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Sentenza

L'azienda prima mobbizza una dipendente isolandola e privandola di ogni mansione...
L'azienda prima mobbizza una dipendente isolandola e privandola di ogni mansione; poi la licenzia per superamento del periodo di comporto.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 marzo – 11 giugno 2013, n. 14643
Presidente Lamorgese – Relatore Amoroso

Svolgimento del processo

1. Con sentenza 15.07.08 il Tribunale di Pistoia, accogliendo la domanda di C.S. proposta nei confronti della datrice di lavoro società Panapesca s.p.a., dichiarava illegittimo il licenziamento a lei intimato in data 24.03.2004 per superamento del periodo di comporto, ed emetteva a suo favore i provvedimenti di cui all'art. 18 legge n. 300/1970 condannando la datrice di lavoro a pagarle euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del datino alla persona, oltre spese di causa e di CTU.
2. La società Panapesca appellava tale sentenza davanti alla Corte d'appello di Firenze chiedendone la totale riforma. con rigetto del ricorso introduttivo di primo grado e condanna della C. alla restituzione dì tutte le somme versate a suo favore in esecuzione della sentenza impugnata, oltre interessi legali; in subordine. in parziale riforma della sentenza impugnata, chiedeva di ridurre la quantificazione delle somme dovute alla ricorrente in conseguenza dell'attività lavorativa da essa prestata successivamente al 24.03.2004 (in ragione dell'aliunde perceptum); infine, riconosciuta altresì la natura professionale della patologia lamentata dalla lavoratrice, chiedeva limitarsi l'eventuale condanna al risarcimento del danno al solo danno sprovvisto di copertura assicurativa Inail. ovvero al danno c.d. differenziale e/o complementare, con vittoria di spese per entrambi gradi.
La C. si costituiva resistendo all'appello e chiedendone il rigetto; con appello incidentale, in parziale riforma della sentenza appellata. chiedeva che il risarcimento di tutti danni (da demansionamento, alla salute, alla vita di relazione, all'esistenza c/o immagine professionale, al diritto alla serenità sul luogo di lavoro, danno morale ex art. 2059 c.c., danno biologico) le fosse quantificato in misura maggiore rispetto a quella riconosciuta, in via equitativa, dal Giudice di primo grado (euro 15.000,00); chiedeva che tale determinazione fosse effettuata con apposita CTU (come già richiesto in primo grado), oltre al risarcimento delle spese (sia mediche che non) sostenute in ragione dei fatti per cui era causa.
La Corte d'appello di Firenze con sentenza del 9 febbraio 2010, in parziale riforma della sentenza appellata, ha rigettato l'appello principale in punto di illegittimità del licenziamento; ha invece accolto l'appello principale quanto alla domanda risarcitoria rigettando l'appello incidentale sul punto; ha compensato per un terzo le spese del grado e posto gli altri due terzi a carico dell'appellante Panapesca spa.
3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la società con tre motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata che ha eccepito la tardività del ricorso.
La ricorrente ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il ricorso, articolato in tre motivi, la società ricorrente contesta la ritenuta sussistenza del demansionamento e del mobbing lamentato dalla ricorrente sostenendo che erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto che la patologia accertata avesse origine nell'attività lavorativa, laddove la stessa aveva altre cause (familiari e comunque extralavorative).
Lamenta altresì il mancato accoglimento dell'eccezione di aliunde perceptum 2. Il ricorso - i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente - è infondato.
3. Innanzi tutto va rigettata l'eccezione della resistente di inammissibilità del ricorso per tardività della sua notifica.
Al fine della tempestività dell'impugnazione deve infatti considerarsi la data della consegna della copia del ricorso all'ufficiale giudiziario (nella specie, 4 marzo 2011) e non già - come erroneamente ritiene la resistente - quella del perfezionamento della notifica.
Questa Corte (ex plurimis Cass., sez. lav., 13 gennaio 2410, n. 359) ha più volte affermato che la notifica di un atto processuale si intende perfezionata, dal lato dell'istante, al momento dell'affidamento dell'atto all'ufficiale giudiziario, posto che. come affermato dalle sentenze della Corte costituzionale n. 69 del 1994 e n. 477 del 2002, il notificante deve rispondere soltanto del compimento delle formalità che non esulano dalla sua sfera di controllo, secondo il “principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio”.
Quindi nella specie va ritenuto che la notifica del ricorso sia stata tempestiva con riferimento alla data della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, desumibile dal timbro e dalla firma di quest'ultimo sull'atto.
4. Nel merito le censure della ricorrente non hanno fondamento.
La ricorrente, dipendente della Società ricorrente a far tempo dal 2.01.2002 con mansioni di impiegata di secondo livello, è stata licenziata per superamento del periodo di comporto. La lavoratrice ha sostenuto però che la malattia per la quale aveva superato il periodo di comporto (frequenti stati depressivi, ansie e crisi di panico) era stata causata da demansionamento illegittimo e da altri comportamenti datoriali integranti la condotta di mobbing.
Tale impostazione è stata accolta dal Giudice di primo grado, che ha anche riconosciuto alla ricorrente il risarcimento del danno alla persona, e la Corte d'appello ha confermato tale pronuncia nella parte in cui ha ravvisato la responsabilità della Società datrice nella lesione della salute della dipendente che ne aveva determinato il superamento del periodo di comporto per malattia e la conseguente illegittimità del licenziamento.
Tale convincimento è sorretto da adeguata motivazione, immune da vizi di contraddittorietà o illogicità.
La Corte d'appello ha fatto riferimento al teste N., che in particolare ha riferito in ordine all'atteggiamento tenuto dal coordinatore per le vendite nei confronti della C., per la quale vi fu un vero e proprio svuotamento di mansioni al fine “di rendere la vita impossibile alla dipendente e di costringerla a dimettersi”. In tale contesto oppositivo per la lavoratrice i giudici, sia di primo grado che d'appello, hanno ritenuto, con tipica valutazione di merito ad essi devoluta, che le assenze per malattia della lavoratrice fossero dovute all'illegittimo e discriminatorio comportamento datoriale e che quindi non fossero da computare ai fini del periodo di comporto.
Va in proposito ribadito (cfr. Cass., sez. lav. 17 febbraio 2009. n. 3785) che per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o dei superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; e) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
A tale principio si è correttamente attenuta la Corte territoriale.
5. Generica è poi è la deduzione circa il mancato accoglimento dell'eccezione di aliunde perceptum.
Va in proposito ribadito (cfr. Cass.: sez. lav.. 17 novembre 2010, n. 23226) che in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è operato, pur con l'ausilio di presunzioni semplici, della prova dell'aliunde perceptum o dell'aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall'azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l'onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito.
6. Il ricorso va quindi nel suo complesso rigettato.
Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo con distrazione in favore degli avvocati Giuseppe Tufani e Paolo Cattanei dichiaratisi antistatari.

Per questi motivi

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in euro 50,00 (cinquanta) per esborsi oltre euro 4.000,00 (quattromila) per compensi d'avvocato, oltre accessori di legge. che distrae in favore degli avvocati Giuseppe Tufani e Paolo Cattanei dichiaratisi antistatari.
Avv. Antonino Sugamele

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