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Sentenza

Tribunale di Trapani: esecuzione immobiliare durata 14 anni e 4 mesi, ma non spe...
Tribunale di Trapani: esecuzione immobiliare durata 14 anni e 4 mesi, ma non spetta nessun risarcimento ai sensi della Legge Pinto.
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano - Presidente -

Dott. PARZIALE Ippolisto - Consigliere -

Dott. MANNA Felice - rel. Consigliere -

Dott. D'ASCOLA Pasquale - Consigliere -

Dott. FALASCHI Milena - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8504/2014 proposto da:

P.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MIRANDOLA 20, presso lo studio dell'avvocato MARIO RANUCCI, rappresentata e difesa dall'avvocato PASSANANTE Maria Laura giusta mandato a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

- controricorrente -

avverso il decreto n. 2362/2013 della CORTE D'APPELLO di CALTANISSETTA del 18/02/2013, depositato il 16/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/10/2015 dal Consigliere Relatore Dott. FELICE MANNA.
Svolgimento del processo

Con atto del 17.11.2011 P.V. adiva la Corte d'appello di Caltanissetta per ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di un equo indennizzo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, per l'eccessiva durata di un processo di espropriazione immobiliare instaurato a suo carico innanzi al Tribunale di Trapani il 14.6.1997 e ancora pendente alla data di proposizione del ricorso.

Resisteva il Ministero.

Con Decreto 3 aprile 2014 la Corte adita rigettava la domanda.

Calcolata la durata complessiva del processo in quattordici anni e quattro mesi, la Corte attribuiva la durata irragionevole al ritardo del creditore procedente nel deposito della documentazione ipocatastale, alle difficoltà di notifica nei confronti della debitrice, che non si era costituita nè si era attivata per chiedere l'estinzione del pignoramento, e all'esito infruttuoso degli esperimenti di vendita. Quindi, defalcando dalla durata complessiva del processo presupposto i periodi sopra indicati, residuavano appena cinque anni e nove mesi, che non superavano il ragionevole arco di tempo di una procedura esecutiva immobiliare di media difficoltà come quella in oggetto.

Per la cassazione di tale decreto P.V. propone ricorso, affidato ad un unico motivo.

Il Ministero della Giustizia resiste con controricorso.
Motivi della decisione

1. - Con un unico, articolato motivo di ricorso è enunciata la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 3, artt. 6, 8 e 13 CEDU, artt. 1226 e 2056 c.c. e art. 567 c.p.c., in connessione con il vizio di "motivazione insufficiente, incongrua, illogica e contorta", in relazione, rispettivamente, nn. 3 e 5 dell'art. 360 c.p.c., n. 5.

La Corte territoriale, si sostiene, non ha considerato che: a) il processo esecutivo si svolge sotto la direzione del giudice dell'esecuzione; b) questi non si è attenuto all'art. 81 disp. att. c.p.c., in base al quale i rinvii d'udienza non devono superare i 15 gg.; c) non è stato riscontrato ex actis se i debitori esecutati abbiano ricevuto notifica (rectius, comunicazione) della fissazione dei termini e delle udienze; d) secondo Cass. n. 13857/08, il comportamento del debitore che non solleciti il giudice dell'esecuzione immobiliare a dichiarare estinta la procedura per il mancato deposito da parte del creditore procedente della documentazione prevista dall'art. 567 c.p.c., può essere ritenuto concausa del ritardo solo se detta inerzia gli sia addebitarle, ossia quando risulti ex actis che della fissazione di un termine e della sua inosservanza il debitore sia stato consapevole; e) le conservatorie dei registri immobiliari all'epoca dell'inizio dell'esecuzione erano in condizioni notoriamente disastrose, il che non consentiva alle parti di ottenere il tempestivo rilascio della documentazione ipocatastale; nè i debitori devono tenere comportamenti collaborativi in merito; f) in ogni caso la disciplina processuale, che affida al creditore procedente il potere d'iniziativa, non dispensa il giudice dall'obbligo di garantire il rispetto di quanto disposto dall'art. 6, par. 1 della Convenzione, esercitando i poteri di cui all'art. 175 c.p.c., comma 1, intesi al più sollecito e leale svolgimento del processo; g) il giudice dell'esecuzione ha impiegato un lungo lasso di tempo (quattro anni e tre mesi) per emettere l'ordinanza di vendita; h) alla procedura in oggetto si applica la L. n. 302 del 1998, che ha modificato l'art. 567 c.p.c., per cui rientrava nei poteri d'ufficio del giudice dell'esecuzione dichiarare l'estinzione del processo esecutivo; i) la durata della procedura doveva essere di tre anni, e non di tre anni e otto mesi, in difetto di esplicite ragioni di segno diverso; l) il giudice dell'esecuzione ha fissato con ritardo l'udienza di "prima comparizione" (rectius, di autorizzazione alla vendita).

Pertanto, conclude la parte ricorrente, la Corte territoriale è incorsa in una motivazione illogica, perchè se è comprensibile l'assunto secondo il quale la durata del processo deve essere oggetto di valutazione, in base alla complessità del caso, di contro non può mai giungersi a sterilizzare del tutto il dato temporale, addebitarle all'apparto giudiziario che avrebbe dovuto farvi fronte attivando ogni possibile rimedio per conformarsi alla giurisprudenza della Corte EDU. 2. - Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

2.1. - Inammissibile lì dove suppone come ancora esistente il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza, venuto meno in seguito alla modifica dell'art. 360 c.p.c., n. 5, apportata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, modifica applicabile al caso di specie essendo stata pubblicata l'ordinanza impugnata in data successiva all'11.9.2012 (data decorsa la quale diviene efficace il nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., n. 5). Ed essendo denunciarle soltanto l'omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ogni censura sull'insufficienza motivazionale resta preclusa (cfr. Cass. S.U. n. 8053/14).

2.2. - Il motivo è infondato, invece, per le ragioni seguenti, che assorbono l'esame d'ogni altra censura e che valgono quale correzione della motivazione svolta nel decreto impugnato, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., u.c..

Come osservato da Cass. n. 14382/15 (la cui motivazione vale riprodurre), "il debitore esecutato, sebbene sia parte (non già nel senso del diritto processuale interno, ma ai soli fini in questione) del processo esecutivo, non è necessariamente percosso dagli effetti negativi di un'esecuzione forzata di durata irragionevole, atteso che dall'esito finale di tale processo egli ritrae essenzialmente un (giusto) danno. E' dunque, deve aggiungersi, quella presunzione di danno non patrimoniale derivante dalla pendenza del processo, affermata in linea generale a partire dai noti arresti nn. 1338, 1339 e 1340/04 delle S.U. di questa Corte, ma negata dagli stessi precedenti con riguardo a situazioni specifiche (esemplificata, in particolare, quella del conduttore convenuto in giudizio per il rilascio dell'immobile locato), non può operare di regola quanto alla posizione del debitore esecutato. Il quale, pertanto, nell'ambito del procedimento di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001, ha l'onere di allegare non un generico ma uno specifico suo interesse ad un'espropriazione celere, e di dimostrarne l'effettiva esistenza, nel rispetto degli usuali oneri probatori gravanti sulla parte attrice (...). A tal fine non basta dedurre che il debitore abbia interesse ad una sollecita definizione della procedura esecutiva, sia al fine di evitare spese ulteriori ed aggravi di interessi legali o convenzionali sul debito capitale, sia per entrare in possesso della somma residuata dalla distribuzione. Nell'un caso come nell'altro, occorre allegare e dimostrare, altresì, che l'attivo pignorato, o comunque pignorabile in altra sede esecutiva, fosse ab origine tale da consentire il pagamento delle spese esecutive e da soddisfare tutti i creditori; e che a causa dell'irragionevole dilatazione dei tempi processuali spese ed interessi siano lievitati in maniera da azzerare o ridurre l'ipotizzabile residuo attivo ovvero la restante garanzia generica, altrimenti capiente. Specioso argomento sarebbe osservare che un tale pregiudizio avrebbe natura patrimoniale, non riferibile, dunque, alla problematica del patema d'animo indotto dalla pendenza del processo di esecuzione. In un processo dichiarativo lo stato d'ansia delle parti è alimentato dall'incertezza della decisione, per le conseguenze che ne possono derivare. E ove queste siano solo di natura economica, la sofferenza per l'attesa resta ciò non di meno di indole squisitamente morale. Esclusa l'incertezza sull'esito del processo di esecuzione, che nel suo svolgimento fisiologico non può avere altro esito se non l'attuazione del comando contenuto nel titolo esecutivo, il debitore esecutato in tanto può lamentare un danno morale per la protrazione irragionevole del processo - abbia conservato o non il possesso dei beni pignorati - in quanto esistesse in partenza la concreta chance di soddisfare integralmente i creditori. Infine, mancando nell'esecuzione individuale situazioni d'incapacità d'agire per il soggetto esecutato, questi non subisce di regola altre conseguenze da un processo di durata irragionevole".

2.2.1. - Nulla di tutto ciò è dedotto dalla parte odierna ricorrente. La sola generica enunciazione che la banca creditrice procedente avrebbe chiesto, in quella sede, il pagamento della somma ingiunta oltre alla capitalizzazione degli interessi (v. pag. 2 del ricorso), non dimostra nè implica alcunchè al riguardo, poichè non dimostra alcun nesso tra la durata irragionevole del processo esecutivo e un qualsivoglia danno collegato alla misura (esatta o errata che fosse) della pretesa creditoria.

3. - Il ricorso va dunque respinto.

4. - Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente.

5. - Rilevato che dagli atti il processo risulta esente dal pagamento del contributo unificato, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alle spese, che liquida in Euro 500,00 oltre spese prenotate e prenotande a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile - 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 22 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2016
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Avv. Antonino Sugamele

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