La cooperativa fallisce per investimenti disastrosi. Il Ministero non ha svolto i controlli di legge quindi deve risarcire i soci della Cooperativa per i danni cagionati.L’azione per il risarcimento non è un’azione di massa e non spetta al fallimento ma ai singoli soci.
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 18 luglio - 9 ottobre 2013, n. 22925
Presidente Vitrone – Relatore Lamorgese
Svolgimento del processo
1.- Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 36251/2002, condannò il Ministero del lavoro al risarcimento dei danni subiti da numerosi soci della Cooperativa Finanziaria COFIRI di Tarquinia a r.l. cui essi avevano affidato negli anni 1994-1996 la gestione di ingenti somme di denaro nella prospettiva, frustrata a seguito del fallimento della stessa, di ottenere un elevato rendimento, avendo il Ministero omesso di esercitare i poteri ispettivi e di vigilanza attribuitigli dalla legge che, se posti in essere, avrebbero evidenziato le violazioni commesse dalla Cooperativa nell'espletamento dell'attività e consentito agli ignari soci di evitare l'investimento compiuto. Il tribunale rigettò la domanda risarcitoria di M.L. ritenendola sfornita di prova.
2.- La sentenza veniva appellata dai Ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico (subentrato al primo nelle funzioni di vigilanza sulle cooperative) e dal M. . I Ministeri deducevano che gli attori non avevano indicato le circostanze che avrebbero dovuto indurre gli organi ispettivi del Ministero ad effettuare le ispezioni e ad adottare provvedimenti repressivi nei confronti della COFIRI; che non vi era prova che un'ispezione in quel periodo avrebbe potuto fare emergere irregolarità nell'attività della società, la quale era in regola con il pagamento dei contributi e la presentazione dei bilanci, tranne quello relativo al 1995; che il potere ispettivo previsto dal d.lgs. n. 1577/1947 non costituiva un obbligo ma solo una facoltà di cui il Ministero poteva avvalersi compatibilmente con le scarse risorse umane a propria disposizione e, comunque, fino al 1996 non erano giunte segnalazioni di irregolarità che avrebbero potuto indurre a compiere un'ispezione straordinaria; che il potere ispettivo non si estendeva alla valutazione della convenienza delle operazioni economiche compiute dalla cooperativa e non avrebbe potuto impedirle di proseguire nella sua attività e nella partecipazione, non vietata, nelle società Mediolanum Golf e Velca Holding; male aveva fatto il tribunale a colmare le carenza probatorie della domanda mediante l'espletamento di una c.t.u. esplorativa, le cui conclusioni erano criticabili quanto all'affermazione che le ispezioni, se compiute, avrebbero consentito di fare emergere irregolarità che avrebbero dato luogo al commissariamento della cooperativa, così evitando o interrompendo le iniziative di investimento dannose per i soci, dal momento che quelle irregolarità, ad avviso degli appellanti, sarebbero state sanabili e avrebbero indotto lo stesso Ministero a rivolgere alla cooperativa, al più, una diffida ad eliminarle, senza provocare la nomina di un commissario governativo; in definitiva, dal mancato svolgimento delle ispezioni non poteva desumersi la colpa del Ministero, né la lesione di un diritto soggettivo su cui i soci potevano fondare una pretesa risarcitoria per responsabilità extracontrattuale. Nel giudizio di appello interveniva il Fallimento COFIRI che deduceva di essere l'unico soggetto legittimato ad agire per il risarcimento dei danni conseguenti al dissesto della COFIRI.
3.- La Corte di appello di Roma, con sentenza 8 febbraio 2010 n. 496, ha dichiarato inammissibile l'intervento in appello del Fallimento COFIRI Tarquinia e rigettato gli appelli del Ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico e del M. .
Il Ministero del lavoro, ad avviso della corte, aveva l'obbligo di compiere ispezioni ordinarie "almeno una volta ogni due anni" e straordinarie "ogni volta che se ne presenti l'opportunità" (art. 2 del d.lgs. n. 1577/1947) e/o con cadenza annuale (art. 15 della legge n. 59/1992), anche tramite indagini penetranti sul regolare svolgimento dell'attività della cooperativa, né il suo comportamento omissivo poteva essere giustificato per la penuria di organico del personale ispettivo a disposizione dell'Amministrazione; vi erano tutte le condizioni (tenuto conto del numero dei soci, della notevole articolazione territoriale della società, della delicatezza dell'attività svolta di concessione di finanziamenti ai soci e del mancato deposito del bilancio al 31 dicembre 1988, anche alla luce delle indicazioni della circolare min. 4 marzo 1997 n. 505) che avrebbero dovuto indurre il Ministero a compiere le ispezioni; se queste fosse state compiute tempestivamente, sarebbero emerse le gravi e molteplici irregolarità compiute dalla COOFIRI, che esercitava abusivamente l'attività bancaria e finanziaria, e sarebbe stato "probabile in sommo grado" il suo commissariamento e, comunque, anche solo una semplice diffida avrebbe creato una situazione di allarme tra i potenziali soci che li avrebbe resi consapevoli, inducendoli ad astenersi dagli improvvidi investimenti di denaro; poiché per aderire alla cooperativa si chiedeva null'altro che il pagamento di una modesta quota sociale, al fine di ottenere interessi elevati sulle somme depositate su libretti vincolati, era stato accertato che l'attività impropriamente svolta dalla cooperativa era di raccolta del risparmio presso il pubblico, in violazione dello statuto e della legge.
La corte ha condiviso le conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio la quale aveva accertato operazioni di finanziamento senza idonee garanzie e di "pronto contro termine" (attività questa di offerta al pubblico di valori mobiliari, in mancanza delle condizioni previste dalla legge n. 77/1983, art. 12, e dal d.lgs. n. 1/1991, art. 1 lett. f) e senza disponibilità dei titoli; raccolto, di ingenti somme (di oltre quindici miliardi di lire) per finanziamenti ad amministratori, sindaci e loro congiunti (tra i quali l'amministratore delegato Romeo Gigli e sua moglie Di Capua Elena) in violazione dell'art. 2624 c.c.; perdite superiori al capitale sociale; mancata certificazione dei bilanci, ecc. In sostanza, ove il Ministero avesse esercitato la vigilanza cui era tenuto per legge nel periodo di attività della cooperativa (costituita nel 1988), avrebbe accertato le irregolarità e, quindi, avrebbe potuto prevedere e prevenire la situazione di insolvenza in cui essa si sarebbe venuta a trovare, con la conseguenza che le perdite dei risparmi da parte degli investitori avrebbero potuto verosimilmente essere evitate. La corte ha poi condiviso il giudizio del tribunale di infondatezza della domanda del M. per carenza probatoria.
4.- Per la cassazione di questa sentenza ricorre il M. con tre motivi. I Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e dello Sviluppo economico e il Fallimento COFIRI resistono con controricorsi e propongono ricorsi incidentali, cui resistono A.A. e Ma.Cl. e (al ricorso del Fallimento) L.G. , erede di L.A. .
Motivi della decisione
1.- Va esaminato il ricorso incidentale dei Ministeri che è prioritario nell'ordine logico.
Nel primo motivo i Ministeri addebitano alla sentenza impugnata insufficienza motivazionale e numerose violazioni di legge in relazione a due profili, entrambi infondati.
1.1. Premesso che, al riscontro di gravi irregolarità in sede ispettiva deve fare seguito necessariamente una diffida alla cooperativa perché le elimini entro un dato termine (art. 11 d.lgs. n. 1577/1947), solo scaduto il quale è possibile disporre la gestione commissariale, si contesta il convincimento espresso dai giudici di merito circa la inefficacia della diffida (al fine di eliminare le irregolarità riscontrate) e, quindi, la irrilevanza della sua mancanza. Secondo i Ministeri ricorrenti, invece, la cooperativa se diffidata avrebbe potuto provvedere alla sua regolarizzazione formale e, in sostanza, proseguire nell'attività, così evitando quel commissariamento che avrebbe dovuto essere disposto se vi fossero state le ispezioni e che (secondo gli attori) avrebbe consentito a sua volta di evitare il dissesto.
1.1.1.- L'assunto, prima che infondato, è poco intellegibile. Infatti, se la diffida avrebbe potuto essere efficace perché avrebbe consentito di regolarizzare la società evitando il commissariamento, allora quella diffida sarebbe stata utile al fine di evitare la perdita degli investimenti da parte dei soci e il non averla fatta resta imputabile all'Amministrazione, in quanto responsabile delle omesse ispezioni che avevano impedito la diffida. Se invece questa non avrebbe comunque impedito alla società di continuare ad operare irregolarmente (perché regolarizzata solo formalmente), allora si finisce per dare ragione alla corte di appello quando ha osservato che, data la gravità e molteplicità delle irregolarità, la strada del commissariamento restava l'unica possibile per evitare l'evento dannoso, ma non era stata percorsa per mancanza delle ispezioni. E comunque, poiché la diffida va adottata solo quando sia "utile" a dar modo alla cooperativa di attuare le misure idonee a sanare le irregolarità riscontrate (v. Cons. Stato, sez. VI, n. 118 e 166/1981), la dedotta violazione di legge non sussiste e il problema della rilevanza della sua mancanza (ai fini dell'eventuale interruzione del nesso di causalità tra le mancate ispezioni e l'evento dannoso) si traduce in una critica della motivazione che è, invece, immune da vizi logici.
La corte di merito ha ulteriormente osservato che la diffida avrebbe comunque prodotto una vasta eco nella città di Tarquinia dove aveva sede la società e messo in allarme i potenziali soci che avrebbero evitato (o cessato) di versare somme alla società. È questa una motivazione congrua e immune da vizi logici, non essendo condivisibile la critica basata sul fatto che l'ispettore "è tenuto al segreto d'ufficio" durante il compimento delle indagini (art. 10 d.lgs. n. 1577/1947), non essendo prevista la segretezza dei risultati di quelle indagini e, in particolare, dei provvedimenti sanzionatori che avrebbero potuto essere emessi.
1.2.- Si imputa inoltre ai giudici di merito di avere sopravvalutato la rilevanza di talune riscontrate irregolarità, le quali o non avrebbero potuto essere riscontrate in sede ispettiva (i finanziamenti ai soci amministratori) o non avrebbero potuto esserlo in tempo utile (la mancata certificazione dei bilanci) o avrebbero potuto essere sanate previa diffida o invito alla regolarizzazione (ci si riferisce ai contratti "pronto termine senza la disponibilità dei titoli", alla ricostituzione del capitale sociale e alla mancata certificazione dei bilanci). Essi inoltre non avrebbero considerato che la causa del dissesto era stata l'acquisizione di partecipazioni in società in stato di decozione come Mediolanum Golf e Velca Holding, circostanza questa priva di collegamento causale con le irregolarità che potevano emergere in sede ispettiva e costituente un fatto imprevedibile idoneo ad interrompere il nesso causale tra le mancate ispezioni e il default.
1.2.1.- Si prospetta in tal modo una valutazione delle questioni di fatto o di diritto in senso difforme da quella operata dai giudici di merito, senza l'indicazione di affermazioni in diritto che si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie né lo svolgimento di argomentate critiche alla completezza e logicità della motivazione, ma proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti che si risolve, però, in una inammissibile istanza di revisione di quella valutazione. La critica riguardante la possibilità che le ispezioni, se pure fossero state compiute, non avrebbero potuto evitare il dissesto provocato dall'acquisizione di partecipazioni in società decotte, travisa la ratio decisoria della sentenza impugnata, secondo la quale quelle ispezioni, se fatte tempestivamente, avrebbero impedito in radice alla società di operare (essendone prevista la cancellazione in caso di gravi irregolarità: art. 11 del d. lgs. n. 1577/1947) e, quindi, agli investitori di entrare in contatto con quella società, la quale, pur apparendo come cooperativa, agiva in via di fatto come una banca o un intermediario finanziario, così evitando gli investimenti compiuti, ben prima del dissesto (avvenuto, tra l'altro, secondo i controricorrenti, già nel 1993). 2.- Nel secondo motivo i Ministeri ritengono che i giudici di merito abbiano errato nell'interpretazione delle norme di legge sul nesso di causalità e di quelle che disciplinano i poteri di controllo dei soci (artt. 2408 e 2422 c.c.), avendo escluso l'imputabilità di una parte del danno agli stessi soci per non avere attivato gli strumenti di controllo sulla gestione sociale (mediante ispezione dei libri sociali, denuncia al collegio sindacale, impugnazione delle delibere ecc.) che avrebbero consentito di fare emergere le irregolarità ed evitare il dissesto.
2.1.- Il motivo è infondato. I poteri di controllo sulla gestione sociale costituiscono strumento di attuazione di un diritto attribuito ai soci, ma ciò non toglie che, da un lato, il controllo sulla "gestione sociale" è affidato al collegio sindacale (v. Cass. pen. n. 7527/1997) e, dall'altro, la vigilanza compete agli enti istituzionali, non essendo attribuibile ai soci che ne sono vittime la responsabilità per le conseguenze dannose causate da chi quella vigilanza ha omesso di esercitare. La corte territoriale, con motivazione congrua e incensurata, ha anche ritenuto che la perdurante mancanza di rilievi da parte degli organi pubblici di controllo nei confronti della cooperativa ingenerava, agli occhi non professionali di possibili soci aderenti, un alone di affidabilità e una ragionevole presunzione di legittimità della sua attività, con conseguente esclusione di un concorso dei soci nella responsabilità dell'Amministrazione pubblica.
3.- Nel terzo motivo i Ministeri addebitano alla sentenza impugnata l'omessa pronuncia sul motivo di appello con cui l'Amministrazione aveva dedotto che la domanda risarcitoria era infondata per mancata prova dell'esistenza del danno (si assume che non vi sarebbe prova che dal fallimento gli attori non abbiano ricevuto alcun rimborso).
3.1.- Il motivo è inammissibile: la corte di merito ha deciso su quel motivo di appello rigettandolo e l'assunta erroneità della decisione non è censurabile ex artt. 112 e 360 n. 4 c.p.c.. Esso inoltre è privo di specificità, poiché non specifica se e da quale atto processuale risulti che rimborsi vi siano effettivamente stati e per quali importi.
4.- Venendo all'esame del ricorso incidentale del Fallimento COFIRI, è contestata la ritenuta inammissibilità del suo intervento in appello per mancanza delle condizioni di cui all'art. 344 c.p.c., non essendo - ad avviso della corte territoriale l'accoglimento della domanda risarcitoria dei singoli soci danneggiati incompatibile con quella azionata dal Fallimento per la condanna dei Ministeri al risarcimento dei danni causati dall'omessa vigilanza sulla cooperativa in misura pari alla differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare (domanda quest'ultima proposta in altro giudizio definito con sentenza del Tribunale di Roma n. 10422 del 2007, confermata in appello).
Il Fallimento censura la sentenza impugnata che ha dichiarato l'inammissibilità del suo intervento in appello, mediante due motivi, deducendo di essere l'unico soggetto legittimato ad agire per il risarcimento dei danni conseguenti al dissesto della COFIR, ivi compresi quelli subiti individualmente dai soci-creditori, la cui azione sarebbe sostanzialmente "di massa", sia per il carattere indistinto dei possibili beneficiari del suo esito, sia per la diretta ed esclusiva finalità di reintegrare il patrimonio da attribuire ai creditori attraverso il successivo riparto.
Nel primo motivo il Fallimento assume la violazione degli artt. 105 e 267 c.p.c., in relazione agli artt. 81 c.p.c., 51, 52, 64, 71, 92 e 146 legge fall., e insufficienza e contraddittorietà della motivazione.
Infondata sarebbe la tesi della corte di merito circa la legittimazione parallela dei singoli soci-creditori e della curatela, poiché quest'ultima, rappresentando l'intera massa dei creditori della società fallita, sarebbe l'unico soggetto legittimato a tutelare l'interesse di tutti i creditori, assicurando un'equa ripartizione dell'attivo. Pertanto, il suo intervento in appello sarebbe "ammissibile e rilevante ai fini del decidere, in quanto astrattamente idoneo a provocare una pronuncia di difetto di legittimazione ad agire degli attori, la quale potrebbe essere resa anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo".
Il secondo motivo, nel quale si censura la sentenza impugnata per violazione di legge e insufficienza e contraddittorietà della motivazione, è corredato da un quesito diretto a dichiarare che "nel caso in cui una società cooperativa fallisca o sia in stato di dissesto a causa dell'illegittima gestione dei propri amministratori, e il danno conseguente sia ascrivibile sia a questi ultimi sia al Ministero che aveva l'obbligo di vigilare sulla società e nonostante ciò ha omesso ogni forma di controllo contribuendo in tal modo a provocare il pregiudizio, la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno, sia nei confronti degli amministratori sia verso il Ministero, spetta in via esclusiva alla Curatela del fallimento".
4.1.- Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
Com' è noto, a norma dell'art. 344 c.p.c., nel giudizio di appello è ammesso soltanto l'intervento del terzo che sarebbe legittimato all'opposizione di cui all'art. 404 c.p.c., in quanto titolare di un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione giuridica accertata o costituita dalla sentenza di primo grado e che, pertanto, potrebbe subire un pregiudizio nel diritto medesimo in conseguenza della sentenza di appello. Questa Corte ha precisato che chi fa valere codesto diritto, in tanto è legittimato all'opposizione, e quindi all'intervento, in quanto il diritto sia effettivamente incompatibile con quello vantato; ne consegue che la legittimazione si identifica con il motivo su cui si fonda la domanda d'intervento e ciò spiega perché legittimazione e merito si confondono, in quanto la prima discende dall'effettiva titolarità del diritto incompatibile vantato ed il secondo concerne proprio l'incompatibilità tra quel diritto e la situazione giuridica accertata o costituita (Cass. n. 10590/2012, n. 1336/1962).
È alla luce di tale principio che va valutata la correttezza giuridica della decisione impugnata che ha escluso l'ammissibilità dell'intervento dei Ministeri in appello.
Il Fallimento fonda il suo diritto all'intervento ex art. 344 c.p.c. sul presupposto che l'azione risarcitoria esercitata dai singoli soci danneggiati (e accolta dai giudici di merito) sia un'azione "di massa" esercitabile, invece, solo dalla curatela. I Ministeri replicano che il diritto azionato dal Fallimento sarebbe identico a quello azionato dai singoli soci danneggiati nel giudizio principale, e quindi non autonomo, con la conseguenza che il Fallimento non sarebbe legittimato a intervenire in appello.
Si deve quindi indagare sulla natura dell'azione promossa dai soci danneggiati, perché se fosse un'azione di massa, in quanto tale esercitabile solo dalla curatela, sarebbe confermato che il diritto posto da quest'ultima a sostegno dell'intervento sarebbe incompatibile con quello azionato nel giudizio principale dai singoli soci (è significativo che il Fallimento, contestando la titolarità del credito risarcitorio fatto valere dai soci, assuma di essere l'unico soggetto legittimato a tutelarne i diritti pregiudicati dal comportamento omissivo dei Ministeri). Al contrario, se quell'azione non fosse di massa, benché in tal senso qualificata dal Fallimento, non vi sarebbe quella effettiva (e non solo predicata) incompatibilità che è necessaria ai fini dell'ammissibilità dell'intervento in appello.
4.2.- L'indagine sulla natura dell'azione promossa dai singoli soci danneggiati conferma che non si tratta di un'azione di massa.
Questa Corte (sez. un. n. 7029/2006) ha precisato che, in via di principio, non si può ritenere che nel sistema fallimentare il curatore sia titolare di un potere di rappresentanza di tutti i creditori, indistinto e generalizzato. Il sistema piuttosto prevede che la funzione del curatore sia diretta a conservare il patrimonio del debitore, garanzia del diritto del creditore, attraverso l'esercizio delle così dette azioni di massa, dirette ad ottenere, nell'interesse del creditore, la ricostituzione del patrimonio predetto, come avviene per l'appunto attraverso l'esercizio delle azioni revocatorie e surrogatorie, cui si possono aggiungere le azioni sociali di responsabilità per i danni arrecati indistintamente dall'amministratore alla società o ai creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale (artt. 2393 e 2394 c.c., richiamati dall'art. 146 legge fall.). Tale principio peraltro non è assoluto, ma va armonizzato con quello secondo il quale siffatta legittimazione ad agire, sostitutiva dei singoli creditori, non sussiste in presenza di azioni esercitabili individualmente in quanto dirette ad ottenere un vantaggio esclusivo e diretto del creditore nei confronti di soggetti diversi dal fallito (come avviene, ad esempio, mediante le azioni di cui agli artt. 2395 e 2449 c.c.). L'azione di massa è caratterizzata dal carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del suo esito positivo e, nell'immediato, perviene all'effetto di aumentare la massa attiva, quali che possano essere i limiti quantitativi entro i quali i creditori se ne avvantaggeranno, con ciò tendendo direttamente alla reintegrazione del patrimonio del debitore, inteso come sua garanzia generica, a prescindere da come esso sarà suddiviso attraverso il riparto. Non appartiene a tale novero di azioni ogni pretesa che richiede l'accertamento della sussistenza di un diritto soggettivo in capo ad uno o più creditori, né vi appartiene ogni azione che, per quanto diffusa possa essere una specifica pretesa, necessita pur sempre dell'esame di specifici rapporti e del loro svolgimento, non essendo sufficiente ad assicurarne l'eventuale beneficio la mera appartenenza ad un ceto.
L'azione risarcitoria proposta dai soci investitori per i danni da ciascuno di essi individualmente subiti a causa dell'omessa vigilanza sulla cooperativa COFIRI da parte dell'Amministrazione, non è quindi un'azione di massa, anche perché il fallimento non ne costituisce il presupposto indefettibile. È quindi conforme a diritto la decisione impugnata nella parte in cui ha escluso una incompatibilità tra l'azione del Fallimento a tutela della massa e quella dei soci, con conseguente inammissibilità dell'intervento del Fallimento nel giudizio di appello.
Va però corretta, a norma dell'art. 384, comma 4, c.p.c., la parte della motivazione in diritto con cui la corte territoriale, a conferma dell'inammissibilità del suo intervento ex art. 344 c.p.c., ha ritenuto che il Fallimento, avendo proposto, dinanzi al Tribunale di Roma, un'azione analoga di condanna dei Ministeri al risarcimento dei danni in misura pari al passivo fallimentare, finirebbe per ottenere quanto richiesto direttamente in appello, in violazione del principio del doppio grado di giurisdizione. La giurisprudenza di questa Corte è infatti nel diverso senso che l'intervento del terzo in appello non trova ostacolo nell'eventualità che il terzo stesso, a difesa del proprio diritto, abbia già instaurato una separata causa, tenendosi conto che tale intervento non mira (e non potrebbe mirare, in difetto di deroga al principio del doppio grado di giurisdizione) a conseguire una pronuncia nel rapporto fra l'interventore e le altre parti, ma si esaurisce in un inserimento nel dibattito fra gli originari contendenti, al fine di orientarne la definizione in senso conciliabile con le aspettative dell'istante (Cass. n. 6156/1994).
5.- Venendo all'esame del ricorso principale del M. , nei primi due motivi egli deduce la violazione dell'art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo vigente ante riforma del 2009 e nell'interpretazione fornitane dalla Cassazione, essendogli stato impedito di produrre in appello la prova documentale dei versamenti effettuati alla COFIRI, tenuto conto che il vecchio testo dell'art. 345 cit. non prevedeva limiti alla produzione di nuovi documenti in appello (primo motivo) e che si trattava di documenti ammissibili perché indispensabili ai fini della decisione (secondo motivo). Entrambi sono infondati.
5.1.- Il primo si basa su un presupposto erroneo, cioè che prima della novella del 2009 (che, all'art. 46, comma 18, della legge n. 69 ha esplicitato, nel testo dell'art. 345, comma 3, c.p.c., che "non possono essere prodotti nuovi documenti") vigesse il principio della libera producibilità di nuovi documenti in appello. Tuttavia la giurisprudenza di legittimità (citata dallo stesso ricorrente) si era già orientata nel senso che il principio generale era quello della inammissibilità di mezzi di prova nuovi - cioè non richiesti in precedenza - e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti e i requisiti che tali documenti devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame, requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione (Cass. n. 1370/2013 ha escluso che il predetto orientamento inaugurato dalle Sezioni Unite, n. 8203/2005, abbia dato luogo ad una fattispecie di overruling, in quanto preceduto da decisioni dello stesso segno).
5.2.- Nel secondo motivo il ricorrente deduce, in sostanza, l'erroneità del giudizio valutativo espresso dai giudici di merito in ordine alla imputabilità della mancata produzione dei documenti in primo grado, lamentando che, al momento dell'introduzione del giudizio di primo grado, non ne aveva senza sua colpa la disponibilità. Tuttavia, i giudici di merito hanno evidenziato l'incauto comportamento del M. , il quale aveva affidato alla segreteria della cooperativa la custodia della documentazione in originale comprovante i conferimenti, senza conservarne una copia, e quindi hanno ritenuto che non possa attribuirsi ad impedimento ciò che è il frutto di una scelta personale. È questo un giudizio congruamente motivato che sfugge al sindacato di legittimità affidato a questa Corte.
5.3.- Nel terzo motivo è dedotta la violazione dell'art. 345, comma 3, c.p.c., in relazione all'art. 210 c.p.c., avendo il tribunale disatteso la sua richiesta di ordinare alla curatela l'acquisizione del fascicolo d'ufficio della procedura fallimentare contenente la predetta documentazione.
Il motivo è inammissibile. A prescindere dal fatto che non è chiaro di quali documenti si tratti in concreto (si accenna ad un assegno che, però, non costituirebbe prova del versamento della relativa somma e della sua causale) e che non è certo che essi fossero contenuti nel fascicolo fallimentare, si tratta di una questione nuova che avrebbe dovuto essere dedotta dal M. come motivo di appello e che, quindi, non può essere introdotta in sede di legittimità. Inoltre, la valutazione concernente la ricorrenza dei presupposti che giustificano l'esibizione ex art. 210 c.p.c. (strumento che, com'è noto, non può avere finalità meramente esplorative e può essere utilizzato solo se la prova del fatto non è acquisibile aliunde) è rimessa al giudice di merito e il mancato esercizio di tale potere discrezionale non è sindacabile in sede di legittimità.
6.- In conclusione, i ricorsi sono rigettati. Le spese processuali, che si liquidano in dispositivo, seguono la soccombenza nei rapporti tra i Ministeri e i resistenti A. e Ma. . Sussistono giusti motivi per compensarle nei rapporti tra il M. e i Ministeri, tenuto conto della dimensione sostanziale della decisione, e tra il Fallimento COFIRI e i resistenti Ministeri e L. , tenuto conto della complessità delle questioni giuridiche trattate.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi; condanna i Ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico alle spese del giudizio di legittimità in favore di A.A. e Ma.Cl. , liquidate per ciascuno in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi; le compensa nei restanti rapporti processuali.
11-10-2013 12:06
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