Protezione internazionale: sostiene di avere sognato Gesù e di essersi convertito al cristianesimo con conseguenti minacce dello zio musulmano che lo avrebbe perseguitato per tale atto di fede.
ORDINANZA sul ricorso n. 1957/19 proposto da: - ) Z.N. , dall'avvocato Giovanna Momina in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso; - ricorrente - contro -) Ministero dell'Interno; - intimato - avverso la sentenza della Corte d'appello di Milano 7 novembre 2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 31 gennaio 2020 dal Consigliere relatore dott. Marco Rossetti. rilevato che: N.Z. , cittadino del Burkina Faso, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui all'art. 4 d. Igs. 25.1.2008 n. 25: (a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, ex art. 7 e ss. d. Igs. 19.11.2007 n. 251; (b) in via subordinata, il riconoscimento della "protezione sussidiaria" di cui all'art. 14 d. Igs. 19.11.2007 n. 251; R.G.N. 1957/19 Adunanza camerale del 31 gennaio 2020 (c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ex art. 5, comma 6, d. Igs. 25.7.1998 n. 286 (nel testo applicabile ratione temporis); a fondamento dell'istanza il richiedente dedusse che, dopo aver sognato Gesù Cristo, aveva deciso di convertirsi al cristianesimo; che lo zio presso il quale abitava, di fede musulmana, cercò di dissuaderlo e gli intimò che, se avesse voluto convertirsi, avrebbe dovuto lasciare la sua casa; che amici cristiani a cui aveva raccontato il sogno gli consigliarono di lasciare il villaggio; che dal momento che l'unica persona che conosceva abitava in Libia, decise di trasferirsi in questo Paese, dal quale poi raggiunse l'Italia; avverso tale provvedimento N.Z. propose, ai sensi dell'art. 35 d. Igs. 28.1.2008 n. 25, ricorso dinanzi al Tribunale di Milano, che lo rigettò con sentenza 2.5.2016; tale sentenza, appellata dal soccombente, è stata confermata dalla Corte d'appello di Milano con sentenza del 7.11.2018; la Corte d'appello ritenne che il richiedente asilo non aveva "allegato e tantomeno dimostrato atti di persecuzione cui era stato sottoposto in ragione della sua conversione al cristianesimo"; che il ricorrente non aveva saputo fornire alcuna precisazione circa il riflesso sulle sue condizioni di vita della supposta radicalizzazione della contesa politica del Burkina Faso; che pertanto non era dimostrata l'esistenza di una persecuzione diretta e personale, ai sensi degli articoli 7, 8 o 14, lettera b, del decreto legislativo 251 del 2000; che la protezione sussidiaria non potesse essere accordata per la mancanza di una minaccia grave derivante dalla violenza indiscriminata; che la richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari andava rigettata perché in proposito "nulla è stato specificamente allegato, a parte l'indimostrata conversione al cristianesimo e l' asserita perdita di tutti i componenti della sua famiglia di origine"; con il primo motivo è stato impugnato il provvedimento della Corte d'appello è stato impugnato per cassazione da N.Z. o con ricorso fondato su quattro motivi; il ministero dell'interno non si è difeso; considerato che: col primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata "per omessa motivazione", formalmente invocando il vizio di cui all'articolo 360, n. 5, c.p.c. c.p.c.; sostiene che la sentenza sarebbe viziata perché il giudice di merito "ha tralasciato di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento", ed è comunque in contrasto con gli elementi raccolti nel corso dell'istruttoria compiuta in primo grado; nell'illustrazione del motivo si sostiene che la Corte d'appello non avrebbe tenuto conto del fatto che il ricorrente (il quale dinanzi alla commissione territoriale, pur dichiarando di essersi convertito al cristianesimo in seguito ad un sogno, nulla aveva saputo dire circa i principali riti della religione cristiana) nell'interrogatorio dinanzi al Tribunale aveva dimostrato di avere appreso la preghiera del 'Padre nostro' "nel corso di soli otto mesi"; che di conseguenza ha errato la Corte d'appello nel ritenere indimostrata la conversione al cristianesimo del ricorrente; il motivo è inammissibile; la Corte d'appello ha rigettato il gravame sul presupposto che il racconto del richiedente asilo non conteneva la descrizione di alcun atto persecutorio di cui il ricorrente fosse stato vittima e che fosse stato provocato dalla sua (dichiarata, ma non creduta dal giudice di merito) fede cristiana. La motivazione è chiarissima e niente affatto illogica, e la censura è totalmente eterodossa rispetto a questa ratio decidendi; anche col secondo motivo il ricorrente lamenta il "difetto e contraddittorietà della motivazione", ed anche in questo caso formalmente invocando il vizio di cui all'articolo 360, n. 5, c.p.c.; nella illustrazione del motivo si afferma che la motivazione con cui la Corte d'appello ha ritenuto che il ricorrente "non ha saputo precisare il riflesso sulle sue condizioni di vita della radicalizzazione della contesa politica del Burkina Faso"sarebbe "illogica ed ingiustificata"; il motivo è inammissibile; il passaggio in cui la Corte d'appello osserva: "il richiedente non ha saputo precisare nemmeno il riflesso sulle sue condizioni di vita della supposta radicalizzazione della contesa politica del Burkina Faso" non è una autonoma ratio decidendi, ma un argomento speso dalla Corte d'appello ad abundantiam; la principale ratio decidendi della sentenza resta il rilievo secondo cui il racconto del richiedente asilo non conteneva la denuncia di alcun atto persecutorio subito nel proprio paese; col terzo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha negato la concessione dello status di rifugiato ai sensi degli artt. 7 e 14 del decreto legislativo 251 del 2007; il motivo contiene più censure così riassumibili: a) la Corte d'appello non ha accertato quale fosse la effettiva situazione delle minoranze religiose in Costa d'Avorio; b) la Corte d'appello non ha considerato che egli non poté offrire prove concrete di atti di persecuzione in quanto la propria conversione è avvenuta dopo aver lasciato il paese d'origine a seguito degli scontri sociali "avvenuti successivamente alle note elezioni politiche del 2010- 2011"; c) la Corte d'appello avrebbe dovuto esaminare e tenere in considerazione le affermazioni effettuate dal richiedente asilo circa le minacce di morte ricevute da parte dello zio musulmano; d) la Corte d'appello ha trascurato di accertare d'ufficio, indicando le fonti, la effettiva sussistenza di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato "in Costa d'Avorio"; con riferimento al diniego della concessione dello status di rifugiato, nonché al diniego della protezione sussidiaria per l'ipotesi di cui alle lettere a) e b) dell'articolo 14 del decreto legislativo 251 del 2007, il motivo è inammissibile; la sentenza impugnata, infatti, si fonda sull'assunto che nel racconto del richiedente asilo non era descritto né lamentato alcun atto di persecuzione per motivi religiosi; il ricorrente trascrive il proprio racconto, compiuto dinanzi la commissione territoriale, alle pagine 2 e 3 del ricorso, ed in tale racconto effettivamente non compare alcuna denuncia di atti persecutòri; soltanto dinanzi al tribunale il ricorrente dichiarò di essere stato minacciato di morte dallo zio, ma questa circostanza ovviamente costituisce una questione prettamente privata, e non un atto persecutorio, sicché rispetto ad essa non era concepibile alcun approfondimento istruttorio officioso; per quanto riguarda il rigetto della domanda di concessione della protezione sussidiaria per le ragioni di cui alla lettera c) dell'articolo 14 del decreto legislativo 251 del 2007, il motivo è inammissibile per due indipendenti ragioni; in primo luogo è inammissibile in quanto è il ricorrente stesso a dichiarare di essere "cittadino del Burkina Faso" (così il ricorso, pag. 1, quinto rigo), sicché non si vede quale interesse possa avere il ricorrente a dolersi del mancato esame, da parte della Corte d'appello, della situazione socioeconomica della Costa d'Avorio, Paese verso il quale non potrebbe essere respinto; in secondo luogo il motivo è inammissibile ex art. 366 nn. 3 e 6 c.p.c. in quanto il ricorrente non deduce mai, in nessun punto del ricorso, in quale atto ed in quali termini abbia invocato nel giudizio di primo grado la concessione della protezione sussidiaria per l'ipotesi di cui alla lettera c) dell'articolo 14 del decreto legislativo 251 del 2007; col quarto motivo il ricorrente impugna il rigetto della domanda di concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari; sostiene che la Corte d'appello non avrebbe considerato, quale fattore di vulnerabilità, la circostanza che nel paese in cui il richiedente asilo era nato (la Costa d'Avorio) egli non aveva più alcuna famiglia, mentre nel paese in cui si era trasferito (il Burkina Faso) egli aveva solo uno zio che lo aveva scacciato di casa quando decise di convertirsi al cristianesimo; tali circostanze, unitamente alla "radicalizzazione islamica" della Costa d'Avorio, secondo il ricorrente, sarebbero idonee a giustificare la concessione della protezione umanitaria; il motivo è infondato, dal momento che: a) le circostanze di fatto poste a fondamento della domanda di protezione umanitaria sono rimaste del tutto indimostrate; b) il richiedente asilo è giovane, sano ed abile al lavoro, e la semplice circostanza della mancanza di parenti non costituisce di per sé un fattore di vulnerabilità, sicché corretta appare la decisione con cui il giudice di merito ha ritenuto di non ravvisare nel caso di specie alcuna situazione di "fragilità" giustificatrice del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari; non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio della parte intimata; il rigetto del ricorso comporta l'obbligo del pagamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228), a condizione che esso sia dovuto: condizione che non spetta a questa Corte stabilire. La suddetta norma, infatti, impone all'organo giudicante il compito unicamente di rilevare dal punto di vista oggettivo che l'impugnazione ha avuto un esito infruttuoso per chi l'ha proposta; incidenter tantum, rileva nondimeno questa Corte che, ai sensi dell'art. 11 d.p.r. 30.5.2012 n. 115, il contributo unificato è prenotato a debito nei confronti della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato; P.q.m. (-) dichiara inammissibile il ricorso; (-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dall'art. 13, comma 1 quater, d.p.r. 30.5.2002 n. 115, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte di cassazione, addì 31 gennaio 2020.
06-04-2020 23:14
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