Ogni condomino può agire per la tutela del bene comune.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 3 giugno - 6 ottobre 2014, n. 20990
Presidente Oddo – Relatore Falaschi
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 12 luglio 1996 S.G. evocava, dinanzi al Tribunale di Salerno, C.M. esponendo di avere con atto del 14.9.1974 proceduto con i germani alla divisione dei beni ereditari del padre, S.R. , comprendenti la (omissis) , avente fabbricato rurale in agro di (omissis) , che all'interno era attraversata da uno stradone di larghezza di sei metri, rimasto comune anche dopo la divisione fra i condividenti per essere utilizzato a scopi agricoli; aggiungeva che il convenuto, acquistato dal condividente S.I. un appezzamento di detta masseria, aveva aperto una nuova cava utilizzando lo stradone per un uso diverso da quello originario, nonostante un contrario giudicato nei suoi confronti (sentenza del Pretore di Montecorvino n. 28/1989 introdotto da S.L. ), aveva proseguito nell'uso indebito, pertanto chiedeva che venisse accertato in via definitiva l'uso agricolo dello stradone, con condanna del convenuto al ripristino dei luoghi e al risarcimento dei danni.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del C. il quale eccepiva preliminarmente la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i partecipi della comunione sullo stradone, nel merito, assumeva che la cava esisteva già prima del suo acquisto e al momento era utilizzata da terzi, inoltre assumeva che gli S. avevano nel corso degli anni modificato i luoghi, pertanto spiegava riconvenzionale relativamente agli abusi commessi dagli S. e per il riconoscimento del suo diritto di comproprietà sul piazzale antistante il fabbricato e sul pozzo, il giudice adito, espletata istruttoria, anche con c.t.u., accoglieva parzialmente la domanda attorea (anche se per mero errore materiale indicato a pag. 3 della sentenza quale "C. "), dichiarando illegittimo l'uso a scopo industriale dello stradone, con condanna del convenuto al risarcimento dei danni determinati in Euro 13.000,00, rigettata la riconvenzionale.
In virtù di rituale appello interposto dal C. , con il quale lamentava l'errata applicazione delle norme in tema di litisconsorzio e di prove, oltre a dolersi della quantificazione equitativa dei danni, la Corte di appello di Salerno, nella resistenza dello S. , accoglieva parzialmente l'appello e per l'effetto, in parziale riforma della decisione di primo grado, respingeva la domanda attorea di risarcimento dei danni, compensate per un terzo le spese processuali, per il resto poste a carico dell'appellante.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che non sussistevano i presupposti per l'integrazione del contraddicono per essere l'azione attorea a difesa della comune proprietà, mentre essendo stata respinta quella riconvenzionale, non necessitava di ampliamento del contraddittorio. Inoltre affermava che la legittimazione passiva dell'appellante derivava dalla realità dell'azione esperita per essere lo stesso proprietario del terreno con accesso dallo stradone.
Aggiungeva che, di converso, non poteva essere condivisa la decisione di primo grado quanto alla quantificazione del danno, per non avere lo S. provato lo stato pregresso dello stradone, mentre la liquidazione equitativa presumeva che non fosse altrimenti determinabile l'ammontare del risarcimento.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Salerno ha proposto ricorso, sulla base di due motivi, illustrato anche da memoria ex art. 378 c.p.c., lo S. , al quale ha replicato il C. con controricorso comprensivo anche di ricorso incidentale, affidato a tre motivi.
Motivi della decisione
Va preliminarmente esaminata l'eccezione di inammissibilità del ricorso principale sollevata dal C. nel controricorso ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. In particolare viene denunciata la non idoneità dei quesiti di diritto formulati a conclusione dei motivi ad essere autosufficienti: è infondata.
Secondo l'art. 366-bis c.p.c. - introdotto dall'ari 6 del decreto legislativo n. 40 del 2006 ed abrogato dalla legge n. 69 del 2009, applicabile alla specie ratione temporis - i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo lì descritto e, in particolare, nei casi previsti dall'art. 360 c.p.c., n. 1), 2), 3) e 4, l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall'art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5), l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.
La funzione del quesito, di sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, nella specie non può dirsi elusa, in quanto quelli formulati a corredo dei due mezzi - di cui si dirà di seguito - risultano complessivamente idonei, sotto il profilo logico e giuridico, a far comprendere senza equivoci la violazione denunciata ed a richiedere alla Corte di affermare un principio di diritto contrario a quello posto a base della decisione impugnata (Cass. 6 novembre 2008 n. 26737).
L'eccezione di inammissibilità nei termini sopra precisati va, dunque, rigettata.
Precede nella trattazione l'esame del primo motivo del ricorso incidentale - per il suo carattere logicamente pregiudiziale - con il quale il C. lamenta la errata applicazione delle norme in tema di litisconsorzio nell'ambito della comunione e pone il seguente quesito di diritto: "con questo primo motivo di gravame si ritiene violato l'art. 102 c.p.c. che dispone che se la decisione non può pronunciarsi che in confronti di più parti queste debbano agire o essere convenute nello stesso processo. Sia in 1 grado che per il grado di appello viene disatteso l'adempimento contenuto in questa norma di diritto, tale violazione determina una vera e propria lesione che provoca l'annullamento anche di ufficio delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure ex art. 383 c.p.c. ultimo comma. Tale ragionamento si conforma all'ormai orientamento della Suprema Corte disatteso dai giudici di merito secondo cui l'azione diretta alla riduzione in pristino di un immobile comune a più persone, da vita ad una causa inscindibile per ragioni sostanziali comportante litisconsorzio necessario tra tutti i comproprietari medesimi".
Esso non ha pregio.
Ed invero, nella specie, come evidenziato dagli atti di causa, esaminabili per la particolare natura della questione posta, l'attore S.I. , ebbe ad agire a tutela, in forma di riduzione in pristino e di risarcimento del danno, della proprietà comune rappresentata dallo stradone, destinato dai comproprietari a scopi agricoli, che assunse pregiudicata dal diverso ed indebito uso fattone dal convenuto, comproprietario anch'esso, per avere aperto nella propria masseria una cava, il quale contestò quella tutela assumendo che la cava esisteva già prima del suo acquisto dell'appezzamento, per cui era infondata per mancanza di pregiudizio effettivo. Nella specie, dunque, non si versava nella prospettata ipotesi di litisconsorzio necessario, da questa Corte affermato in altri e differenti casi, ma negato, invece, con orientamento consolidato, allorquando il condomino ovvero il comproprietario agisca a tutela del bene comune (v. ex plurimis sent. n. 8546 del 1998, n. 12255 del 1997, n. 13064 del 1995, n. 6699 del 1994, n. 3930 del 1988 e n. 9043 del 1987).
Passando all'enunciazione dei motivi del ricorso principale, con il primo mezzo è denunciata la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché dell'art. 1226 c.c., per avere la corte di merito non condiviso il criterio del giudice di primo grado nella liquidazione dei danni, pur pacificamente sofferti dall'attore e non negati dal convento. In secondo luogo il ricorrente si duole non sia stato considerato costituire danno in re ipsa la prova dell'illegittimo transito protratto per anni, come peraltro provato in sede istruttoria con l'espletamento di prova orale e di c.t.u..
Prosegue il ricorrente che non è ragionevole la esclusione del danno per chi aveva sopportato per anni rumori, polveri ed altri fastidi, con gravi danni alla salute per insalubrità dell'ambiente e riflessi sulla vita di relazione, con il verificarsi del danno biologico - esistenziale, essendo normale che il danno non patrimoniale si presenti come non facilmente dimostrabile e determinabile nel suo preciso ammontare. L'illustrazione del motivo è conclusa con la formulazione del seguente quesito di diritto: "nella valutazione equitativa del danno, se il giudice di appello dissente dai criteri seguiti dal giudice di primo grado, deve negare il ristoro equitativo attribuito sulla base del criterio ritenuto erroneo o, quale revisore della prima istanza deve riconoscere comunque un danno, nella misura equitativa da lui determinata, secondo altro criterio ritenuto idoneo, ove verifichi l'esistenza dei presupposti per tale riconoscimento?".
Con il secondo motivo è dedotta la contraddittoria motivazione circa un fatto controverso relativo agli artt. 2043 e 2056 c.c. in particolare l'uso indebito dello stradone per un tempo durevole da parte del convenuto, emergendo dalla c.t.u. che il C. abusivamente sin dal 1986 aveva aperto una nuova cava ed aveva utilizzato lo stradone agricolo illegittimamente per uso industriale, cioè per l'illecito sfruttamento della cava, chiusa e sottoposta a sequestro penale (cfr pag. 7 c.t.u.); l'ausiliare del giudice aveva inoltre annotato un traffico abbastanza sostenuto di autocarri...sollevando nuvole di polvere tale da rendere l'aria irrespirabile, nonché la seria compromissione della salubrità dell'ambiente, con danneggiamento della coltura biologica degli oliveti dell'attore, con diminuzione dello sviluppo vegetativo e decadimento della qualità e quantità dei prodotti (pag. 17 della c.t.u.). A corollario del mezzo è formulato il seguente quesito di fatto: "il giudice di appello che conferma il capo della sentenza di primo grado sull'accertato fatto illecito controverso, nella stessa decisione, in tema di liquidazione equitativa dei danni e dei criteri da adottare, può decidere detto capo, in via del tutto autonoma dall'altro capo della sentenza del primo giudice, invece confermato; ciò, anche in caso di interdipendenza, connessione e/o relazione tra i diversi motivi di appello, decisi in unica sentenza, ove tra essi si profila contrasto?".
Entrambi i motivi - da trattare congiuntamente perché attengono alla medesima questione della determinazione del danno da indebito uso del bene comune - vanno disattesi.
Le censure con le quali il ricorrente si duole, sotto un primo profilo, della reiezione, per genericità e mancanza di prova del danno, della richiesta di risarcimento per l'abusiva utilizzazione dello stradone comune, al riguardo invocando l'applicazione dell'art. 1226 c.c. (condividendo l'impostazione del giudice di prime cure), sostanzialmente deducendo un danno in re ipsa e proponendo, quale parametro risarcitorio, "l'avere sopportato per anni rumori, polveri ed altri fastidi, con gravi danni alla salute per insalubrità dell'ambiente e riflessi sulla vita di relazione, con il verificarsi del danno biologico-esistenziale", formula palesemente generica nella prima parte, che non supera l'argomentazione essenziale, secondo la quale l'attore avrebbe dovuto fornire concreti elementi atti a provare di avere, individualmente e quale comproprietario, subito pregiudizi economicamente rilevanti da tale abuso, in termini di impossibilità o difficoltà di usare a sua volta lo stradone ovvero di avere eseguito opere straordinarie per il ripristino e la conservazione del bene. Sicché, in mancanza di prova della sussistenza effettiva del danno, il giudice non avrebbe potuto procedere alla valutazione equitativa dello stesso ai sensi dell'art. 1226 c.c..
Sotto un secondo profilo il ricorrente lamenta, il mancato accoglimento della domanda di liquidazione del danno alla salute e del danno biologico, quale logica conseguenza dell'indebito uso del diritto di transito: è preliminare ed assorbente l'osservazione che detta richiesta non può essere presa in considerazione perché trattasi di questione nuova, posta per la prima volta in sede di legittimità, non essendovi di essa traccia alcuna nella sentenza impugnata, per cui non ha costituito oggetto di vantazione da parte del giudice d'appello, né risulta essere stata prospettata al predetto giudice.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, “nel giudizio di cassazione, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte, non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, a meno che si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell'ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti (Cass. n. 4787 del 2012).
Venendo agli ulteriori motivi del ricorso incidentale, il secondo mezzo - con cui è dedotta la errata applicazione delle norme in tema di prove - pone a conclusione il seguente quesito di diritto: "altro principio violato dai giudici di merito è quello dell'onere della prova, invero i giudici hanno disatteso le risultanze derivanti dalla escussione di testimoni e dai supporti tecnici eseguiti nel corso del giudizio, dai quali veniva data la prova che prima 'acquisto da parte del C. già esisteva una cava autorizzata dagli S. . Il giudice di appello riscontrava altresì che l'odierno ricorrente (Sparano Gennaro) non dava prova sia relativamente allo stato di fatto antecedente la attività estrattiva, sia relativamente alla quantificazione del danno subito, in palese violazione del principio dell'onere della prova proprio in virtù di tale principio rigettava la domanda di risarcimento danni. La corretta applicazione del principio dell'onere della prova avrebbe determinato sicuramente l'accoglimento del secondo motivo di gravame e non solo del terzo".
L'esame della doglianza risulta superfluo a seguito del rigetto del ricorso principale, nei senso che se mancava la prova dell'esistenza di un danno, è inutile attardarsi a stabilire se l'apertura della cava era stata o meno autorizzata dai comproprietari e preesisteva all'acquisto del terreno da parte del C. . Del resto la sentenza ha esaminato l'analoga doglianza proposta con l'appello (v. pag. 5 della decisione) ed ha motivato adeguatamente e logicamente, con richiamo alle deposizioni testimoniali e alle conclusioni del c.t.u., l'accertamento della proprietà della cava da parte del C. , con conseguente sua legittimazione passiva per la "realità dell'azione” esperita. Con il terzo motivo il ricorrente incidentale censura la liquidazione delle processuali limitatamente al mancato riferimento alle spese di c.t.u. della disposta compensazione per un terzo delle stesse e pone il seguente quesito: "volendo accettare la decisione del giudice di appello la sentenza andrebbe comunque riformata atteso che il giudicante non ha preso in considerazione tutte le richieste, in palese violazione del principio del chiesto e del pronunciato. In particolare la Corte di appello, nella compensazione delle spese giudiziarie, non ha applicato lo stesso criterio di compensazione rispetto alle spese di consulenza addossandole, paradossalmente, per intero al controricorrente. Nel caso di accoglimento del presente controricorso andranno quindi riviste le compensazioni determinare dal giudice di appello".
Non può trovare ingresso neanche il terzo motivo del ricorso incidentale.
Le spese della c.t.u. sono, all'evidenza, riconducibili tra le spese processuali, cosicché quando il giudice del merito, per la reciproca soccombenza ovvero per altri giusti motivi, discrezionalmente valutabili, ritiene che le stesse debbano essere compensate, non si rinvengono ragioni d'ordine logico-giuridico che possano precludere che la compensazione concerna anche le spese di consulenza. La compensazione è peraltro soltanto l'esclusione del rimborso, è la negazione della condanna, e perciò, così come la parte soccombente può essere condannata al rimborso delle spese processuali, in esse comprese anche quelle di c.t.u., non si rinvengono motivi ostativi a che anche alle spese relative alla consulenza possa essere estesa la compensazione. Nella compensazione si risolve peraltro anche il provvedimento con cui il giudice "chiudendo il giudizio davanti a lui" disponga la ripartizione (fra la parte totalmente vittoriosa e la parte soccombente) delle spese in favore del consulente tecnico d'ufficio, senza che, come è stato convincentemente dimostrato, siano differenziabili, in riferimento al profilo qui in esame, i casi della liquidazione operata nel corso del giudizio o con la sentenza (Cass. n. 2858 del 1999), in quanto in entrambi i casi la ripartizione non costituisce una sia pur parziale condanna alle spese.
A tale finalità si è appunto richiamata la Corte d'appello nel confermare la decisione adottata dal giudice di primo grado in merito alle spese della CTU.
Anche questo motivo va, pertanto, respinto.
Consegue il rigetto integrale sia del ricorso principale sia di quello incidentale.
Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate stante la reciproca soccombenza delle parti.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso principale e quello incidentale;
dichiara interamente compensate fra le parti le spese del giudizio di Cassazione.
15-10-2014 22:36
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