazione dei veicoli e dei pedoni, non risulta chiarito se non in termini di assoluta genericità, il motivo per il quale la testimonianza del teste T. , ritenuto inattendibile dal giudice del gravame, avrebbe rivestito i caratteri della decisività ai fini di una ricostruzione della vicenda diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, mancando ogni riferimento agli elementi fattuali sui quali tale teste era stato chiamato a deporre.
Infine, l'ulteriore censura in ordine alla quantificazione del danno risulta prospettata anch'essa in termini di assoluta genericità, in quanto non è idonea a confutare l'assunto del giudice del gravame che aveva reputato apodittica la contestazione avanzata in merito dalla società, senza riferimento alle singole voci di danno ed ai criteri di relativa quantificazione, non essendo ammissibile una censura in sede di appello priva dei connotati della specificità.
Alla luce di tali considerazioni deve pervenirsi al rigetto del ricorso.
Le spese seguono la soccombenza della società e vanno liquidate in favore della F. limitatamente a quelle sostenute per la difesa apprestata in sede di discussione, nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 1500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
07-07-2013 10:28
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