Una donna cita in giudizio una società editrice di un quotidiano chiedendo il risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, in quanto era stato pubblicato un articolo nel quale era narrato l’arresto della stessa con il titolo: è nata miss tangente. Diritto di cronaca.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 20 marzo – 20 maggio 2014, n. 11092
Presidente Segreto – Relatore Spirito
Svolgimento del processo
La B. citò in giudizio la SEP spa per risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, con riferimento ad un articolo pubblicato sul quotidiano (omissis) del (omissis) , dal titolo "È nata miss tangente" nel quale era narrato dell'arresto dell'attrice e delle vicende relative.
Il Tribunale di Genova respinse la domanda con sentenza poi confermata dalla locale Corte d'appello.
Propone ricorso per cassazione la B. attraverso tre motivi. Risponde con controricorso la SEP spa. Ambedue le parti hanno depositato memorie per l'udienza.
Motivi della decisione
I motivi censurano violazione di legge e vizi della motivazione.
In particolare, nel primo motivo la ricorrente sostiene l'insussistenza dei requisiti della continenza e della verità dei fatti ai fini del legittimo esercizio del diritto di cronaca. Le espressioni utilizzate sarebbero incontinenti ed il giudice si sarebbe contraddetto allorquando, per un verso, riconosce il carattere "irridente" delle espressioni utilizzate dal giornalista mentre, dall'altro, ne riconosce la legittimità. Inoltre, l'articolo conterrebbe il riferimento ad ipotesi criminose mai contestate in sede penale, farebbe riferimento alle "manette ai polsi", benché la B. non fosse stata mai tradotta in manette, accosterebbe la sua vicenda ad altre persone affatto estranee, riferirebbe di persone altrettanto estranee al fatto di cronaca trattato.
Il secondo motivo tende a dimostrare la falsità di alcune circostanze contenute nell'articolo ed, in particolare: che la ricorrente non fu mai latitante, bensì, semmai, irreperibile; che nell'articolo viene omesso di riferire che ella spontaneamente comparve innanzi all'A.G.; che viene fatto riferimento a reati mai contestati in sede penale (corruzione e concussione), mentre l'effettiva contestazione riguardò il reato di associazione a delinquere finalizzata alla truffa; che alla ricorrente vengono attribuiti fatti materiali diversi da quelli effettivamente posti alla base dell'istruttoria. Inoltre, si contesta alla sentenza impugnata di non avere affatto motivato in ordine alla errata menzione dei capi d'imputazione attribuiti alla B. .
Il terzo motivo ribadisce, sotto il profilo della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., l'insussistenza dei requisiti legittimanti il diritto di cronaca e riferisce dell'ordinanza della Corte d'appello di Venezia, che ha riconosciuto alla ricorrente il risarcimento del danno per l'ingiusta detenzione patita, dalla quale dovrebbe dedursi la "rilevanza della campagna diffamatoria subita dalla ricorrente".
I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili ed in parte infondati. Sono inammissibili laddove tendono a conseguire dal giudice di legittimità un diverso e favorevole giudizio intorno al merito della vicenda. Sono infondati, laddove lamentano violazione di legge e vizi della motivazione.
Occorre premettere, in proposito, che, in ipotesi di azione risarcitoria da diffamazione a mezzo stampa, il potere di controllo della Corte di cassazione sul provvedimento impugnato è limitato alla verifica dell'accertamento, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei canoni legittimanti il diritto di cronaca e, dunque, la compressione del diritto costituzionale alla riservatezza. Sotto un secondo profilo, il controllo è poi esteso alla congruità ed alla logicità della motivazione, secondo la previsione dell'art. 360, n. 5, c.p.c. (applicabile ratione temporis).
È escluso, invece, che la Corte stessa possa sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine all'effettiva capacità diffamatoria delle espressioni utilizzate.
Ebbene, quanto ai suddetti canoni (che la stessa ricorrente ha ricordato essere quelli della veridicità dei fatti esposti, della continenza formale e sostanziale delle espressioni usate e dell'interesse pubblico alla conoscenza dei fatti stessi), la sentenza impugnata ne ha fatto attenta ricognizione, spiegando, quanto alla veridicità dei fatti, che:
- Nell'atecnica sede giornalistica la figura del latitante è quella di colui che si sottrae all'esecuzione di un provvedimento di custodia cautelare in carcere, pur poi ponendosi a disposizione della giustizia;
- L'incriminazione della B. implicava la configurazione di reati in danno di un ente pubblico, che necessariamente presupponevano l'abuso di posizioni politiche.
Quanto all'interesse pubblico alla notizia, la sentenza rappresenta che, nel contesto dell'epoca (la c.d. tangentopoli), vicende del genere erano destinate a suscitare interesse e riprovazione nell'opinione pubblica, tali da giustificare l'attribuzione alla B. di essere "la prima donna eccellente in Italia a finire con le manette ai polsi".
Poi, quanto alla continenza, la sentenza argomenta che effettivamente una serie di espressioni contenute nell'articolo erano "ispirate ad uno spirito di irrisione", tuttavia il contesto del messaggio non era connotato da "espressioni suggestive e maliziose o anche solo surrettiziamente dubitative idonee ad orientare l'opinione dei lettori nel senso di una indebita anticipazione di un giudizio condannatorio".
In altri termini, il giudice correttamente tiene conto del fatto che l'articolo, benché attraverso i toni menzionati, si limitava a fornire la notizia dell'incriminazione e dell'arresto, senza indurre nel lettore un giudizio di sicura colpevolezza del soggetto incriminato.
Quella esposta si manifesta come una motivazione congrua, in quanto appaga tutte le doglianze della ricorrente, e logica, in quanto offre una ricostruzione concreta ed attendibile della vicenda. Tutte queste circostanze rendono, dunque, incensurabile la sentenza impugnata da parte della Corte di legittimità.
Il ricorso deve essere, all'esito, respinto, con condanna della ricorrente a rivalere la controparte delle spese sopportate nel giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 4200,00, di cui Euro 4000,00 per compensi, oltre spese ed accessori di legge.
23-05-2014 04:18
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