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Sentenza

Tenta il suicidio, ma da fuoco al palazzo. Che valore ha la sentenza di patteggi...
Tenta il suicidio, ma da fuoco al palazzo. Che valore ha la sentenza di patteggiamento nel giudizio civile? Per la Cassazione non è ammissione di colpa.
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza 6 novembre - 3 dicembre 2013, n. 27071
Presidente Finocchiaro – Relatore Giacalone

In fatto e in diritto

Nella causa indicata in premessa, é stata depositata la seguente relazione:
"1. - La sentenza impugnata (Corte d'Appello di Bologna, 07/07/2011) ha, per quanto qui rileva, rigettato l'appello proposto dalla Milano Ass.ni Spa avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Forlì, che aveva respinto le domande della Milano Ass.ni, la quale aveva agito in regresso ex art. 1916, secondo comma c.c., nei confronti di M.M. , chiedendo la restituzione della somma erogata alle assicurate F..B. e T..A. , madre e nonna del predetto, a seguito dell'incendio che aveva arrecato danni ingenti al fabbricato delle stesse, nel quale il M. viveva con la nonna, esponendo che l'incendio era stato provocato dal convenuto stesso, quanto meno per colpa. La compagnia richiamava, al riguardo, la sentenza penale di patteggiamento emessa nei confronti del M. ed il comportamento del predetto, che aveva tentato, in un'altra occasione, il suicidio. La Corte d'Appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado, ritenendo non provato il dolo del M. e, circa la lamentata mancata valorizzazione della sentenza di patteggiamento, con cui si era concluso il processo penale a carico dell'odierno resistente, statuiva che la sentenza ex art. 445 c.p.p. non costituisce alcuna ammissione di colpa (né, come nel caso specifico, di dolo, data la fattispecie penale contestata), trattandosi di un rito a scopi deflattivi, nel quale non si forma alcun giudicato sulla colpevolezza in merito al fatto ascritto all'imputato. Inoltre, affermava l'irrilevanza dell'allegazione di atti del processo penale, che, ove prodotti dalla parte interessata, possono costituire elementi di valutazione e completamento della prova civile, che, come è noto, si basa su presupposti diversi e deve essere autonomamente conseguita. Infine, concludeva ritenendo non provato il comportamento doloso, richiesto ai fini del regresso, del M. .
2. - Ricorre per Cassazione la Milano Ass.ni spa con quattro motivi di ricorso; resiste con controricorso il M. . Queste sono le censure dedotte dalla ricorrente:
2.1 - Omessa o, comunque, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5 c.p.c.), per non avere la Corte d'Appello riconosciuto efficacia probatoria alla sentenza di patteggiamento emessa all'esito del processo penale a carico del M. , disattendendo, così, l'orientamento giurisprudenziale di questa S.C. secondo cui la sentenza penale emessa a seguito del patteggiamento costituisce un importante elemento di prova nel processo civile e senza dar conto delle ragioni che avrebbero indotto l'imputato ad accettare una responsabilità inesistente;
2.2 - Violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. per erronea ripartizione dell'onere probatorio (art. 360, n. 3 c.p.c.), per avere la sentenza impugnata negato efficacia probatoria alla sentenza penale di condanna patteggiata e addossato alla Milano Ass.ni l'onere di dimostrare positivamente il dolo della controparte;
2.3 - Violazione e falsa applicazione degli artt. 445 e 651 c.p.p. (art. 360, n. 3 c.p.c.), in quanto la disposizione di cui all'art. 445 c.p.p., nell'escludere che la sentenza di patteggiamento spieghi effetti nel processo civile o amministrativo, si riferirebbe soltanto a quell'efficacia di giudicato che l'art. 645 c.p.p. attribuisce alle sentenze penali irrevocabili di condanna pronunciate in seguito a dibattimento. Ma l'inidoneità a costituire giudicato nel processo civile, disposta dall'art. 445 c.p.p. ed enunciata nella sentenza impugnata, sarebbe cosa del tutto diversa dall'attitudine della sentenza penale patteggiata a valere o meno come prova di colpevolezza a carico del convenuto nel giudizio civile. Così la Corte bolognese, facendo discendere dall'art. 445 c.p.p. il suo diniego di efficacia probatoria alla sentenza ex art. 444 c.p.p., avrebbe frainteso la norma;
2.4 - Erronea motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5 c.p.c.), per avere la sentenza giustificato col disposto dell'art. 445 c.p.p. il diniego di valenza probatoria alla sentenza penale di condanna patteggiata a carico del M. .
3. - Il ricorso è manifestamente privo di pregio.
Tutti i motivi lamentanti nel ricorso possono essere trattati congiuntamente data l'intima connessione, essendo tutti relativi alla ricostruzione del fatto in lite. Invero, l'odierna ricorrente non tiene conto dell'orientamento giurisprudenziale di questa S.C. secondo cui la sentenza con la quale il giudice applica all'imputato la pena da lui richiesta e concordata con il P.M., pur essendo equiparata a una pronuncia di condanna ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 445, comma primo, c.p.p., non è tuttavia ontologicamente qualificabile come tale, traendo essa origine essenzialmente da un accordo delle parti, caratterizzato, per quanto attiene all'imputato, dalla rinuncia di costui a contestare la propria responsabilità. Ne consegue che non può farsi discendere dalla sentenza di cui all'art. 444 cod. proc. pen. la prova della ammissione di responsabilità da parte dell'imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile (Cass. n. 8421/2011; 26263/2011). La decisione impugnata non si è discostata da tali principi, sicché si rivelano inammissibili gli ultimi due motivi, non rivelandosi neanche prospettabili le violazioni di legge ed il vizio motivazionale prospettati.
Senza considerare che i primi due motivi ripropongono un'inammissibile diversa lettura" delle risultanze probatorie, non tenendo conto del consolidato orientamento di questa S.C. secondo cui, quanto alla valutazione delle prove adottata dai giudici di merito, il sindacato di legittimità non può investire il risultato ricostruttivo in sé, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, (Cass. n. 12690/10, in motivazione; n. 5797/05; 15693/04). Del resto, i vizi motivazionali denunciabili in Cassazione non possono consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (Cass. n. 6064/08; nonché Cass. n. 26886/08 e 21062/09, in motivazione). L'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 5328/07, in motivazione; 12362/06).
La sentenza oggi impugnata, con congrua e corretta motivazione, ha rispettato i principi esposti e, condividendo le conclusioni del primo giudice, ha ritenuto non provato il comportamento doloso dell'odierno resistente. In particolare, ritiene che le varie testimonianze escusse hanno confermato la apparente "normalità" del M. , il quale prendeva i farmaci prescritti ed era stato reperito dagli infermieri, per un controllo presso la sua abitazione, in quanto seguito dal Dipartimento Salute Mentale AUSL di Forlì: in quella occasione nessuno aveva percepito segnali preoccupanti né odore di gas fuoriuscire dalla casa; valutava, inoltre, il comportamento tenuto dal predetto in occasione dell'incendio, quando aveva acceso una sigaretta, dimenticando che il gas era stato chiuso dai Vigili del Fuoco dal rubinetto esterno, in occasione del tentato suicidio, mentre era rimasto aperto quello dell'abitazione, per cui vi era stata una fuoriuscita di gas.
4. - Il relatore propone la trattazione del ricorso in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, 376, 380 bis c.p.c. ed il rigetto dello stesso".
La relazione é stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti costituite.
La parte ricorrente ha presentato memoria, sostenendo la mancata considerazione, nella relazione, del principio enunciato dalle SS.UU. n. 17289/2006, sostanzialmente richiamato nel primo motivo di ricorso (concernente l'importanza che assume, quale elemento di prova in sede civile, la sentenza penale emessa a seguito di "patteggiamento", da non potersi pretermettere senza dar conto delle ragioni che avrebbero indotto l'imputato ad accettare una responsabilità inesistente) e, conseguentemente, ha chiesto il rinvio della causa alla pubblica udienza.
Ritenuto che:
a seguito della discussione sul ricorso in camera di consiglio, il Collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione, atteso che le considerazioni svolte in memoria non giustificano una soluzione della controversia diversa rispetto a quella prospettata nella relazione medesima. In particolare, osserva il Collegio che il ricorso in esame, nella parte in cui lamenta il malgoverno dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla incidenza probatoria, nel giudizio civile di danno, della sentenza penale resa a seguito di "patteggiamento", è manifestamente infondato. Questa Corte ha, invero, ripetutamente affermato: a) che la sentenza con la quale il giudice applica all'imputato la pena da lui richiesta e concordata con il P.M., pur essendo equiparata a una pronuncia di condanna ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 445 cod. proc. pen., comma 1, non è tuttavia ontologicamente qualificabile come tale, traendo origine essenzialmente da un accordo delle parti, caratterizzato, per quanto attiene all'imputato, dalla rinuncia di costui a contestare la propria responsabilità, di talché non può farsi da essa discendere tout court la prova della ammissione di responsabilità da parte dell'imputato stesso e ritenere tale prova utilizzabile nel procedimento civile (Cass. III sez. civ. 12 aprile 2011, n. 8421); b) che, in ogni caso, posto che la medesima sentenza contiene pur sempre un'ipotesi di responsabilità, il giudice di merito non può escluderne il rilievo senza adeguatamente motivare sul punto (Cass. civ. 3 dicembre 2010, n. 24587; Cass. civ. 19 novembre 2007, n. 23906; e) che questo principio non é in contrasto con quello espresso dalle SS.UU. 17289/2006 e recentemente confermato da Cass. SS.UU. n. 21591/2013, perché queste ultime decisioni si riferiscono a procedimenti disciplinari a carico di avvocati, in relazione ai quali il valore delle sentenze rese a seguito di "patteggiamento", è regolato dagli artt. 445 e 653 c.p.p., come modificati dalla legge 27.3.2001 n. 97.
Orbene, nella fattispecie, la Corte d'appello ha ritenuto non provato il dolo del M. e, circa la lamentata mancata valorizzazione della sentenza di patteggiamento, ha affermato che la sentenza ex art. 445 c.p.p. non costituisce alcuna ammissione di colpa (né, come nel caso specifico, di dolo), trattandosi di un rito a scopi deflattivi, nel quale non si forma alcun giudicato sulla colpevolezza in merito al fatto ascritto all'imputato. Senza contare che, la Corte territoriale ha ritenuto, comunque, non provato il comportamento doloso del M. , richiesto ai fini dell'invocato regresso nei confronti del medesimo, sulla base delle risultanze probatorie elencate nell'ultimo capoverso del punto 3 della relazione sopra riportata.
Ne deriva che i giudici di appello hanno addotto, a sostegno della scelta decisoria adottata, ragioni che, persuasivamente, hanno integralmente escluso il rilievo di quella sentenza, emessa a seguito di patteggiamento, al fine dell'idoneità a dimostrare la sussistenza del dolo del M. . Pertanto, le critiche della compagnia ricorrente si risolvono in una reiterazione della denuncia di malgoverno del materiale istruttorio, denuncia manifestamente infondata, per quanto innanzi osservato nella relazione. Ne deriva anche, stante l'indicata completa ed autonoma decisività delle ragioni poste a base della ritenuta assenza di prova in ordine al dolo del M. , il difetto d'interesse della ricorrente ad impugnare la statuizione della sentenza d'appello riguardante (l'esclusione del) rilievo da attribuire alla sentenza penale resa a seguito di patteggiamento (conformemente a quanto risultante anche dal principio di cui a Cass. Sez. VI - 3, 26263/2011, ord); che il ricorso deve perciò essere rigettato, essendosi rivelato manifestamente infondato;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo; visti gli artt. 380-bis e 385 cod. proc. civ..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 6000,00, di cui Euro 5800,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Avv. Antonino Sugamele

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