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Sentenza

Zorro contro l'acqua Brio Blu. Pacifica per la Cassazione la tutelabilità de...
Zorro contro l'acqua Brio Blu. Pacifica per la Cassazione la tutelabilità del personaggio di fantasia.
Cass. civ., sez. I, ord., 30 dicembre 2022, n. 38165

Presidente Genovese- Relatore Falabella

Fatti di causa

1. - Con atto di citazione notificato il 31 ottobre 2007 la società statunitense Zorro Productions Inc. ha evocato in giudizio CO.GE.DI. International - Compagnia Generale Distribuzione s.p.a. deducendo di essere titolare del diritto di sfruttamento economico del personaggio di Zorro nonché dei marchi denominativi e figurativi incentrati sulla detta figura letteraria, creata nel 1919 dallo scrittore M.J.; ha lamentato che la convenuta avesse commissionato una campagna televisiva e radiofonica in cui il personaggio in questione pubblicizzava l'acqua minerale Brio Blu, così violando i richiamati diritti di proprietà intellettuale facenti capo ad essa attrice. Ha quindi domandato giudizialmente di dichiarare la propria titolarità sia del diritto d'autore sul nome e sul personaggio di Zorro, sia dei marchi che aveva provveduto a registrare, e che riguardavano il detto personaggio; ha chiesto di dichiarare l'intervenuta violazione dei diritti in questione, nonché di accertare la confondibilità e la capacità di sviamento e di induzione in errore dello spot pubblicitario in danno di essa istante e di dichiarare illegittimo l'uso, da parte di CO.GE.DI., del nome e del marchio Zorro, nonché l'illiceità dei benefici dalla stessa convenuta conseguiti con lo sfruttamento posto in essere con riferimento ad un nome e ad un marchio di particolare fama e rinomanza; ha domandato, in via subordinata, di dichiarare l'intervenuta violazione, da parte della convenuta, delle regole concorrenziali attraverso l'appropriazione di pregi, o attraverso le altre condotte contemplate dall'art. 2598 c.c.; ha chiesto, per l'effetto, di condannarsi la società convenuta al risarcimento del danno, da quantificare nella somma di Euro 200.000,00, salvo altra, e di ordinare l'immediata cessazione della messa in onda dello spot pubblicitario, nonché di ordinare la pubblicazione su tre quotidiani a diffusione nazionale di un messaggio riparatore.

Nel costituirsi in giudizio CO.GE.DI. ha proposto domanda riconvenzionale onde sentir dichiarare cadute in pubblico dominio tutte le opere create prima del 1951 dallo scrittore M.J. e decaduti per non uso, limitatamente alle bevande analcoliche, i marchi azionati da controparte.

Il Tribunale di Roma ha pronunciato sentenza non definitiva con cui ha dichiarato che la convenuta aveva violato i diritti di privativa fatti valere tramite la diffusione, nell'anno 2007, per televisione e in via radiofonica, della campagna pubblicitaria dell'acqua minerale Brio Blu.

2. - La pronuncia è stata impugnata sia da CO.GE.DI., in via principale, che da Zorro Productions, in via incidentale.

La Corte di appello di Roma ha riformato la pronuncia di primo grado e ha respinto tutte le domande attrici in base al rilievo, ritenuto assorbente rispetto ad ogni altra questione dibattuta fra le parti, della caduta in pubblico dominio del personaggio di Zorro.

3. - Proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, questa Corte, con sentenza n. 32 del 3 gennaio 2017, ha annullato la pronuncia impugnata escludendo la detta caduta in pubblico dominio dei diritti di sfruttamento vantati da Zorro Productions: ha rilevato, infatti, che in forza della Convenzione di Ginevra del 1952 le opere di cittadini statunitensi pubblicate in Italia godono della medesima protezione prevista dall'art. 25 dalla nostra L. n. 633 del 1941, e cioè fino al settantesimo anno solare dalla morte dell'autore. La stessa Corte di legittimità ha poi riconosciuto fondato il motivo di ricorso con cui era stata lamentata l'omessa statuizione sulle domande volte all'accertamento della violazione di diritti di esclusiva sui marchi riferibili al personaggio di Zorro.

4. - Il giudizio è stato riassunto avanti alla Corte di Roma che ha pronunciato in data 24 novembre 2018 sentenza con cui, in sintesi, e per quanto qui ancora rileva, è stato affermato: che la sola utilizzazione di un personaggio di fantasia, notoriamente collegato ad opere letterarie ed artistiche di cui altri detenga i diritti di privativa, ben può integrare una violazione dei diritti d'autore, in presenza di una imitazione servile; che detta imitazione non può essere considerata lecita in ragione del fatto che lo spot pubblicitario sia consistito in una semplice parodia del personaggio di Zorro; che infatti, per un verso, non aveva trovato attuazione del nostro ordinamento la previsione di cui all'art. 5, comma 3, dir. 2001/29/CE che ha espressamente riservato agli Stati membri la facoltà di prevedere, quale eccezione al diritto di riproduzione e di comunicazione al pubblico, l'utilizzo a scopo di caricatura, parodia o pastiche; che, per altro verso, nella fattispecie non si era in presenza dell'elaborazione di un'opera originale che presentasse un riconoscibile apporto creativo teso a promuovere nuove idee o nuovi messaggi dell'autore verso il pubblico; che era stata acquisita una prova convincente dell'esistenza di una catena ininterrotta di cessioni del diritto di autore fino a Zorro Productions; che andava esclusa la contraffazione dei marchi, posto che il riferimento al personaggio di fantasia Zorro, nell'intervista con l'anonimo suo ammiratore, risultava operato in un contesto narrativo, senza che venisse in rilievo "alcun intento distintivo"; che non era nemmeno ipotizzabile una concorrenza sleale sotto i diversi profili della confusione, dell'appropriazione dei pregi e della violazione della correttezza professionale, "non essendo oggettivamente rilevabile nello spot, in ragione dei suoi contenuti e delle espressioni utilizzate, né un'opera di appropriazione dell'attività di valorizzazione del personaggio effettuata nel tempo dalla Zorro Productions, né un'inescusabile condotta volta a danneggiare quest'ultima"; che la prova dell'eccepita decadenza dei marchi incombeva a CO.GE.DI., la quale non l'aveva fornita e che, essendo Zorro Productions una società di servizi che concede a terzi per scopi promozionali l'uso dei propri marchi attraverso licenze d'uso, era impossibile ipotizzare decadenze parziali dei marchi in questione; che, comunque, in relazione all'ambito delle bevande analcoliche, la detta società aveva prodotto un'apposita licenza con cui, in data 12 maggio 1994, aveva concesso alla Coca Cola l'uso del proprio marchio per pubblicizzare i prodotti della detta casa; che, stante l'acclarata violazione del diritto d'autore di cui era titolare Zorro Productions, poteva essere accolta la richiesta avente ad oggetto la pubblicazione del messaggio riparatore, secondo quanto domandato con la citazione originaria.

3. - Ricorre per cassazione, con cinque mezzi di censura, CO.GE.DI.. Resiste con controricorso Zorro Productions, la quale a sua volta propone, in via incidentale, quattro motivi di impugnazione. Il Pubblico Ministero ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi. Sono state depositate memorie.

Ragioni della decisione

1. - I motivi delle due impugnazioni si riassumono come segue.

1.1. - Col primo motivo del ricorso principale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 21 e 3 Cost., della L. n. 633 del 1941, art. 4 e dell'art. 5, comma 3, lett. k), dir. 2001/29/CE. Rileva la ricorrente principale che l'eccezione parodistica è già parte integrante del diritto italiano, stante un orientamento giurisprudenziale così consolidato da aver reso inutile l'introduzione di una disposizione espressa all'interno della L. n. 633 del 1941. Viene osservato che la parodia non è menzionata tra le fattispecie di elaborazioni creative e non è assimilabile a queste neppure in via analogica, e ciò per la differente relazione, di totale contrapposizione, che la lega all'opera parodiata. In tal senso, secondo CO.GE.DI., avrebbe errato il Giudice di appello a ritenere che la parodia, che è strutturalmente una imitazione, richieda una elaborazione creativa dell'opera originale. Si rileva, inoltre, come la formulazione dell'art. 5, comma 3, lett. k), dir. 2001/29/CE non consenta di ritenere che la liceità della parodia sia subordinata all'assenza di finalità promozionali e di lucro. Si sollecita, in via subordinata, il Collegio a valutare l'opportunità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia quanto all'interpretazione del cit. art. 5, lett. k).

Il secondo motivo dell'impugnazione di CO.GE.DI. denuncia la violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia e, in via gradata, la violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell'art. 111 Cost., comma 6, per omessa motivazione. Si deduce che contrariamente a quanto sostenuto da Zorro Productions, Zorro non è un personaggio nato dalla fantasia di M.J., ma un uomo realmente vissuto nel Messico del XVII secolo e già oggetto di narrazione letteraria. La Corte di merito, pur dando atto di questa eccezione dell'odierna ricorrente principale, avrebbe omesso di pronunciarsi sul punto e mancato, comunque, di argomentare alcunché con riguardo alla suddetta questione.

Il terzo mezzo del ricorso principale oppone la violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell'art. 111 Cost., comma 6, e in via gradata l'omesso esame di fatto controverso decisivo per il giudizio. Il motivo investe la questione relativa all'acquisizione della titolarità dei diritti in capo a controparte. Si lamenta che la sentenza impugnata, sul punto, non risulti corredata da motivazione, avendo la Corte di appello ricalcato pedissequamente la ricostruzione operata da Zorro Productions e dal Giudice di primo grado. Si deduce, inoltre, che la Corte distrettuale avrebbe posto a fondamento della decisione degli scritti inesistenti, o quantomeno non decisivi: un documento illeggibile e un documento privo di sottoscrizioni e di ulteriori indicazioni circa la sua provenienza.

Col quarto motivo la sentenza impugnata è censurata da CO.GE.DI. per violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell'art. 111 Cost., comma 6, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 20 del 2005, artt. 24, 26 e 121, degli artt. 2697 e 2729 c.c., dell'art. 116c.p.c., nonché dell'art. 50, comma 1, lett. a), reg. (CE) 94/40, ora art. 58, comma 1, lett. a), reg. (UE) 2017/1001. E' spiegato che CO.GE.DI. aveva proposto, nel giudizio di primo grado, e riproposto in sede di gravame, una domanda riconvenzionale di nullità relativamente a due marchi - uno internazionale, l'altro comunitario - che dovevano ritenersi decaduti per non uso relativamente alle bevande analcoliche. Si lamenta che la sentenza impugnata, con riferimento alla questione sottoposta alla Corte di appello, esibisca una motivazione apparente: l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata quanto alla prova della decadenza non lascerebbe infatti comprendere la ratio decidendi del provvedimento impugnato. Si rileva, inoltre, che la Corte di merito avrebbe erroneamente ritenuto che l'onere della prova della decadenza del marchio ricadesse sulla ricorrente. Si deduce, altresì, l'errore contenuto nella pronuncia consistente nell'aver attribuito rilievo a un contratto del 1994 il quale risultava privo di sottoscrizione e la cui regolamentazione non si estendeva, comunque, agli anni successivi.

Col quinto motivo la ricorrente principale lamenta la violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell'art. 111 Cost., comma 6. Il Giudice del gravame, a suo avviso, avrebbe applicato la sanzione della pubblicazione in via automatica, in ragione della semplice accertata violazione del diritto d'autore, senza spendersi in una motivazione che evidenziasse l'opportunità della determinazione assunta.

1.2. - Quanto al ricorso incidentale, il primo motivo prospetta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 30 del 2005, artt. 12 e 20, art. 9 reg. (CE) 207/2009, 5 dir. 2008/95/CE e la nullità della sentenza per motivazione apparente o illogica. Si rileva che la contraffazione del marchio d'impresa non è condizionata al fatto che il marchio sia utilizzato per contrassegnare fisicamente il prodotto materiale, essendo ben sufficiente che se ne faccia un uso di tipo narrativo idoneo ad agganciare i pregi del marchio altrui ai propri prodotti. Viene osservato che negli spot pubblicitari della controparte poteva ravvisarsi l'indebito vantaggio per agganciamento parassitario ai marchi di Zorro Productions e ai valori da questi evocati.

Il secondo motivo di ricorso incidentale oppone l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e la nullità della sentenza o del procedimento per omissione di motivazione in relazione agli artt. 112 e 132 c.p.c. e dell'art. 118 disp. att. c.p.c.. Deduce l'istante che la Corte di appello avrebbe omesso ogni richiamo, sia in motivazione che in dispositivo, alla questione relativa alla notorietà dei propri marchi: questione fatta valere nel corso dell'intero giudizio.

Col terzo mezzo del detto ricorso si denuncia la violazione o falsa applicazione dell'art. 2598 c.c., la nullità della sentenza o del procedimento per omissione di motivazione, in relazione agli artt. 112 e 132 c.p.c. e dell'art. 118 disp. att. c.p.c., e l'omesso esame di fatto decisivo. Con riferimento al tema della concorrenza sleale la ricorrente per incidente lamenta sia mancata la statuizione sulle fattispecie da essa dedotte, come pure sul problema del cumulo della tutela di cui all'art. 2598 c.c. con quella in tema di marchi; assume che nella circostanza ricorrerebbe sia l'uso di segni idonei a creare confusione, sia l'appropriazione di pregi altrui, visto che lo spot pubblicitario faceva riferimento all'"equilibrio" del personaggio Zorro, cui veniva accostato l'"equilibrio" della "frizzantezza" dell'acqua Brio Blu, sia infine la fattispecie di cui all'art. 2598 c.c., n. 3 stante la cosciente volontà di sfruttare la notorietà dei segni ed i diritti altrui per affermare presunti pregi del proprio prodotto. La motivazione della sentenza impugnata risulterebbe inoltre manifestamente contraddittoria, negando l'appropriazione dei pregi altrui pur riconoscendo l'imitazione servile del personaggio di fantasia Zorro.

Il quarto motivo di impugnazione incidentale oppone la violazione o falsa applicazione dell'art. 92 c.p.c., nonché l'errore motivazionale. Si lamenta che la sentenza impugnata non abbia fatto corretta applicazione dei principi di soccombenza reciproca e sostanziale, giacché una delle tre domande proposte da Zorro Productions era stata accolta, mentre tutte le domande di CO.GE.DI. erano state respinte.

2. - I primi due motivi del ricorso principale hanno ad oggetto la tutelabilità del personaggio Zorro (il secondo) e la legittimità dello spot pubblicitario avendo riguardo all'invocata eccezione di parodia (il primo).

2.1.- E' anzitutto da escludere che le due questioni siano coperte da giudicato interno.

Eccezioni in tal senso sono state proposte da Zorro Productions e dal Pubblico Ministero.

Con riguardo al primo motivo, la controricorrente ha opposto che la prima sentenza di appello avrebbe accertato l'illegittimo sfruttamento della notorietà del personaggio di Zorro da parte di CO.GE.DI. "per agganciare l'attenzione del pubblico e poi indirizzarla verso il prodotto da pubblicizzare": tanto escluderebbe, secondo Zorro Productions, che possa farsi questione di una liceità dello spot determinata dalla connotazione parodistica dello sfruttamento del personaggio.

In realtà, è la stessa decisione della Corte di appello del 19 novembre 2012 a dar conto del fatto che il tema in questione risultava essere estraneo al decisum. Nell'esordio della motivazione di detta pronuncia è spiegato, infatti, che l'accoglimento della censura vertente sulla caduta in pubblico dominio del personaggio letterario "assorbe ogni altra questione": sicché è mancata alcuna statuizione sul punto che qui interessa.

Non ricorre, quindi, una ipotesi di giudicato interno - il quale si forma anche sui capi della sentenza che siano stati oggetto di decisione implicita, ove la stessa non sia stata impugnata - quanto un caso di assorbimento c.d. improprio: figura che ricorre allorché una domanda viene rigettata in base alla soluzione di una questione di carattere esaustivo, che rende vano esaminare le altre, e in presenza della quale non si delinea, in capo al soccombente, l'onere di formulare sulla questione assorbita un motivo di impugnazione (così Cass. 9 ottobre 2012, n. 17219; cfr. pure: Cass. 4 gennaio 2022, n. 48; Cass. 12 luglio 2016, n. 14190).

Zorro Productions e il Pubblico Ministero hanno poi eccepito che nella sentenza del 2012 la Corte di merito avrebbe espressamente affermato che Zorro è una creatura letteraria di M.J., onde esso si differenzierebbe dal personaggio storico realmente esistito.

Vale sul punto quanto sopra osservato in ordine al portato della decisione della prima sentenza di appello, con cui la Corte di Roma ha statuito sulla sola caduta in pubblico dominio del personaggio di Zorro: la Corte non ha inteso quindi prendere posizione nemmeno sul punto - che la ricorrente rammenta essere stata oggetto di autonomo motivo di gravame: pag. 9 della memoria - dell'effettiva configurabilità del diritto di autore vantato da Zorro Pruductions.

2.2. - Ciò posto, è anzitutto pacifica, in dottrina come in giurisprudenza, la tutelabilità del personaggio di fantasia: tutelabilità che è indipendente dalla protezione accordata all'opera (quale quella letteraria, teatrale, cinematografica, televisiva, radiofonica, musicale, ma anche fumettistica o del videogioco) in cui il personaggio stesso si colloca. Basterà ricordare, in proposto, il risalente arresto di questa Corte che pone i personaggi di Walt Disney, realizzati originariamente nel campo dei disegni, tra le creazioni intellettive dotate di caratteristiche figurative e normative che li rendono riconoscibili come creazioni tipiche: ciò che è stato ritenuto sufficiente perché esse siano protette come tali nelle varie forme di utilizzazione economica rese possibili dalla riproduzione in qualunque modalità figurativa contro ogni atto che, per via di identità o affinità espressiva, e avuto riguardo all'ordinaria capacita critica del pubblico, realizzi una ripetizione dell'idea dell'autore (Cass. 20 febbraio 1978, n. 810).

Col secondo mezzo la ricorrente denuncia, come si è visto, un vizio di omessa pronuncia e di omessa motivazione con riguardo alla propria deduzione difensiva, basata sulla preesistenza, alla figura letteraria dello Zorro creato da M.J., di un uomo realmente vissuto tre secoli prima e che sarebbe stato già oggetto di narrazione letteraria.

E' facile però osservare - come del resto avvertito dalla stessa CO.GE.DI. (pag. 22 del ricorso) - che la Corte di appello ha riconosciuto, la titolarità, in capo all'odierna controricorrente e ricorrente incidentale, del "diritto d'autore sul personaggio di fantasia 'Zorrò" (pag. 13 della sentenza impugnata), con ciò disattendendo l'eccezione in questione. Merita qui ricordare che il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d'appello è configurabile allorché manchi completamente l'esame di una censura mossa al giudice di primo grado (Cass. 14 gennaio 2015, n. 452; Cass. 25 settembre 2012, n. 16254; Cass. 17 luglio 2007, n. 15882; Cass. 19 maggio 2006, n. 11756). Nel caso in esame non può nemmeno sostenersi che la richiamata statuizione sia carente di motivazione, giacché la Corte di appello, nel rilevare l'"imitazione servile del personaggio di fantasia Zorro", ha conferito valore ad alcuni elementi letterari (il cappello nero con falda, la mascherina nera e il segno della "Z" tracciato con la lama della spada), con ciò facendo comprendere che l'asserito plagio era riferito proprio al protagonista delle opere di M.J.: il che significa che, secondo la Corte di merito, nella presente controversia veniva in questione non altri che tale personaggio di fantasia.

2.3. - La sentenza impugnata non appare invece condivisibile nello svolgimento argomentativo e nelle conclusioni cui perviene a proposito della parodia del nominato personaggio.

La parodia di un'opera altro non è che una rielaborazione attuata attraverso una imitazione caricaturale attuata con finalità satiriche, umoristiche, comunque critiche; tale può considerarsi anche la parodia di un personaggio della fantasia. Il connotato proprio della parodia riposa nell'assunzione, quale fondamentale suo riferimento, di un'opera o di un personaggio originali, da cui poi ci si discosta allo scopo di trasmettere un messaggio diverso da quello avuto di mira dall'autore dell'opera o del personaggio in questione. Evidente e', pertanto, la differenza tra chi attua un'attività di mera riproduzione - nelle diverse forme del mero plagio, quale pedissequa imitazione, e della contraffazione, quale copiatura attuata con differenze di semplice dettaglio - e chi, con la parodia, reinterpreta l'opera o il personaggio e ne declina altrimenti il senso, veicolando, in tal modo, un messaggio nuovo. La parodia è quindi opera dell'ingegno autonoma rispetto all'originale, ponendosi essa in antinomia con quanto oggetto del travestimento.

E', questa, una connotazione che inerisce a un'accezione condivisa del genere "parodia": a un significato del termine, nella sua declinazione giuridica, che appartiene alla nostra tradizione dottrinale, la quale ha individuato, fin dagli inizi del secolo scorso, l'elemento caratterizzante dell'opera parodistica nell'"infusione di una nuova diversa vitalità dell'opera imitata, anche senza molte e grandi variazioni di forma" e conferito così rilievo al "diverso spirito animatore della nuova opera", il cui valore creativo non è pregiudicato dall'identità o quasi identità delle forme espressive riconducibili, rispettivamente, alla parodia e all'opera parodiata. Di qui la differenza tra contraffazione e parodia, magistralmente scolpita in queste poche parole: "o si tratta di riproduzione più o meno larvata dell'opera seria nella stessa serietà di tratti caratteristici, e si ha contraffazione più o meno volgare; o vi è una qualsiasi surrogazione del comico al tragico nella sostanza dell'opera primitiva, e si è in presenza di una parodia". Ed è proprio in questa chiave che debbono leggersi gli arresti della nostra giurisprudenza di merito, che ha qualificato come parodia interventi, muniti di una qualche creatività, che, senza discostarsi dalla forma espressiva dell'originale, si sono rivelati capaci di stravolgere il significato di quest'ultimo: come nel caso della sostituzione di parole o lettere dei passi estratti dall'opera di riferimento, del mutamento degli elementi sintattici di un testo letterario, della derisoria interpretazione di un brano musicale.

Per realizzare tale risultato l'autore della parodia deve necessariamente accostare l'utente all'originale e reimpiegarne i contenuti. Come è stato ben sottolineato dalla giurisprudenza di merito, la parodia "implica un ineliminabile carattere di parassitismo rispetto all'opera parodiata, nel senso che essa trova fondamento proprio nella preesistenza di un'opera di riferimento cui operare ripetuti rimandi in chiave deformante".

Si pone, allora, il problema della legittimità della trasformazione dell'opera, o del personaggio, a fini parodistici, giacché tale intervento potrebbe porsi in conflitto coi diritti esclusivi che competono all'autore dell'opera e ai suoi aventi causa.

2.4. - La parodia non può essere ricondotta nella categoria delle elaborazioni creative di cui alla L. n. 633 del 1941, art. 4 in quanto non si pone in una relazione di "continuità" con l'originale (come accade, ad esempio, nel caso della traduzione linguistica, nell'ipotesi dell'adattamento attraverso cui un'opera è trasposta in una forma espressiva diversa, o ancora nel caso della realizzazione dell'edizione critica di un testo letterario), ma integra, come è stato incisivamente osservato, un vero e proprio "rovesciamento concettuale" della creazione cui intende riferirsi. Assimilare la parodia all'elaborazione creativa significherebbe, oltretutto, subordinare l'esercizio dei diritti di utilizzazione economica dell'opera parodistica al consenso dell'autore dell'opera parodiata, il quale, a mente dell'art. 18, comma 2, è titolare di un diritto esclusivo che comprende tutte le forme di modificazione, elaborazione e trasformazione dell'opera previste dal cit. art. 4: e ciò, come è stato sottolineato in dottrina e in giurisprudenza, porrebbe a rischio la sopravvivenza stessa del genere, essendo poco verosimile che l'autore di un'opera seria acconsenta al travisamento comico di questa. In quest'ultima prospettiva è anzi da sottolineare come la conclusione esposta mal si concili col diritto alla libera manifestazione del pensiero di cui all'art. 21 Cost., oltre che col diritto di creazione artistica di cui all'art. 33 Cost..

Per definire la questione che qui interessa occorre piuttosto guardare alla parodia proprio come manifestazione del pensiero.

La L. n. 633 del 1941, art. 70, comma 1, consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico, se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera. Ora, il diritto di critica e di discussione può essere speso con diverse modalità, tra cui è ricompreso il registro ironico, utilizzato nella satira, e quello comico e burlesco, impiegato nella parodia, ove, attraverso l'uso della provocazione grottesca, si ridicolizzano elementi caratterizzanti di un'opera: attività, questa, che può lecitamente compiersi anche con riferimento a un personaggio di fantasia, di cui si deridano aspetti che lo contraddistinguono, come le fattezze fisiche, le qualità, gli atteggiamenti, con chiaro intento di rovesciare comuni stereotipi associati a quella identità letteraria o artistica. Può osservarsi, infatti, che la citazione dell'opera, di cui è parola nel cit. art. 70, comma 1, è anche quella costruita intorno a un personaggio dell'opera stessa (il quale è in sé è suscettibile di tutela, come si è visto): e il mascheramento dell'eroe in pagliaccio - per venire alla fattispecie che qui viene in esame - è una delle forme più comuni di parodia del personaggio.

La liceità della parodia dell'opera o del personaggio creati da altri trova quindi il proprio fondamento nell'utilizzazione libera di cui alla L. n. 633 del 1942, cit. art. 70, comma 1.

Non contraddice tale ricostruzione l'art. 5, comma 3, dir. 2001/29/CE (sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione), che accorda agli Stati membri la facoltà di disporre eccezioni o limitazioni ai diritti di riproduzione e di comunicazione di opere al pubblico, di cui rispettivamente agli artt. 2 e 3 della direttiva stessa anche nel caso, previsto dalla lett. k) del predetto articolo, quando "l'utilizzo avvenga a scopo di caricatura, parodia o pastiche". Se è vero che non esiste, tra le norme nazionali che regolamentano le utilizzazioni libere atte a circoscrivere il diritto esclusivo dell'autore, una disposizione che puntualmente recepisca espressamente l'ipotesi di cui alla lett. k) cit. - e che quindi espressamente faccia rientrare l'utilizzo dell'opera tra le eccezioni e le limitazioni ai suddetti diritti di riproduzione e comunicazione -, è altrettanto vero che l'assenza di un intervento normativo nel senso indicato è da ascrivere al fatto che l'art. 70 già ricomprende l'eccezione di parodia, intesa come espressione del dritto di critica e discussione dell'opera protetta.

2.5. - Anche il diritto armonizzato fornisce indicazioni quanto ai confini dell'espressione parodistica.

La Corte di giustizia si è soffermata sulla previsione del cit. art. 5, comma 3, lett. k), chiarendo che la nozione di parodia costituisce una nozione autonoma del diritto dell'Unione: conclusione, questa, che - è stato precisato - non è inficiata dal carattere facoltativo dell'eccezione di parodia, giacché un'interpretazione secondo cui gli Stati membri che abbiano introdotto tale eccezione sarebbero liberi di precisarne i parametri in modo non armonizzato, con possibili variazioni da uno Stato membro all'altro, sarebbe contraria all'obiettivo di detta direttiva (così Corte giust. UE 3 settembre 2014, C-201/13, Johan Deckmyn e Vrijheidsfonds, 15 e 16, ove il richiamo a Corte giust. CE 21 ottobre 2010, C- 467/08, Padawan, 32 e 33). Si è così chiarito che l'art. 5, comma 3, lett. k), deve essere interpretato nel senso che la parodia ha come caratteristiche essenziali, da un lato, quella di evocare un'opera esistente, pur presentando percettibili differenze rispetto a quest'ultima, e, dall'altro, quella di costituire un atto umoristico o canzonatorio; ha spiegato la Corte che la nozione di parodia, ai sensi di detta disposizione, non è soggetta a condizioni in base alle quali la parodia dovrebbe mostrare un proprio carattere originale, diverso dalla presenza di percettibili differenze rispetto all'opera originale parodiata, dovrebbe poter essere ragionevolmente attribuita ad una persona diversa dall'autore stesso dell'opera originale e dovrebbe essere incentrata proprio sull'opera originale o dovrebbe indicare la fonte dell'opera parodiata (Corte giust. UE, C-201/13, cit., 33).

L'applicazione, in una situazione concreta, dell'eccezione per parodia, ai sensi della richiamata disposizione, deve poi rispettare - secondo la Corte - il giusto equilibrio tra gli interessi e i diritti delle persone indicate agli artt. 2 e 3 della ricordata direttiva (vale a dire coloro che sono titolari dei diritti di riproduzione e di comunicazione al pubblico dell'opera) e la libertà di espressione dell'utente di un'opera protetta, il quale si avvalga dell'eccezione per parodia (Corte giust. UE, C-201/13, cit., 34). Tali criteri sono evidentemente applicabili mutatis mutandis all'ipotesi, che qui ricorre, della parodia del personaggio di fantasia.

Tale e', dunque, il limite cui soggiace lo sfruttamento parodistico dell'opera o del personaggio altrui in base al diritto unionale.

2.6. - Parrebbe porsi, al riguardo, un problema di coordinamento tra tale limite e quelli fissati dalla L. n. 633 del 1942, art. 70, comma 1: norma che, nel modulare l'utilizzazione libera per uso di critica (cui, si è detto, può essere ricondotta la parodia) prescrive che il riassunto, la citazione e la riproduzione di brani dell'opera protetta sia contenuta nei limiti giustificati da detta finalità e non debba dar vita a una concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera stessa: elemento, quest'ultimo, che è evidentemente ben diverso dal semplice fine di lucro - indebitamente valorizzato dalla Corte di appello - che l'autore della parodia può di volta in volta collateralmente perseguire.

A ben vedere, però, queste condizioni si prestano ad essere lette nella prospettiva segnata dall'esigenza di preservare l'equilibrio di cui si è detto. Sia la strumentalità dell'opera rispetto al fine (che e', qui, quello parodistico), sia l'assenza del rapporto concorrenziale con l'opera protetta rispondono infatti alle necessità proprie del richiamato bilanciamento, giacché una soluzione espressiva che trasmodi dallo scopo parodistico, tradendone il tipico registro (per scadere, in ipotesi, nella mera denigrazione) o che si ponga in competizione con l'opera parodiata (determinando il potenziale pregiudizio dei diritti di sfruttamento economico del titolare dell'opera protetta) svelano i contorni di uno scenario in cui la penalizzazione del diritto d'autore, nella sua duplice accezione di diritto morale e di diritto patrimoniale, non è giustificata dal diritto di libera espressione dell'ideatore della parodia.

L'affermazione contenuta nella sentenza di Corte giust. C-201/13 circa la necessità del bilanciamento costituisce del resto applicazione di un principio di carattere generale del diritto armonizzato nella materia che interessa, essendo stato più volte escluso, da parte della stessa Corte, che il diritto di proprietà intellettuale di cui all'art. 17, comma 2, della Carta di Nizza sia intangibile e che la sua tutela debba essere garantita in modo assoluto (Corte giust. 29 luglio 2019, C-476/17, Pelham, 33; Corte giust. 27 marzo 2014, C-314/12, UPC Telekabel Wien, 61; Corte giust. 16 febbraio 2012, C-360/10, SABAM, C-360/10; Corte giust. 24 novembre 2011, C-70/10, Scarlet, 43). Questa esigenza di bilanciamento è desumibile pure da disposizioni della direttiva 2001/29/CE che valgono a circoscrivere la portata delle eccezioni e limitazioni ai diritti di riproduzione e comunicazione che competono in via esclusiva all'autore dell'opera. Ve ne sono due, in particolare, che possono accostarsi alla necessità, posta dall'art. 70, comma 1, a che l'esercizio del diritto di critica si attui nei limiti giustificati da quel fine e senza costituire concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera. L'art. 5, comma 3, lett. d), prevede, infatti, che le citazioni per fini di critica "si limitino a quanto giustificato dallo scopo specifico". L'art. 5, comma 5, con una disposizione di chiusura, prescrive, poi, che le eccezioni e le limitazioni ai diritti esclusivi, che debbono essere applicate esclusivamente in determinati casi speciali e non devono essere in contrasto con lo sfruttamento normale dell'opera o degli altri materiali, "non arrechino ingiustificato pregiudizio agli interessi legittimi del titolare" (sul rilievo che assume tale disposizione sul piano del giusto equilibrio di cui si è detto, cfr. Corte giust., C-476/17, cit., 62).

Si conferma, così, che i limiti contemplati dalla L. n. 633 del 1941, cit. art. 70, comma 1, non sono affatto eccentrici rispetto a quelli posti dalla direttiva, costituendone, piuttosto, puntuale espressione.

2.7. - Ciò detto, la Corte distrettuale risulta aver subordinato l'elaborazione del personaggio Zorro in chiave parodistica a condizioni che risultano estranee alla disciplina positiva.

Essa ha infatti escluso la liceità dello spot pubblicitario realizzato con la nota parodia osservando come lo stesso non integrasse una "rielaborazione di un'opera originale avente un riconoscibile apporto creativo, teso a promuovere nuove idee o nuovi messaggi dell'autore verso il pubblico", bensì "un'opera che oggettivamente si caratterizza per un evidente agganciamento del personaggio Zorro, creato da J. M., di cui riporta le caratteristiche estetiche essenziali, e che è sostanzialmente volta solo a pubblicizzare al pubblico uno speciale prodotto con finalità di lucro". In tal modo, il Giudice distrettuale ha subordinato l'utilizzazione libera in questione a condizioni diverse da quelle sopra indicate, valorizzando, oltretutto, un elemento - quello dell'agganciamento al personaggio originale, che è connaturato ad ogni rappresentazione parodistica avente ad oggetto un personaggio di fantasia.

Il limite cui soggiace la parodia, in sé considerata, è piuttosto quello indicato dalla Corte di giustizia, vale a dire, la salvaguardia del giusto equilibrio tra gli interessi e i diritti dei titolari dei diritti di esclusiva e la libertà di espressione di chi si avvale dell'eccezione per parodia: salvaguardia di equilibrio in cui si inscrivono, nei termini di cui si è detto, le condizioni poste dalla L. n. 633 del 1941, art. 70, comma 1.

2.8. - Il primo motivo è dunque fondato.

Sul punto possono enunciarsi i seguenti principio di diritto.

"In tema di diritto di autore, la parodia costituisce un atto umoristico o canzonatorio che si caratterizza per evocare un'opera, o anche un personaggio di fantasia e non richiede un proprio carattere originale, diverso dalla presenza di percettibili differenze rispetto all'opera o al personaggio che sono parodiati.

"In tema di diritto di autore, la parodia deve rispettare un giusto equilibrio tra i diritti del soggetto che abbia titolo allo sfruttamento dell'opera, o del personaggio, e la libertà di espressione dell'autore della parodia stessa; in tal senso, la ripresa dei contenuti protetti può giustificarsi nei limiti connaturati al fine parodistico e sempre che la parodia non rechi pregiudizio agli interessi del titolare dell'opera o del personaggio originali, come accade quando entri in concorrenza con l'utilizzazione economica dei medesimi".

Competerà al Giudice del rinvio verificare se lo spot per cui è causa integri o meno, alla luce di tali criteri di interpretazione dell'attività dell'odierna ricorrente, una lecita parodia del personaggio Zorro tutelato dalla legge sul diritto di autore.

3. - Il terzo motivo ha ad oggetto la prova dell'acquisizione della titolarità del diritto relativo allo sfruttamento del personaggio Zorro da parte della controricorrente.

3.1. - Il mezzo si risolve nella sollecitazione di una revisione del giudizio di fatto rimesso al giudice del merito.

Il difetto di motivazione non può del resto fondarsi sull'asserita non conferenza di alcuni dei documenti presi in considerazione dalla Corte di merito per dar ragione del proprio convincimento (l'uno considerato dalla ricorrente illeggibile, l'altro reputato incerto quanto alla sua provenienza): e ciò in quanto nella nuova formulazione dell'art. 360, n. 5, risultante dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito in L. n. 134 del 2012, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, "purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali" (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). C'e' da dire, per la verità, che la ricorrente deduce di aver formulato un motivo di appello sul punto (pag. 26): e tuttavia, i termini precisi della censura svolta da CO.GE.DI. avanti alla Corte di Roma non risultano chiariti, sicché il mezzo di censura in esame si mostra, sotto tale profilo, carente della necessaria specificità (tale da non consentire di apprezzare se quanto esposto dal Giudice distrettuale circa l'esistenza di una catena ininterrotta di cessioni del diritto che darebbero ragione della titolarità dello stresso in capo a Zorro Productions, possa considerarsi una motivazione apparente). Non coglie nel segno nemmeno la censura di omesso esame di fatto decisivo: non solo la società istante fa questione di una ipotesi diversa da quella di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, giacché al contrario prospetta, come essa stessa spiega, l'esame, da parte della Corte di merito, di fatti non decisivi, ma finisce comunque per porre sostanzialmente in discussione, con la richiamata doglianza, l'apprezzamento di documenti di causa - attività, questa, che costituisce prerogativa del giudizio del merito (per tutte: Cass. 31 luglio 2017, n. 19011; Cass. 2 agosto 2016, n. 16056) -, poiché obietta che uno degli scritti in questione sarebbe illeggibile e l'altro privo di indicazioni di provenienza e di sottoscrizione.

Il motivo e', dunque, inammissibile.

4. - Il quarto motivo del ricorso di CO.GE.DI. investe il tema della decadenza dei marchi di Zorro Productions: decadenza che nel giudizio di merito è stata fatta valere dall'odierna ricorrente principale con domanda riconvenzionale.

4.1. - Il motivo è inammissibile.

L'istante assume, come si è detto, che in forza dell'art. 58 reg. UE 2017/1001 non incomberebbe su CO.GE.DI. l'onere della prova del non uso, ai fini della decadenza del marchio. Effettivamente in base al diritto unionale, spetta al titolare del marchio dell'Unione, o al titolare del marchio registrato nello Stato membro, oggetto di una domanda di decadenza, dimostrare l'uso effettivo di tale marchio (Corte giust. UE 26 settembre 2013, C-610/11 P, Centrotherm Systemtechnik, 63; Corte giust. 22 ottobre 2020, C-720/18 e C-721/18, Ferrari, 82; Corte giust. 10 marzo 2022, C-183/21, Maxus Group, 36). E tuttavia, a prescindere dal fatto che la controversia non investe solo marchi comunitari e nazionali, ma anche un marchio internazionale (cfr. sentenza, pag. 12) - aspetto, questo, su cui la ricorrente non si sofferma -, deve osservarsi che la Corte di merito non si è limitata ad affermare che la prova dell'eccepita decadenza incombeva su CO.GE.DI., ma ha pure rilevato che, proprio con riferimento alle bevande analcoliche, Zorro Productions aveva concesso una licenza avente ad oggetto l'uso del proprio marchio per pubblicizzare i prodotti della Coca Cola: con ciò dando evidentemente atto, in positivo, di un utilizzo del marchio da parte della titolare (per il che non potrebbe certo sostenersi che la motivazione spesa sul punto sia meramente apparente, come invece dedotto dalla ricorrente). Ne' vale opporre, in questa sede, che il documento contrattuale sarebbe mancante di sottoscrizione e che il negozio avrebbe avuto effetto per il solo anno 1994. Di dette questioni la sentenza impugnata non fa menzione e la ricorrente non spiega come esse siano state prospettate al giudice del merito: ebbene, ove con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430). Errato e', del resto, il richiamo all'art. 116 c.p.c.: infatti, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione del detto articolo è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867).

5. - Si occupano dei marchi di Zorro Productions anche il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale. Con essi si fa in sostanza questione del mancato scrutinio del profilo di contraffazione del marchio basato non già sul rischio di confusione, quanto, piuttosto, sul pericolo di agganciamento.

5.1. - La ricorrente per incidente ha precisato, col secondo motivo, di aver fatto valere la notorietà dei propri marchi: elemento questo, che, come è ben noto, consente di vietarne l'uso, indipendentemente da un rischio di confusione, quando l'impiego del segno senza giusto motivo consente di trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio o reca pregiudizio agli stessi, secondo quanto previsto, ratione temporis, dall'art. 9, comma 1, lett. c), reg. (CE) 40/94 e dall'art. 5, comma 2, dir. 89/104/CEE di cui costituisce recepimento, sul piano nazionale (con riferimento al marchio che goda di rinomanza nello Stato) il D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 22, comma 2.

La Corte di appello ha escluso la violazione del diritto sul marchio Zorro osservando come il personaggio in questione non sarebbe connesso al prodotto e non risulterebbe in grado di differenziarlo: è specificato, nella sentenza, che Zorro non risulta bere, nello spot, l'acqua commercializzata da CO.GE.DI. e che l'immagine dello stesso non risulta neanche apposta sulle confezioni del prodotto per contrassegnarlo; nella pronuncia viene poi precisato che "non venendo in questione alcun intento distintivo", risulterebbe esclusa "l'insorgenza di un rischio di confusione per il pubblico dei consumatori sia in ordine all'origine, provenienza o qualità della merce, sia riguardo al segno stesso".

Il Pubblico Ministero ha reputato infondati i primi due motivi del ricorso incidentale osservando, in sintesi, che solo a partire della modifica dell'art. 20, comma 1, lett. c), c.p.i., intervenuta ad opera del D.Lgs. n. 15 del 2019, art. 9, comma 1, lett. a) è stato attribuito rilievo, ai fini dell'agganciamento al marchio registrato che goda di rinomanza, alla circostanza per cui l'uso del segno avviene "anche a fini diversi da quello di contraddistinguere i prodotti e servizi": l'Ufficio della Procura ha rilevato, in particolare, che tale modifica normativa non potrebbe produrre effetti con riferimento a condotte precedenti la sua entrata in vigore.

5.2. - Il tema sollecita una riflessione sull'uso parodistico del marchio altrui: riflessione che deve muovere dal disposto dell'art. 20, comma 1, cit.. Tale norma contempla, come è noto, il diritto del titolare del marchio registrato di vietare a terzi, salvo proprio consenso, l'uso di un segno eguale a quello altrui per prodotti e servizi identici, l'uso di un segno identico o simile per prodotti e servizi identici o affini, quando ciò possa determinare un rischio di confusione, che può consistere anche in un rischio di associazione tra segni, o l'uso di un segno identico o simile per prodotti e servizi anche non affini, quando il marchio registrato goda di rinomanza e l'uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio, o ancora l'effetto di recare pregiudizio a tale carattere distintivo e a tale rinomanza. La norma precisa che l'uso che può essere vietato è quello attuato "nell'attività economica", giusta l'art. 20, comma 1; similmente, l'art. 5 comma 1, della dir. 89/104/CEE, poi dir. 2008/95 CE e l'art. 9, comma 1 del reg. (CE) 40/94, poi reg. (CE) 207/2009 parlano di un uso "nel commercio", locuzione avente analogo significato, designando l'uso nel contesto di un'attività commerciale finalizzata a un vantaggio economico e non nell'ambito privato (per tutte: Corte giust. 25 luglio 2018, C-129/17, Mitsubishi, 39). Il divieto non riguarda quindi quegli usi del marchio che non implichino lo sfruttamento commerciale del segno: e tra essi si fa rientrare anche l'uso parodistico che risponde a fini di pura critica e derisione; la linea di confine tra usi parodistici che implicano un uso commerciale del marchio e usi parodistici che non lo implichino può rivelarsi, per la verità, talvolta di non agevole individuazione: ma un approfondimento del tema non è proficuo, tenuto conto della fattispecie che qui interessa.

E' certo, infatti, che l'asserito sfruttamento dei marchi della ricorrente incidentale all'interno dello spot pubblicitario in cui è parodiato il personaggio di Zorro, il quale costituisce oggetto dei marchi stessi - anche figurativi - della cui tutela si controverte, integri un uso del segno nell'attività economica che il titolare del segno può vietare. E del resto, significativamente, l'art. 20, comma 2, c.p.i. fa rientrare tra le attività di sfruttamento nell'attività economica l'uso del segno nella pubblicità: ciò che è pure previsto dall'art. 5, comma 3, lett. d), della direttiva sul ravvicinamento delle legislazioni in materia di marchi d'impresa del 1989 e dall'art. 9, comma 2, lett. d), del regolamento sul marchio comunitario del 1994.

5.3. - Appurato che si controverte di uno sfruttamento parodistico del marchio nell'attività economica, resta da chiarire se il diritto del titolare di opporsi allo sfruttamento del segno possa trovar fondamento in un uso non distintivo del segno (avendo cioè riguardo alla circostanza, rimarcata nella sentenza impugnata, per cui il segno Zorro - nelle sue diverse rappresentazioni, verbali e figurative - non è stato impiegato per contraddistinguere il prodotto oggetto della promozione commerciale). E' su tale punto che si innesta il rilievo formulato dal Procuratore Generale di cui si è detto al punto 5.1.

La giurisprudenza comunitaria mostra, per la verità, di non ritenere decisivo, ai fini della contraffazione, l'uso del marchio in funzione distintiva.

La Corte di giustizia ha infatti avuto modo di precisare, con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 5, n. 1, lett. a) della dir. 89/104/CEE (uso di un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato) che l'esercizio del diritto del titolare è riservato ai casi in cui l'uso del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio, e, in particolare, la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto. In fattispecie che riguardava la commercializzazione non autorizzata di sciarpe che riportavano segni riferiti alla squadra inglese dell'Arsenal, la Corte ha ritenuto illegittimo l'uso di un marchio identico a quello registrato, osservando che tale conclusione non potesse essere rimessa in discussione per il fatto che "il detto segno, nel contesto di tale uso, venga percepito come una dimostrazione di sostegno, fedeltà o appartenenza nei confronti del titolare del marchio" (Corte giust. 12 novembre 2002, C-206/01, Arsenal, 62). La pronuncia ha dunque reputato irrilevante che il segno venisse avvertito non per il suo carattere distintivo, ma per suo rappresentare la vicinanza, nei termini indicati, alla squadra dell'Arsenal (ed era questo il profilo di incertezza che aveva indotto l'High Court of Justice, Giudice del rinvio, a formulare la questione pregiudiziale, visto che per la giurisprudenza inglese l'uso di un segno, registrato come marchio d'impresa, diverso da un uso "in quanto" marchio d'impresa poteva rappresentare una violazione del diritto di marchio: sent. cit., 21-25).

Stesso punto di approdo è stato guadagnato con riferimento al segno utilizzato con funzione meramente decorativa (non distintiva, quindi): secondo Corte giust. 23 ottobre 2003, C-408/01, Adidas Salomon, 41, la circostanza che un segno sia percepito dal pubblico interessato come decorazione non osta, di per sé, alla tutela conferita dall'art. 5, comma 2, della dir. 89/104/CEE (quella accordata ai marchi notori) laddove il grado di somiglianza sia nondimeno tale da indurre il pubblico interessato a stabilire un nesso tra il segno ed il marchio d'impresa.

D'altro canto, e riguardando il problema da altra angolazione, l'uso vietato del segno (di cui all'art. 20 c.p.i., all'art. 5 della direttiva e all'art. 9 del regolamento comunitario), non si identifica con quello con cui il marchio altrui, o il marchio simile al marchio altrui, sia utilizzato per contraddistinguere i prodotti dell'autore della condotta che si lamenti illecita. Che la disciplina dei marchi non esiga una tale correlazione tra contraffazione e uso del segno è riconosciuto dalla giurisprudenza unionale. E' sufficiente richiamare, in proposito, l'affermazione per cui, ove un segno identico a un marchio sia selezionato come parola chiave da un concorrente del titolare del marchio al fine di offrire agli utenti di internet un'alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi di detto titolare (ciò che avviene attraverso il link che appare digitando quella parola chiave) "sussiste un uso di detto segno per i prodotti o i servizi di detto concorrente" (Corte giust. 23 marzo 2010, C-236/08, C-237/08 e C-238/08, Google France e Google, 69); o l'enunciazione secondo cui l'uso in una pubblicità comparativa di un segno identico o simile al marchio di un concorrente per identificare i prodotti o servizi offerti da quest'ultimo "deve essere considerato come un uso per i prodotti e servizi propri dell'operatore pubblicitario, ai sensi dell'art. 5, commi 1 e 2, della direttiva 89/104" (sebbene il titolare del marchio registrato non possa vietare l'uso da parte di un terzo in una pubblicità comparativa che soddisfi tutte le condizioni di liceità enunciate dall'art. 3 bis, comma 1, della dir. 84/450/CEE) (Corte giust. 12 giugno 2008, C-533/06, O2 Holdings e O2 UK, 36 e 51).

5.4. - Non appare allora significativo che il novellato art. 20, comma 1, lett. c) disponga che l'uso del segno rilevante ai fini della contraffazione del marchio rinomato sia anche quella che avviene "a fini diversi da quello di contraddistinguere i prodotti e servizi". Se letta in conformità della direttiva, di cui costituiva attuazione, la norma nazionale previgente (applicabile ratione temporis), pur non contenendo tale inciso, non poteva vedere circoscritta la propria sfera applicativa ai casi in cui il contraffattore distinguesse i suoi prodotti o i suoi servizi con un marchio che riproducesse o imitasse quello altrui registrato.

Del resto, prima della richiamata modifica legislativa, attenta ed autorevole dottrina aveva ritenuto che l'uso del segno in funzione di marchio non si esaurisse con l'uso in funzione distintiva ma ricomprendesse "ogni uso del segno che (richiamasse) una o più delle componenti del messaggio comunicato dal marchio, escluse soltanto quelle generiche o descrittive, o comunque non monopolizzabili", sottolineando che "discriminare tra usi parassitari del marchio fatti in funzione distintiva e usi parassitari fatti in funzione non distintiva" avrebbe potuto rivelarsi "costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.".

La giurisprudenza di merito ha, poi, nei fatti, respinto soluzioni interpretative di portata restrittiva: se ne trae conferma dai plurimi arresti con cui, prima della novella, si è ritenuto contraffattivo l'uso del marchio altrui in funzione ornamentale o parodistica.

Può credersi, in conclusione, che l'intervento operato col D.Lgs. n. 15/2019 non presenti un'effettiva portata innovativa. Oggi, come ieri, quel che rileva, nell'uso vietato del marchio, è l'accostamento tra i segni che sia in grado di incidere sulla percezione, da parte dell'utente, dei messaggi comunicati dal marchio registrato di cui è invocata tutela.

5.5. - I detti messaggi sono da correlare alle diverse funzioni proprie del segno: le quali non si esauriscono in quella, essenziale, consistente nel garantire ai consumatori l'origine del prodotto, e cioè la "funzione di indicazione di origine", ma comprendono anche quelle di garantire la qualità del prodotto o del servizio di cui trattasi, o quelle di comunicazione, investimento o pubblicità (con riguardo a tali funzioni, per tutte: Corte giust. 18 giugno 2009, C-487/07, L'Ore'al, 58; Corte giust., C-236/08, C-237/08 e C-238/08, cit., 77). E' soprattutto con riferimento a queste ultime funzioni che assume rilievo l'agganciamento parassitario con cui, a mente dell'art. 20, comma 1, lett. c), c.p.i., si profitti della notorietà e della capacità distintiva del segno o si pregiudichino detta notorietà e detta capacità distintiva.

Nel caso della rappresentazione parodistica può venire in questione proprio detto agganciamento parassitario, giacché l'evocazione caricaturale del marchio altrui, che trae la propria vitalità dalla rinomanza di questo, crea un legame col messaggio di cui quest'ultimo è portatore: legame che si traduce spesso in un vantaggio per l'autore della parodia, nell'erosione del valore del segno, o in entrambi i fenomeni.

Si tratta di situazioni già vagliate dalla nostra giurisprudenza. Merita di essere rammentata, tra tutte, una nota pronuncia del Tribunale di Milano in cui si è fatta questione della legittimità della distribuzione da parte di una nota organizzazione non governativa ambientalista, di bollette dell'ENEL, recanti i marchi di questa, riprodotti nella loro componente denominativa e figurativa: marchi cui erano accostate espressioni reputate lesive, perché collegate a danni che interessavano l'ambiente, la salute e l'economia. La pronuncia reputò illegittima l'attività posta in essere proprio in considerazione dal pregiudizio sofferto dal ENEL e dall'indebito vantaggio conseguito dall'autrice dell'operazione dalla forza attrattiva del richiamo rappresentato da quel marchio presso il pubblico.

Coglie nel segno, in definitiva, la ricorrente incidentale allorquando evidenzia che ai fini della contraffazione dei marchi Zorro non era necessario che si facesse un utilizzo del segno per contrassegnare fisicamente il prodotto - evenienza, questa, che si è visto non essere indispensabile per configurare un uso del marchio vietato dall'art. 20 c.p.i. (cfr. i precedenti punti 5.3 e 5.4) - essendo invece sufficiente che del marchio si faccia "un uso di tipo narrativo idoneo ad agganciare i pregi del marchio altrui".

5.6. - Il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale vanno dunque accolti, giacché la Corte di merito ha conferito indebitamente rilievo al solo uso del segno diretto a contraddistinguere il prodotto (uso che ha reputato nella fattispecie insussistente) e si è conseguentemente disinteressata delle forme di tutela che avrebbero potuto elargirsi ai marchi dell'odierna ricorrente incidentale, nella misura che se ne fosse riconosciuta la notorietà.

Sul punto va reso il seguente principio di diritto:

"In tema di marchi d'impresa, avendo riguardo alla disciplina anteriore alla modifica dell'art. 20 c.p.i. attuatasi con il D.Lgs. n. 15 del 2019, art. 9, comma 1, lett. a), lo sfruttamento del marchio altrui, se notorio, è da considerarsi vietato ove l'uso del segno senza giusto motivo, posto in essere nell'attività economica, consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o rechi pregiudizio agli stessi, a nulla rilevando che il marchio non sia utilizzato per contraddistinguere i prodotti o i servizi dell'autore dell'uso, come può avvenire nel caso della rappresentazione parodistica del marchio in questione".

6. - Il terzo motivo del ricorso incidentale ha riguardo alla concorrenza sleale.

6.1. - La società istante deduce (pag. 35 del ricorso) che la Corte territoriale avrebbe "del tutto omesso di pronunciarsi sulla richiesta di accertamento" relativa all'uso illegittimo di nomi e segni distintivi atti a produrre confusione con quelli usati dall'imprenditore concorrente e sull'uso di ogni altro mezzo non conforme alla correttezza professionale e che risulterebbe inoltre "non decisa l'ulteriore questione di diritto concernente l'applicabilità congiunta della tutela di cui al codice della proprietà industriale e di cui all'art. 2598 c.c." (pag. 35 s. del ricorso).

Il motivo può considerarsi assorbito, visto che afferisce a un tema che è stato introdotto con una domanda subordinata (pag. 6 del controricorso) e che è comunque influenzato dalla decisione che assumerà il Giudice del rinvio riguardo alla denunciata contraffazione dei marchi.

7. - Restano parimenti assorbiti, stante la necessaria cassazione della pronuncia, sia il quinto motivo del ricorso principale, sia il quarto del ricorso incidentale.

8. - La sentenza è dunque cassata in accoglimento del primo motivo del ricorso principale e dei primi due motivi del ricorso incidentale.

La causa è rinviata alla Corte di appello di Roma che, in diversa composizione, statuirà pure sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale e i primi due motivi del ricorso incidentale; respinge il secondo, dichiara inammissibili il terzo e il quarto e dichiara assorbito il quinto motivo del ricorso principale; dichiara assorbiti il terzo e il quarto motivo del ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Avv. Antonino Sugamele

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