Diffamazione a mezzo stampa. Ad un magistrato viene addebitata da una casa editrice e da un giornalista l'espressione pilatescamente: per la Cassazione non è diffamazione. Nessun risarcimento.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 20 marzo – 21 maggio 2014, n. 11268
Presidente Segreto – Relatore Spirito
Svolgimento del processo
Il P. (magistrato) citò in giudizio risarcitorio il C. e la spa Longanesi per la diffamazione che sosteneva essere derivata in suo danno da un capitolo del volume Da cosa nasce Cosa in cui era riferito il comportamento da lui tenuto, quale componente, nelle votazioni del CSM (nelle quali il P. si astenne) che portarono alla nomina di Me.An. alla direzione dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, in luogo di F.G. . In particolare, nel libro, quella del 19 gennaio 1988 era definita come "la notte del disonore per la giustizia italiana, il punto più basso della sua storia" e venivano fatti i nomi dei 14 membri del Consiglio che votarono contro F. , aggiungendo a questi i nomi degli altri 5 (tra cui quello del P. ) che "pilatescamente si rifiutarono di decidere".
La domanda è stata respinta dal Tribunale di Milano con sentenza poi confermata dalla Corte d'appello della stessa città.
Propone ricorso per cassazione il P. attraverso tre motivi. Rispondono con controricorso e ricorso incidentale la Longanesi ed il C. . Il P. risponde con controricorso al ricorso incidentale della controparte e deposita memorie per l'udienza.
Motivi della decisione
RICORSO PRINCIPALE.
Nel primo motivo - violazione artt. 595 c.p., 21 Cost., 2043 c.c., 132 n. 4 c.p.c. - il ricorrente sostiene: a) che non sarebbe stato rispettato il canone della veridicità, siccome dai verbali risulta che egli era a favore della nomina di F. , pur evidenziando (in posizione "legalista") che la circolare dell'epoca non consentiva un così elevato scavalcamento di anzianità, esprimendosi per il ritorno in commissione della pratica, mentre solo quando questa proposta fu bocciata egli dichiarò la propria astensione; b) che non sarebbe stato rispettato il canone della continenza, attraverso l'uso dell'avverbio "pilatescamente" che sarebbe servito per porre in cattiva luce ed additare al pubblico disprezzo i responsabili della "notte del disonore" e del "punto più basso della giustizia", i quali, perciò, meritavano di essere indicati ai lettori "a futura memoria"; c) non sarebbe stato rispettato il canone interpretativo, in quanto le singole espressioni sarebbero state isolatamente considerate e non nel contesto della loro stretta connessione.
Nel secondo motivo le stesse argomentazioni vengono prospettate sotto il profilo del vizio della motivazione, rappresentando, soprattutto, che la sentenza impugnata non ha tenuto conto, in una con le altre, dell'espressione "si rifiutarono di decidere" e del suo significato di censura morale.
I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono infondati.
Occorre premettere che, in ipotesi di azione risarcitoria da diffamazione a mezzo stampa, il potere di controllo della Corte di cassazione sul provvedimento impugnato è limitato alla verifica dell'accertamento, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei canoni legittimanti il diritto di cronaca e, dunque, la compressione del diritto costituzionale alla riservatezza.
Sotto un secondo profilo, il controllo è poi esteso alla congruità ed alla logicità della motivazione, secondo la previsione dell'art. 360, n. 5, c.p.c. (applicabile ratione temporis). È escluso, invece, che la Corte stessa possa sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine all'effettiva capacità diffamatoria delle espressioni utilizzate.
Ebbene, quanto ai suddetti canoni (che la stessa ricorrente ha ricordato essere quelli della veridicità dei fatti esposti, della continenza formale e sostanziale delle espressioni usate e dell'interesse pubblico alla conoscenza dei fatti stessi), la sentenza impugnata ne ha fatto attenta ricognizione, spiegando, quanto alla veridicità dei fatti, che: il voto in questione non era diretto a deliberare la nomina di Me. o di F. , bensì riguardava la sola nomina del Me. ; dal verbale della seduta del CSM risulta che i voti a favore del Me. furono 14, 10 contrari e 5 astenuti (tra questi, appunto, il P. ); effettivamente il P. s'era espresso per la rimessione in commissione della pratica, per un ulteriore approfondimento; tuttavia, considerato le espressioni finali di voto, anche il voto degli astenuti fini per giovare al Me. , considerato, appunto, che a suo favore votarono 14 (non 15) componenti e che senza le astensioni il magistrato non avrebbe conseguito la carica in assegnazione.
Ciò premesso, il giudice d'appello interpreta i brani del libro in questione proprio come tendenti ad affermare, con "questo tipo di dinamica politica e di comunicazione", che "le astensioni, pur soggettivamente motivate con un intento contrario a Me. , sono state di fatto astensioni che hanno funzionato a favore".
Quanto alla continenza, il giudice ritiene che l'autore proprio a quella "dinamica" si riferisse nell'usare l'espressione "pilatescamente", volendo indicare una persona che ha una condotta consapevolmente non in linea con il risultato finale, ma che quel risultato produce o non impedisce.
Insomma, il giudice intende riferirsi a quel fenomeno che viene definito in filosofia ed in psicologia come eterogenesi dei fini, in ragione del quale si verificano conseguenze non intenzionali da azioni umane intenzionali.
E, così come sviluppato, il suo ragionamento appare affatto congruo (nel senso che prende in considerazione tutti gli aspetti della vicenda e tutte le questioni mosse dall'attore) e logico (nel senso che dalla premessa, costituita dall'esito del voto, fa derivare la giusta conseguenza rispetto all'esito finale del comportamento del P. ).
Considerato, dunque, che il giudice ha correttamente parametrato la vicenda ai canoni summenzionati (così tenendosi nell'ambito della legittimità) e che ha dato conto del risultato al quale è pervenuto attraverso una motivazione congrua e logica, la sentenza non è suscettibile di censura in sede di cassazione.
Il terzo motivo del ricorso principale censura la sentenza per non avere disposto la compensazione delle spese del giudizio. Il motivo è inammissibile, posto che quello in questione costituisce un potere discrezionale proprio del giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità. In conclusione, il ricorso del P. deve essere respinto.
RICORSO INCIDENTALE.
Nell'unico motivo di ricorso il C. e la soc. Longanesi censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., lamentando che il giudice d'appello "non ha motivato" in ordine alla domanda di riforma della prima sentenza nel punto in cui quest'ultima aveva compensato le spese di quel giudizio.
Il motivo è inammissibile siccome, nella specie, la parte di duole dell'omessa pronunzia da parte del giudice d'appello su uno specifico mezzo d'impugnazione. Essa, dunque, avrebbe dovuto svolgere l'impugnazione sotto il profilo dell'omessa pronunzia (art. 360, n. 4, in relazione all'art. 112 c.p.c.), specificando quando, dove ed in che termini aveva avanzato la doglianza in questione, e non, come ha fatto, lamentando la violazione di legge e del vizio della motivazione.
In conclusione, il ricorso principale deve essere respinto e quello incidentale deve essere dichiarato inammissibile.
Consegue l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile l'incidentale e compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
23-05-2014 04:06
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