Fatale passeggiata sul lungomare devastato da una mareggiata. La responsabilità della caduta di una giovane donna a causa di una buca non è addebitabile al Comune.
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza 19 maggio – 8 giugno 2015, n. 11807
Presidente Finocchiaro - Relatore Barreca
Premesso in fatto
E' stata depositata in cancelleria la seguente relazione:
«1.- R.R. ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Reggio Calabria il Comune di Scilla, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni alla persona da lei patiti a seguito di caduta in una buca presente sulla pubblica via marina, evento verificatosi in data 24.4.1998.
Il Tribunale ha accolto la domanda attorea, ritenendo sussistenti i presupposti della responsabilità del Comune convenuto in base all'art. 2043 c.c., poiché la buca avrebbe presentato i caratteri dell'insidia o trabocchetto in quanto non visibile, non segnalata, né prevedibile da parte dell'attrice; per l'effetto, ha condannato il Comune al risarcimento del danno, quantificato in E 3.376,00 oltre interessi, e alla refusione delle spese di lite.
2.- Ha proposto appello il Comune di Scilla, deducendo, con il primo motivo, che la buca in cui era caduta l'attrice fosse, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, visibile e prevedibile, poiché, in seguito alla mareggiata che si era su quelle strade abbattuta in precedenza, le stesse apparivano dissestate, con numerose buche e pali della luce divelti, sicché a tutti gli abitanti di Scilla era nota la pericolosità di quei luoghi; oltretutto, tale buca, oltre ad essere visibile e prevedibile, non costituiva ostacolo isolato, per cui non poteva essere ritenuta "insidia" o "trabocchetto". L'appellante ha eccepito, infine, la propria carenza di legittimazione passiva, poiché la buca di cui si tratta si sarebbe trovata all'interno del cantiere dei lavori di riposizionamento dell'impianto di illuminazione appaltati dal Comune e sarebbe stata pertanto ascrivibile unicamente alla ditta esecutrice dei lavori.
La Corte d'Appello di Reggio Calabria, dopo aver rigettato preliminarmente l'eccezione di carenza di legittimazione passiva in quanto tardiva e non provata, in totale riforma della sentenza impugnata, ha accolto l'appello proposto dal Comune, ritenendo la buca in questione, alla luce delle deduzioni delle parti e delle testimonianze raccolte, prevedibile da parte della sig.ra R. e, pertanto, inidonea a configurare una responsabilità del Comune ex art. 2043 c.c..
3.- Il ricorso è proposto con due motivi. L'intimato non si difende.
Con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione dell'art. 2043 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., in quanto i giudici d'appello avrebbero erroneamente ritenuto la configurabilità della responsabilità aquiliana circoscritta alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto, laddove invero i presupposti di tale responsabilità potrebbero individuarsi anche in diversi comportamenti colposi della parte convenuta. La ricorrente si duole inoltre di un'errata applicazione del regime probatorio disposto dall'art. 2043: tale norma avrebbe posto a carico della ricorrente soltanto l'onere di dimostrare l'anomalia del bene demaniale, quindi sarebbe spettato al Comune quello di dare prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, onere che nel caso di specie non sarebbe stato, a detta della ricorrente, affatto assolto dal Comune di Scilla. La R. contesta, infine, i fatti sulla cui base la Corte d'Appello ha escluso la responsabilità del Comune di Scilla, ovverosia la circostanza che la ricorrente risiedesse da tanti anni a Scilla e che, pertanto, non potesse non sapere che mesi prima la via marina era stata colpita dalla mareggiata.
Tale motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
3.1.- È infondato laddove afferma che onere del danneggiato sia di provare unicamente la pericolosità del bene in custodia del danneggiante, al quale poi spetterebbe fornire la prova liberatoria: tale regime probatorio è, infatti, tipico della responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c. per i danni cagionati dalle cose in custodia, e non, invece, della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., in base al quale spetta al danneggiato provare la condotta dolosa o colposa del danneggiante, il danno patito e il nesso causale intercorrente tra tale condotta e tale danno.
Sotto questo profilo il motivo si palesa manifestamente infondato.
Si rileva altresì che la ricorrente attribuisce alla sentenza di secondo grado un'affermazione in diritto, ovverosia quella per cui la responsabilità ex art. 2043 c.c. ricorrerebbe nelle sole ipotesi di insidia o trabocchetto, che la Corte d'Appello non ha mai enunciato.
I giudici di appello si sono, invero, limitati ad esaminare il fatto colposo attribuito dalla ricorrente al Comune di Scilla, ovvero l'omessa recinzione della zona dissestata, e hanno concluso che la prevedibilità soggettiva della presenza della buca escludesse nel caso di specie il nesso causale tra fatto colposo e danno.
La Corte territoriale, infatti, alla luce dell'istruttoria espletata e in particolare dell'escussione delle testi F.D. e M.L., le quali hanno concordemente riferito che la via era dissestata per via di una mareggiata avvenuta alcuni mesi prima e che vi erano diverse buche, ha ritenuto che l'attrice fosse consapevole dello stato di abbandono e di pericolo in cui si trovava il lungomare di Scilla e che, pertanto, fosse in grado di prevedere la presenza della buca in cui poi è inciampata.
Tale motivo presenta, pertanto, altresì un profilo di inammissibilità laddove sotto le vesti della denuncia del vizio di violazione di legge in realtà censura la valutazione delle prove svolta dai giudici di secondo grado: non vi è stata, infatti, una violazione dell'art. 2043 c.c., bensì un superamento fattuale della fattispecie prevista dall'articolo in questione.
4.- Con il secondo motivo, collegato al primo, la ricorrente denuncia insufficienza e contraddittorietà della motivazione, in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c., su un fatto decisivo della controversia: i giudici di appello avrebbero posto alla base della propria decisione il presupposto fattuale costituito dalle condizioni dissestate della strada, senza motivare congruamente tale circostanza sulla base delle prove acquisite, alla luce delle quali, ad avviso della ricorrente, si sarebbe dimostrato che la buca in questione era effettivamente isolata e che costituiva, pertanto, pericolo occulto. La ricorrente lamenta in particolare che la Corte d'Appello nel valutare i fatti di causa si sarebbe discostata dalle risultanze probatorie senza fornire di ciò adeguata e coerente giustificazione.
Il motivo è inammissibile poiché proposto in riferimento alla norma dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. non applicabile al caso di specie. Dal momento che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 16 gennaio 2013 si applica il testo dell'art. 360 n.5 cod. proc. civ., come sostituito dall'art.54, comma 1, lett. b), del d.l. n. 83 del 2012, convertito nella legge n. 134 del 2012, che consente esclusivamente la censura di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»; censura, diversa da quella proposta col motivo in esame. In conclusione, si propone che il ricorso sia
rigettato.».
La relazione è stata comunicata e notificata come per legge. Ritenuto in diritto.
A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, il Collegio ha condiviso i motivi in fatto ed in diritto esposti nella relazione. Conclusivamente, il ricorso va rigettato.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese poiché l'intimato non si è difeso.
Ai sensi dell'ari. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il giorno 19 maggio 2015, nella camera di consiglio della sesta sezione civile - 3 della Corte suprema di cassazione.
08-06-2015 22:39
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