La competenza a determinare le tariffe per la fruizione di beni e servizi pubblici locali è della Giunta Comunale.
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 23 ottobre 2013 - 10 gennaio 2014, n. 360
Presidente Vitrone – Relatore Cristiano
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Ascoli Piceno accolse la domanda avanzata dall'Associazione Sportiva Pool Nuoto Agonistico nei confronti del Comune di San Benedetto del Tronto e della Serit Picena s.p.a. e - ritenuta di competenza esclusiva del consiglio comunale qualsiasi decisione inerente la materia delle tariffe per la fruizione di beni e servizi pubblici locali, ivi compreso l'aggiornamento dei prezzi - disapplicò la delibera di Giunta del 27.12.95 che aveva aggiornato le tariffe per l'uso della piscina comunale e dichiarò che l'attrice non era tenuta al pagamento della cartella esattoriale notificatale da Serit per la riscossione del credito di L. 26.577.430 vantato dall'ente territoriale in base alle nuove tariffe.
L'appello proposto dal Comune contro la decisione è stato accolto dalla Corte d'appello di Ancona con sentenza del 18.11.06.
La corte territoriale, dopo aver rilevato che la deliberazione della Giunta era stata assunta in base all'art. 9 del regolamento adottato dal Consiglio comunale, il quale prevedeva che l'uso dell'impianto sportivo natatorio fosse consentito dietro il pagamento di tariffe forfetarie che dovevano essere "specificate da atto deliberativo della giunta municipale" con tariffario "aggiornato annualmente in relazione ai costi correnti”, ha affermato che la prevista distinzione regolamentare fra il momento istitutivo del servizio e quello determinativo del suo concreto esplicarsi, attraverso l'individuazione del prezzo in rapporto ai costi da sostenere, corrispondeva pienamente al sistema normativo di cui alla I. n. 142/90, che, all'art. 32 lett. G) (da interpretare alla luce dell'art. 42 lett. f) del T.U. n 267/2000 che lo ha sostituito) che attribuisce al consiglio comunale la competenza in tema di istituzione ed ordinamento dei tributi e disciplina generale delle tariffe ed alla giunta quella in materia di individuazione e variazione tariffaria in senso stretto. Esclusa, pertanto, l'illegittimità della delibera, la corte del merito ha ritenuto insindacabile la disciplina della diversificazione delle tariffe in base alla diversità delle attività svolte nel complesso natatorio ed, accertato che la somma portata dalla cartella esattoriale era pienamente rispondente alla tariffa stabilita per l'attività preagonistica svolta dall'appellata, ha respinto la domanda di quest'ultima.
La sentenza è stata impugnata dall'Associazione Sportiva Pool Nuoto Agonistico Sambenedettese con ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui il Comune di San Benedetto del Tronto ha resistito con controricorso.
Serit Piceno s.p.a. non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 32 lett. g) della L. n. 142/90. Deduce che l'esegesi della norma compiuta dalla corte territoriale alla luce dell'art. 42 lett. f) del T.U. n 267/2000 è errata, perché tale successiva disposizione ha escluso la competenza del consiglio comunale a determinare le aliquote dei tributi, ma l'ha confermata per ciò che concerne la determinazione delle tariffe. Rileva, sotto altro profilo, che nel caso di specie la Giunta non si è limitata ad aggiornare le tariffe già stabilite, ma ha proceduto all'individuazione di nuovi criteri in base ai quali raggruppare le varie categorie di utenti, per poi fissare tariffe differenziate a seconda dell'attività svolta.
Va subito detto che, per tale ultima parte, il motivo va dichiarato inammissibile, siccome fondato su una circostanza di fatto che risulta dedotta per la prima volta nella presente sede di legittimità.
Nella sua prima parte il motivo è invece infondato e deve essere respinto.
L'art. 32 lett. g) della L. n. 142/90 di riforma del sistema delle autonomie locali - applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis - attribuisce alla competenza dei Consigli comunali "l'istituzione e l'ordinamento dei tributi” e la "disciplina generale delle tariffe perla fruizione dei beni e servizi”.
Questa Corte, nell'occuparsi della portata applicativa della prima delle due proposizioni delle quali si compone la norma, ha costantemente affermato che, in base ad essa, rientra(va) nella competenza esclusiva dei consigli comunali l'adozione dei provvedimenti relativi alla determinazione ed all'adeguamento delle aliquote dei tributi comunali (Cass. nn. 28836/09, 21310/04, 16870/03).
Il principio enunciato si fonda, oltre che sull'interpretazione letterale della disposizione (atteso che la quantificazione della misura del prelievo tributario attiene necessariamente all'ordinamento del tributo) anche sul rilievo che essa ricalca, a livello locale, l'art. 23 Cost., secondo il quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
Si è osservato in proposito (cfr. Cass. n. 16870/03 cit.) che, se ogni prelievo di ricchezza dal patrimonio dei contribuenti può aver luogo soltanto in base ad un atto del Parlamento, organo rappresentativo della volontà popolare, appare coerente che anche a livello comunale il potere impositivo sia esercitato da un organo elettivo: e i provvedimenti di fissazione e di aggiornamento delle aliquote del tributo, risolvendosi nella determinazione del quantum debeatur, implicano, per l'appunto, l'esercizio di un potere impositivo. Non va dimenticato, d'altro canto, che spetta in ogni caso al legislatore nazionale di istituire il tributo e di dettare le prescrizioni ed i criteri generali per commisurarlo, cui l'ente locale dovrà attenersi nell'esercizio della sua discrezionalità impositiva: ne consegue che la fissazione dell'aliquota non è soltanto un momento qualificante dell'autonomia tributaria dell'ente, ma può rappresentare (e, di fatto, molto spesso rappresenta) l'unica forma concreta in cui detta autonomia si esplica e può incidere sulla disciplina generale.
Le considerazioni sin qui svolte non possono essere richiamate a sostegno della tesi, sostenuta dalla ricorrente, della sussistenza della competenza esclusiva del consiglio comunale anche in materia di determinazione delle aliquote delle tariffe per la fruizione di beni e servizi.
All'accoglimento di tale tesi osta, in primo luogo, l'argomento letterale, non potendosi scorgere alcuna equivalenza, sul piano lessicale, fra le parole "disciplina generale" e le parole "istituzione e ordinamento", rispettivamente adoperate dal legislatore per definire l'ambito della competenza esclusiva dell'organo elettivo comunale nella predetta materia ed in quella dei tributi: le prime rimandano, infatti, alla mera individuazione dei criteri economici sulla base dei quali si dovrà procedere alla determinazione delle tariffe (in linea di massima: tempi e modi della programmazione del servizio erogato, spese necessarie a sostenerlo, sua natura e rilevanza con conseguente previsione di esenzioni o agevolazioni stabilite per determinate categorie di utenti) e lasciano pertanto spazio a che la Giunta (che, ai sensi dell'art. 35 2 comma della L. n. 142/90 - poi trasfuso nell'art. 48 2^ comma del d. lgs. n. 267/2000 - ha competenza residuale) provveda alla concreta quantificazione del prezzo del servizio alla stregua delle linee guida dettate dal regolamento comunale. Neppure ricorrono, nella materia, quelle esigenze di ordine sistematico che avevano indotto il legislatore ad attribuire al consiglio competenza esclusiva a deliberare su ogni aspetto della disciplina dei tributi comunali non regolato dalla legge statale: infatti, come è stato correttamente rilevato dalla corte territoriale, i provvedimenti amministrativi in tema di tariffe non sono espressione di una potestà impositiva dell'ente, ma sono funzionali all'individuazione del corrispettivo del servizio da erogare e muovono da un'ottica - di diretta correlazione economica tra soggetto erogante ed utenza - che é estranea alla materia tributaria. Essi, pertanto, ben possono trovare compiuta esplicazione in due distinte e successive fasi deliberative, la prima (generale) di competenza del consiglio e la seconda (di specificazione delle tariffe) di competenza della giunta, in perfetta corrispondenza con i compiti (l'uno di indirizzo politico-amministrativo e l'altro di attuazione degli indirizzi generali) che la legge rispettivamente attribuisce a ciascuno dei due organi.
A conforto della conclusioni raggiunte va infine considerato che il d.lgs. n. 267/2000, che ha abrogato la L. n. 142/90, prevede ora, all'art. 42 lettera f), che sono di competenza del consiglio comunale l'istituzione e l'ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote nonché la disciplina generale delle tariffe: invero, poiché sarebbe privo di logica ritenere che il legislatore, modificando solo la prima parte del previgente art. 32 lettera g) della L. n. 142/90, abbia inteso sottrarre alla competenza della giunta comunale unicamente la determinazione delle aliquote dei tributi e non anche la determinazione delle aliquote delle tariffe, la nuova disposizione rafforza il convincimento che la distinzione ora espressamente prevista in materia tributaria (distinzione che, per quanto sopra si è detto, era necessario introdurre ai fini della diversa distribuzione delle competenze nella predetta materia) fosse già operante in materia tariffaria.
2) Col secondo motivo l'associazione, lamentando vizio di motivazione della sentenza impugnata, osserva che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d'appello, la valutazione dei costi del servizio spetta necessariamente al consiglio comunale, tenuto conto che la giunta ha esclusivamente compiti di collaborazione e di impulso.
3) Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione del principio del doppio grado di giudizio, sostiene che la corte territoriale, una volta riformata la decisione del tribunale e ritenuta legittima la delibera di Giunta, non avrebbe potuto esaminare la diversa questione concernente l'esatta individuazione della tariffa da essa dovuta, sulla quale il primo giudice non aveva pronunciato.
4) Con il quarto motivo, deducendo ulteriore vizio di motivazione della sentenza impugnata, la ricorrente assume che il giudice del merito ha erroneamente equiparato l'attività di preparazione alle gare da essa svolta ad un'attività didattica assoggettabile alla maggiore tariffa.
5) Il secondo ed il quarto motivo sono entrambi privi del momento di sintesi, atto a delineare con esattezza l'ambito della questione controversa, richiesto dall'art. 366 bis c.p.c. (norma cui il ricorso, proposto contro una sentenza pubblicata il 18.11.2006, è soggetto ratione temporis) e vanno pertanto dichiarati inammissibili. 6) Il terzo motivo è invece manifestamente infondato: il principio del doppio grado di giurisdizione, infatti, non è costituzionalmente garantito, con la conseguenza che, al di fuori delle ipotesi tassativamente disciplinate dagli artt. 353 e 354 c.p.c., il giudice d'appello non può rimettere la causa al primo giudice, ma è tenuto a decidere su ogni questione che risulti devoluta al suo esame, ancorché questa (per motivi di rito o perché, come nella specie, assorbita dall'accoglimento per altre ragioni della domanda avanzata da una delle parti) non sia stata affrontata nella sentenza impugnata.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.
15-01-2014 11:12
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