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Sentenza

Controversie agrarie: l’omesso tentativo di conciliazione è rilevabile anche in ...
Controversie agrarie: l’omesso tentativo di conciliazione è rilevabile anche in appello.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 11 febbraio – 23 aprile, n. 8306
Presidente Bursese – Relatore Matera

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 22-4-2004 il Tribunale di Bolzano, pronunciando sulle domande proposte con atto di citazione notificato il 18-5-2001 da G.I. in O. e G.S. nei confronti dei fratelli G.M. in I. , Ga.Si. in M. e G.N. , nonché nei confronti di Go.Jo. in relazione all'eredità della madre L.M. , deceduta il (omissis) (il cui bene economicamente più significativo consisteva nel maso chiuso "Seidl", in (omissis) , assegnato alla erede universale e assuntrice del maso G.M. ), respingeva le domande di integrazione della legittima e di riduzione; dichiarava inammissibile la domanda di divisione ereditaria suppletoria ex art. 29 del T.U. delle leggi provinciali sulla disciplina dei masi chiusi approvato con decreto del Presidente della Provincia del 22-12-1978, n. 32, avente ad oggetto la particella 975 (che al momento dell'apertura della successione costituiva parte del maso chiuso), alienata il 28-7-2000 da G.M. , assuntrice del maso, al convenuto Go.Jo. .
Avverso la predetta decisione proponevano appello principale gli attori e appello incidentale G.N. .
In corso di causa la Corte di Appello di Trento, Sezione Distaccata di Bolzano, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 35 comma 2 della legge n. 340 del 24-10-2000, che per richieste relative alla disciplina dei masi chiusi prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi dell'art. 46 della legge n. 203/1982.
A seguito della declaratoria della Corte Costituzionale di manifesta inammissibilità della questione, il giudizio sospeso veniva riassunto e definito con sentenza in data 18-8-2008, con la quale la Corte di Appello dichiarava improcedibili le domande principali e riconvenzionali proposte in primo grado, a causa del mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dal combinato disposto dell'art. 35 comma 2 della legge n. 340/2000 (nella versione originaria vigente al momento della instaurazione del presente procedimento) e dell'art. 46 della legge n. 203/1982.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso G.I. in O. e Ga.Si. , sulla base di due motivi.
G.M. in I. ha resistito con controricorso, mentre gli altri intimati non hanno svolto attività difensive.
In prossimità dell'udienza sia i ricorrenti che i controricorrenti hanno depositato una memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano "violazione del principio di ragionevolezza; violazione e falsa applicazione dell'art. 35, commi 1 e 2, della legge 24-11-2000 n. 340, nonché dell'art. 46 della legge 3-5-1982 n. 203, in combinazione con l'art. art. 12 comma 2 delle disposizioni sulla legge in generale, dell'art. 412 bis, commi 1 e 2, c.p.c.., e degli artt. 156, 157 e 159 c.p.c.". Deducono che il giudice di appello non poteva d'ufficio e per la prima volta in sede di impugnazione rilevare il mancato preventivo esperimento del tentativo di conciliazione o, meglio, la mancata esatta corrispondenza tra la pretesa avanzata in sede di conciliazione e quella poi avanzata in giudizio. Sostengono che, nel silenzio dell'art. 46 della legge 203 del 1982 in ordine alla rilevanza dell'omesso espletamento del tentativo di conciliazione, devono applicarsi in via analogica l'art. 5 comma 2 della legge n. 108 del 1990 (Disciplina dei licenziamenti individuali), secondo cui l'improcedibilità della domanda non preceduta dalla richiesta di conciliazione "è rilevabile anche d'ufficio nella prima udienza di discussione", nonché l'art. 412 bis commi 1 e 2 c.p.c., che, in generale, per tutte le cause di lavoro, prevede che "l'improcedibilità della domanda deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all'art. 416 e può essere rilevata d'ufficio dal giudice non oltre l'udienza di cui all'art. 420 c.p.c.", cioè l'udienza di discussione. Rilevano che, anche ove nell'ordinamento mancassero le norme sopra evocate, la medesima disciplina risulterebbe imposta dall'analogia iuris delle norme generali in tema di nullità degli atti processuali ex art. 156 e segg. c.p.c..
L'illustrazione dei motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis al ricorso in esame: "Può il giudice d'appello (e, in caso affermativo, entro quali limiti) d'ufficio e per la prima volta in sede d'impugnazione, rilevare il mancato e/o il non completo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all'art. 46 della legge 3-5-1982 n. 203?"
2) Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano "violazione e falsa applicazione del principio del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.), nonché dell'art. 6, comma 1, della Convezione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4-11-1950 (CEDU)". Sostengono che la rigorosa applicazione della sanzione di improponibilità della domanda rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, per il mancato o non completo esperimento del tentativo di conciliazione, si traduce in una irragionevole e non giustificata restrizione ed intromissione nel diritto di accesso alla giustizia, garantito sia dall'art. 111 Cost., sia dall'art. 6 comma 1 CEDU.
Il quesito di diritto posto è il seguente: "Può il giudice di appello (e, in caso affermativo, entro quali limiti) - alla luce anche del principio costituzionale del "giusto processo" (art. 111 Cost.) e 9 del diritto di accesso alla giustizia (dell'art. 6, comma 1, CEDU) - d'ufficio e per la prima volta in sede d'impugnazione, rilevare il mancato e/o il non completo esperimento del tentativo di conciliazione di cui all'art. 46 della legge 3-5-1982 n. 203?".
3) I due motivi, che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
L'art. 35 (Controversie in materia di masi chiusi) della legge n. 340/2000 (nella versione originaria, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame) così dispone:
1. In tutte le controversie in materia di masi chiusi concernenti la determinazione dell'assuntore del maso chiuso e la determinazione del prezzo di assunzione si osservano le disposizioni dettate dal capo I del titolo IV del libro secondo del codice di procedura civile.
2. Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa all'ordinamento dei masi chiusi è tenuto ad esperire il tentativo di conciliazione ai sensi dell'articolo 46 della legge 3 maggio 1982, n. 203.
In forza del rinvio contenuto nel primo comma della citata disposizione di legge, pertanto, nelle cause che hanno per oggetto diretto la determinazione dell'assuntore del maso e del prezzo di assunzione, si applicano le norme previste dall'art. 410 e segg. c.p.c. per le vertenze in materia di lavoro; mentre in tutte le altre cause relative alla regolamentazione dei masi chiusi, in virtù del rinvio contenuto nel secondo comma, trova applicazione la disciplina dettata in materia di rapporti agrari dall'art. 46 della legge n. 203/1982.
Ciò posto e atteso che non ha costituito oggetto di censura da parte dei ricorrenti l'affermazione del giudice dei gravame, circa la riconducibilità della controversia in esame nell'ipotesi contemplata nel secondo comma dell'art. 35 della legge n. 340 del 2000, il presente giudizio deve ritenersi soggetto al tentativo obbligatorio di conciliazione di cui al menzionato art. 46 della legge n. 203/1982, con conseguente applicazione dei principi affermati in materia dalla giurisprudenza.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (tra le tante v. Cass. 23-8-2013 n. 19501; Cass. 31-7-2012 n. 13683; Cass. 22-12-2011, n. 28320; Cass. 29-1-2010 n. 2046; Cass. 15-7-2008 n. 19436), in materia agraria la necessità del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione, secondo quanto previsto dall'art. 46 della legge n. 203 del 1982, configura una condizione di proponibilità della domanda, la cui mancanza, rilevabile anche d'ufficio nel corso del giudizio di merito, comporta la definizione della causa con sentenza dichiarativa di improponibilità.
Non giova, in contrario, invocare la speciale disciplina di cui all'art. 412-bis c.p.c. (ora abrogato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 31, comma 16), e la correlativa necessità che l'omesso tentativo di conciliazione sia denunziato non oltre l'udienza di discussione della causa, atteso che questa Corte regolatrice non dubita che tale ultima disposizione, dettata con riguardo alla materia lavoristica, anche se successiva alla legge n. 203 del 1982, art. 46 (siccome introdotta dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 39), reca una disciplina peculiare del processo del lavoro, che non può trovare applicazione nel processo agrario, il quale mantiene inalterata la propria diversa ed autonoma regolamentazione positiva dettata dal citato art. 46. Al riguardo, è stato evidenziato che il tentativo di conciliazione previsto in materia agraria deve essere sempre preventivo, attivato cioè prima dell'inizio di qualsiasi controversia agraria, atteso che la norma di cui all'art. 46 della legge n. 203 del 1982, inderogabile e imperativa, non consente che il filtro del tentativo di conciliazione possa essere posto in essere successivamente alla domanda giudiziale. L'esperimento del tentativo di conciliazione nel processo del lavoro può essere, invece, promosso in corso di causa, previa sospensione del giudizio per il termine di giorni sessanta (con conseguente necessità di riassunzione, a pena di estinzione). In tale prospettiva, se ne fa dunque derivare che, in materia agraria, il requisito della necessità, ex art. 46 della legge n. 203 del 1982, di esperire preventivamente il tentativo di conciliazione, si pone come condizione di "proponibilità" della domanda, la cui mancanza è rilevabile anche d'ufficio nel corso del giudizio di merito; laddove, in materia lavoristica, in cui il tentativo conciliativo è previsto dall'art. 412 bis c.p.c. quale condizione di "procedibilità" della domanda, il mancato esperimento dello stesso determina una "improcedibilità sui generis", avuto riguardo al regime della sua rilevabilità (solo nella memoria difensiva da parte del convenuto o non oltre l'udienza di discussione da parte del Giudice) e all'iter che consegue a tale rilievo (sospensione del giudizio e fissazione del termine perentorio per resperimento del tentativo medesimo).
Alla luce degli enunciati principi, da cui non vi è ragione di discostarsi, correttamente la Corte territoriale, nel dare atto - senza che sul punto siano state mosse censure dai ricorrenti - della mancata corrispondenza tra quanto aveva costituito oggetto del preventivo tentativo di conciliazione e le più ampie pretese azionate in giudizio e, ha rilevato d'ufficio l'improcedibilità (recte, l'improponibilità) delle domande proposte in primo grado.
Come è stato precisato da questa Corte, infatti, le questioni attinenti alla proponibilità dell'azione sono rilevabili d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo. In grado d'appello, tale potere d'iniziativa del giudice sussiste ogni qualvolta tali questioni, come ogni altra il cui oggetto non è disponibile dalle parti, non siano state proposte e decise in primo grado; laddove in tale ultima ipotesi, ossia quando tali questioni siano state decise dal giudice di primo grado, il potere del giudice della impugnazione trova un limite nella preclusione determinata dell'acquiescenza della parte soccombente o di quella che, pur non avendo l'onere della impugnazione perché praticamente vittoriosa, per altre ragioni, non abbia riproposto al giudice d'appello la relativa eccezione, incorrendo nella decadenza di cui all'art. 346 c.p.c. (Cass. 18-4-2007 n. 9297).
Non può accedersi, d'altro canto, alla tesi dei ricorrenti, secondo cui la rilevabilità d'ufficio anche in grado di appello della improponibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.) e del diritto di accesso alla giustizia (art. 6 comma 1 CEDU).
Questa Corte ha già avuto modo di rilevare, in tema di controversie agrarie, che l'esigenza di procrastinare la possibilità dell'azione giudiziale attraverso il previo esperimento di un tentativo di conciliazione risponde ad un'insindacabile scelta legislativa volta a facilitare le trattative e le conciliazioni stragiudiziali ed a limitare l'insorgenza delle controversie giudiziarie (cfr. Cass. 1-8-1991 n. 8474).
Orbene, in considerazione degli analoghi interessi pubblicistici sottesi alla previsione normativa del tentativo di conciliazione in materia di masi chiusi - tendente a favorire la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto al risultato conseguito attraverso il processo, e nel contempo ad evitare un incontrollato aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario, con conseguenti ricadute negative per il funzionamento dell'apparato giudiziario -, e tenuto conto dei tempi circoscritti previsti per la definizione in via stragiudiziale della controversia (60 giorni dall'invio della lettera raccomandata di cui al primo comma dell'art. 46 della legge n. 203 del 1982), non può ritenersi che gli oneri imposti a carico delle parti si pongano in contrasto con il canone costituzionale del giusto processo e si traducano in un indebito ostacolo al diritto di accesso alla giustizia.
In tale prospettiva, la sanzione della improponibilità della domanda connessa al mancato esperimento del tentativo di conciliazione, rilevabile d'ufficio anche in grado di appello, lungi dal risolversi in uno sterile formalismo, rappresenta la misura con la quale l'ordinamento assicura effettività all'osservanza dell'onere imposto dalla legge in funzione delle finalità di interesse pubblico perseguite.
La soluzione adottata trova conforto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale, sia pure con riferimento all'art. 24 Cost., ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art. 46 della legge n. 230/1982, affermando che tale precetto costituzionale non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, e non vieta quindi che la legge possa subordinare l'esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell'attività processuale; e che per le cause agrarie non può ravvisarsi nello speciale onere del previo tentativo di conciliazione un adempimento vessatorio di difficile osservanza né un'insidiosa complicazione processuale tale da ledere il diritto di difesa dell'attore (Corte Cost. ord. n. 73M988).
4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato.
In considerazione della peculiarità e parziale novità delle questioni trattate (per le quali non constano precedenti specifici in materia di controversie relative ai masi chiusi), sussistono giusti motivi per compensare interamente tra le parti costituite le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Avv. Antonino Sugamele

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