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Sentenza

Società di fatto tra consanguinei: la moglie ripiana i debiti del marito imprend...
Società di fatto tra consanguinei: la moglie ripiana i debiti del marito imprenditore ed il fallimento le viene esteso.
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 11 giugno - 5 luglio 2013, n. 16829
Presidente Vitrone – Relatore Didone

Ritenuto in fatto e in diritto

1.- Il Tribunale di Catania, con sentenza del 12.12.1997, ha dichiarato il fallimento della società di fatto tra D.L.F. e la coniuge F..I., nonché di quest'ultima, quale socio illimitatamente responsabile e, con sentenza del 9.10.2001 ha rigettato l'opposizione proposta da quest'ultima.
La Corte di appello di Catania, con sentenza del 12.7.2006, ha confermato la decisione del Tribunale.
Contro la sentenza di appello l'opponente ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Resiste con controricorso la curatela fallimentare intimata.
2.1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 147 l. fall, e relativo vizio di motivazione. Formula - ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis) - i seguenti quesiti: “può essere dichiarata l'estensione del fallimento di un imprenditore al di lui coniuge, per avere questi, siccome mosso da maritalis affectio e dai conseguenti sentimenti di solidarietà coniugale, prestato in suo favore alcune fideiussioni, concesso una garanzia ipotecaria sulla metà indivisa dei propri beni immobili (di cui il coniuge imprenditore era comproprietario) e sottoscritto insieme al coniuge contratti di conto corrente cointestati?”.
“Può il coniuge di un imprenditore commerciale compiere i suddetti atti di solidarietà per venire incontro alle esigenze economico-finanziarie del coniuge in difficoltà (senza, peraltro, ingerirsi nella gestione dell'impresa), senza rischiare, per avere compiuto tali atti, di essere coinvolto, quale socio di fatto, nel fallimento del coniuge?”.
2.2.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 230 bis c.c. e relativo vizio di motivazione.
Formula - ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. - il seguenti quesiti: “in caso di dichiarazione di fallimento individuale del gestore di un'impresa familiare, il fallimento può essere esteso al collaboratore partecipante alla stessa impresa sol perché questi ha prestato fideiussioni, concesso ipoteca sui propri beni immobili in favore dell'impresa in difficoltà ed ha prestato il suo nome per la contestazione di qualche conto corrente bancario?”.
“Possono tali atti, di per sé e senza il concorso di altri elementi concreti, gravi precisi e concordanti, valere a superare la presunzione che siano stati posti in essere dal partecipante all'impresa familiare solo in forza dell'affectio familiaris e della naturale solidarietà tra congiunti?”.
3.- Ai fini dell'estensione del fallimento del titolare dell'impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell'effettiva costituzione di una società di fatto, attraverso l'esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all'impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del "nomen" della società o quanto meno l'esteriorizzazione del vincolo sociale, l'assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all'esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell'impresa familiare, né l'eventuale condivisione degli utili, trattandosi d'indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla "affectio societatis". (Sez. 1, Sentenza n. 14580 del 16/06/2010).
Per poter considerare esistente una società di fatto, agli effetti della responsabilità delle persone e/o dell'ente, anche in sede fallimentare, non occorre necessariamente la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l'inesistenza dell'ente, per il principio dell'apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse. Tuttavia, in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l'intervento del familiare possa essere motivato dalla "affectio familiaris", sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell'impresa da parte del congiunto dell'imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare (Sez. 1, Sentenza n. 6770 del 26/07/1996).
A tali principi - che il Collegio ribadisce e fa propri - si è correttamente attenuta la corte di merito nell'evidenziare che, oltre alla cointestazione di tre conti correnti affidati, utilizzati per l'esercizio dell'impresa; alla prestazione sistematica di fideiussioni a garanzia delle esposizioni dei soli conti intestati al D.L.   ; alla comproprietà della maggior parte degli immobili utilizzati nell'esercizio dell'impresa; alla costituzione di ipoteca volontaria a favore di banche creditrici e alla collaborazione prestata dalla I.         alla gestione dell'impresa, sussisteva, nella concreta fattispecie, l'esteriorizzazione del vincolo.
In particolare, nel contratto di conto corrente stipulato dai coniugi con la Banca di Messina vi era menzione della "ditta De Luce F.sco & Insanguine Fil.fa" e nel correlato contratto di fideiussione sottoscritto da entrambi era menzionata la "De Luca Francesco & Insanguine Filadelfia s.d.f.".
A tale decisivo elemento il ricorso non fa alcun riferimento. Talché i motivi sono inammissibili per aspecificità, oltre ad essere versati in fatto, presupponendo una diversa lettura degli atti.
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità - liquidate in dispositivo - seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Avv. Antonino Sugamele

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