Madre è colei che partorisce.L’ordinamento italiano contiene un espresso divieto, rafforzato da sanzione penale, della pratica secondo cui una donna si presta ad avere una gravidanza e a partorire un figlio per un’altra donna.
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 26 settembre – 11 novembre 2014, n. 24001
Presidente Luccioli – Relatore De Chiara
Svolgimento del processo
Con ricorso del 20 gennaio 2012 il pubblico ministero presso il Tribunale per i Minorenni di Brescia chiese dichiararsi lo stato di adottabilità del minore P.C. , nato in (omissis) , figlio dei coniugi sig. P.D. e sig.ra Pa.An. . Riferì che questi ultimi erano sottoposti a procedimento penale per il delitto di alterazione di stato, sospettandosi la non veridicità della loro dichiarazione di nascita, in quanto la sig.ra Pa. aveva subito un intervento di isterectomia nel 2010 e il sig. P. era affetto da oligo-spermia.
Con decreto del 31 gennaio 2012 il Tribunale, comunicata la richiesta del PM ai coniugi P. , nominò un curatore speciale per il minore e affidò quest'ultimo ai servizi sociali con collocazione presso gli apparenti genitori.
Costituitisi, i coniugi P. dichiararono che la sig.ra Pa. non era in realtà madre biologica del piccolo C. , il quale era stato generato grazie a surrogazione di maternità conformemente alla legge ucraina, che consente tale pratica.
Il Tribunale, accertato mediante consulenza tecnica di ufficio che anche il sig. P. non era padre biologico del minore, dichiarò lo stato di adottabilità di quest'ultimo, dispose il collocamento del medesimo presso una coppia da scegliersi tra quelle in lista per l'adozione nazionale, sospese i coniugi P. dall'esercizio della potestà di genitori e nominò un tutore. Motivò osservando:
che oggetto del giudizio era accertare se coloro che risultavano, dalla dichiarazione di nascita, genitori biologici del neonato fossero effettivamente tali;
che dagli accertamenti effettuati era risultato che P.D. e Pa.An. non erano genitori biologici del minore;
che la pratica della maternità surrogata, così come la fecondazione eterologa, in Italia è vietata dall'art. 14 l. 19 febbraio 2004, n. 40;
che la legge ucraina consente tale pratica a condizione che gli ovociti non appartengano alla donna che esegue la gestazione e che almeno il 50 % del patrimonio genetico del nascituro provenga dalla coppia committente, onde il contratto di surrogazione di maternità concluso dai P. con la gestante era nullo anche secondo la legge ucraina;
che conseguentemente la denuncia della filiazione era avvenuta in frode alla disciplina dell'adozione;
che sia il sig. P. sia la sig.ra Pa. avevano da tempo superato l'età in cui è consentita l'adozione di un neonato, e inoltre per tre volte erano state in precedenza respinte loro domande di adozione per “grosse difficoltà nella elaborazione di una sana genitorialità adottiva”.
La Corte di Brescia ha poi respinto l'appello dei coniugi P. osservando:
che, essendo pacifico che neppure il sig. P. è padre biologico del piccolo C. , era stata violata anche la legge ucraina sulla maternità surrogata, la quale ammette tale pratica solo a condizione che almeno il 50 % del patrimonio genetico del nascituro appartenga alla coppia genitoriale committente, e dunque era irrilevante l'allegazione, da parte degli appellanti, della liceità, secondo la legge ucraina, della donazione di ovociti nella fecondazione extracorporale (eseguita nell'ambito della surrogazione di maternità);
che il certificato di nascita ucraino, benché debitamente apostillato, non poteva essere riconosciuto in Italia ai sensi dell'art. 65 della l. 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, essendo contrario all'ordine pubblico, atteso che la l. n. 40 del 2004, cit., vieta qualsiasi forma di surrogazione di maternità e la stessa fecondazione eterologa;
che pertanto veniva a mancare in capo al minore lo status di figlio legittimo degli appellanti, e da ciò conseguiva de plano l'accertamento della situazione di abbandono - e dunque lo stato di adottabilità - del minore stesso ai sensi dell'art. 8 l. 4 maggio 1983, n. 184, dato che il bambino, nato in Ucraina ed accudito dai P. , non era assistito dai genitori o da altri parenti;
che il predetto accertamento costituiva l'unico oggetto del procedimento in corso, onde erano inammissibili le deduzioni degli appellanti circa la loro idoneità genitoriale e la violazione del diritto del minore a rimanere nella famiglia che lo aveva accolto sin dalla nascita, nonché la reiterazione dell'istanza di affido provvisorio in attesa dell'esito della domanda di adozione proposta ai sensi dell'art. 44, lett. a), l. n. 184 del 1983;
che, in ogni caso, l'allontanamento del minore dal nucleo familiare degli appellanti era giustificato dal comportamento di questi ultimi, i quali avevano volontariamente eluso la legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita e avevano falsamente dichiarato di essere i suoi genitori naturali.
I coniugi P. hanno proposto ricorso per cassazione articolando cinque motivi di censura. Il tutore ha resistito con controricorso. Anche il curatore speciale ha presentato controricorso a seguito dell'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti disposta da questa Corte. I ricorrenti hanno anche presentato memorie.
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione della l. 20 dicembre 1966, n. 1253, di ratifica ed esecuzione della Convenzione riguardante l'abolizione della legalizzazione degli atti pubblici stranieri, adottata a l'Aja il 5 ottobre 1961.
I ricorrenti lamentano che la Corte d'appello abbia applicato, anziché la predetta Convenzione, la norma, definita speciale dalla Corte, di cui all'art. 65 l. n. 218 del 1995; il che non sarebbe corretto in quanto, avendo sia l'Ucraina che l'Italia aderito a tale Convenzione, un atto ucraino recante, come nella specie, regolare apostille è pienamente valido in Italia.
I ricorrenti osservano altresì: che l'art. 65 l. n. 218 del 1995, cit., regola l'efficacia e la trascrivibilità in Italia dei provvedimenti giudiziari stranieri in materia di filiazione subordinandole alla non contrarietà dell'atto all'ordine pubblico e al rispetto dei diritti essenziali della difesa; che nella specie non è dato comprendere, peraltro, quali diritti essenziali della difesa si sarebbero dovuti rispettare nella formazione di un certificato anagrafico; che, anche a ritenere applicabile la l. n. 218 del 1995, la fattispecie concreta era disciplinata semmai dal combinato disposto degli artt. 67 e 68 della stessa, con applicazione del procedimento di cui all'art. 30 d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150.
1.1. - Il motivo è infondato.
L'apostille, infatti, attesta soltanto l'autenticità del documento, ossia “la veracità de la signature, la qualità en laquelle le signataire de l'acte a agi et, le cas echeant, l'identità du sceau ou timbre dont cet acte est revetu" (art. 3 della Convenzione), non certo la sua efficacia nell'ordinamento italiano, che è disciplinata appunto dalla l. n. 218 del 1995, il cui art. 65 prevede, fra l'altro, il limite dell'ordine pubblico nella specie applicato dalla Corte d'appello (comprensibilmente disinteressatasi, invece, del limite del diritto di difesa, cui dunque inutilmente fa cenno il ricorso).
Errato è poi il richiamo dei ricorrenti alla disciplina di cui agli artt. 67 e 68 l. n. 218, cit., attinenti al diverso tema dell'attuazione in Italia dei provvedimenti di giudici stranieri e degli atti pubblici ricevuti in uno stato estero e ivi muniti di forza esecutiva.
2. - Con il secondo motivo, denunciando violazione di legge, si censura l'affermazione che il certificato di nascita del piccolo C. formato in (…) sia privo di valore per la legge italiana: affermazione contrastante, ad avviso dei ricorrenti, con l'art. 33, comma 3, l. n. 218 del 1995, cit., nel testo applicabile ratione temporis, il quale dispone che “la legge nazionale del figlio al momento della nascita regola i presupposti e gli effetti dell'accertamento e della contestazione dello stato di figlio” e vieta al giudice italiano qualsiasi sovrapposizione di fonti di informazione estranee e nazionali, come riconosciuto da Cass. 367/2003 e 14545/2003. Diversamente argomentando - concludono i ricorrenti - si determinerebbe una situazione paradossale, perché in Ucraina la maternità e paternità dei ricorrenti non è in discussione, mentre in Italia agli stessi non verrebbe riconosciuto alcun diritto rispetto al minore, del quale, anzi, si accerterebbe addirittura lo stato di abbandono.
2.1. - Il motivo è infondato perché i precedenti di questa Corte richiamati dai ricorrenti non escludono affatto la vigenza del limite generale dell'ordine pubblico, applicato dalla Corte d'appello di Brescia, con il quale la disciplina straniera della filiazione e del suo accertamento - pur nella specie applicabile in linea di principio, ad avviso sia dei ricorrenti che della Corte d'appello - si trovi ad essere in contrasto; limite che, anzi, la richiamata Cass. 14545/2003 e-spressamente ribadisce (v. anche Cass. 15234/2013). La differente configurazione in Italia e in un paese estero delle situazioni giuridiche facenti capo ai soggetti interessati è, poi, conseguenza normale e inevitabile della differenza di disciplina giuridica dovuta alla operatività del limite dell'ordine pubblico secondo le regole di diritto internazionale privato.
3. - Con il terzo motivo si denuncia violazione dell'art. 16 l. n. 218 del 1995, dell'art. 3 della Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176, e dell'art. 23 Reg. CE n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003r nonché vizio di motivazione.
Viene censurata la statuizione di contrarietà all'ordine pubblico del certificato di nascita ucraino del piccolo C. , lamentando che essa sia motivata con il semplice richiamo al divieto di surrogazione di maternità e di fecondazione eterologa previsto dalla legge n. 40 del 2004. Ad avviso dei ricorrenti, invece, la valenza probatoria del predetto certificato potrebbe essere esclusa solo ove si riscontrasse nella normativa ucraina che disciplina l'accertamento del rapporto di filiazione in quel paese una incompatibilità con le norme di ordine pubblico italiane ai sensi dell'art. 16 l. n. 218, cit., ovvero dell'art. 7 (rectius, art. 18) d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 sull'ordinamento dello stato civile. E l'ordine pubblico, essi aggiungono, non coincide con il c.d. ordine pubblico interno, cioè con qualsiasi norma inderogabile dell'ordinamento italiano, bensì con l'ordine pubblico internazionale, costituito dai soli principi fondamentali caratterizzanti l'atteggiamento etico-giuridico dell'ordinamento in un determinato periodo storico; sicché occorre individuare i valori condivisi dalla comunità internazionale armonizzandoli con il sistema interno.
In quest'ottica, non è dunque sufficiente avere individuato la violazione del divieto di cui alla l. n. 40 del 2004, ma occorre tener conto delle dichiarazioni e convenzioni internazionali ispirate alla protezione dei minori, in primis la Convenzione ONU sopra richiamata, art. 3, secondo cui “l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”, nonché l'analoga previsione del richiamato reg. CE, art. 23; senza trascurare, inoltre, i principi sanciti dall'art. 31 Cost. in tema di protezione dell'infanzia, in forza dei quali deve ritenersi che, a prescindere dalla nullità dei contratti di maternità surrogata prevista dalla l. n. 40 del 2004, una volta che un tale contratto abbia avuto esecuzione ed il bambino sia nato e sia stato immediatamente accolto dalla coppia committente, ciò che conta è assicurare che egli conservi gli stessi genitori che ha avuto sin dalla nascita. Insom-ma, “il superiore interesse del minore [...] costituisce il parametro ed il principio di ordine pubblico internazionale a cui conformare ogni decisione”, e nella specie il piccolo C. era stato amorevolmente atteso ed accudito dai coniugi P. , fino a quando non è stato loro brutalmente sottratto, con trauma indelebile, “nel mero perseguimento della punizione dei coniugi P. , colpevoli di avere eluso la legge italiana”.
3.1. - Il motivo è infondato.
È certamente esatto che l'ordine pubblico non si identifica con le semplici norme imperative, bensì con i principi fondamentali che caratterizzano l'ordinamento giuridico; è invece inesatto che tali principi si identifichino, come sostengono i ricorrenti, con “i valori condivisi della comunità internazionale che il prudente apprezzamento del Giudice non può trascurare, armonizzandoli con il sistema interno”. L'ordine pubblico internazionale, infatti, è il limite che l'ordinamento nazionale pone all'ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna; dunque non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili. È peraltro evidente che, nella individuazione di tali principi, l'ordinamento nazionale va considerato nella sua completezza, ossia includendovi principi, regole ed obblighi di origine internazionale o sovranazionale.
Tanto premesso, va osservato che l'ordinamento italiano - per il quale madre è colei che partorisce (art. 269, terzo comma, c.c.) - contiene, all'art. 12, comma 6, l. n. 40 del 2004, cit., un espresso divieto, rafforzato da sanzione penale, della surrogazione di maternità, ossia della pratica secondo cui una donna si presta ad avere una gravidanza e a partorire un figlio per un'altra donna; divieto non travolto dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale parziale dell'analogo divieto di fecondazione eterologa, di cui all'art. 4, comma 3, della medesima legge, pronunciata dalla Corte costituzionale con la recente sentenza n. 162 del 2014 (nella quale viene espressamente chiarito come la prima delle due disposizioni sopra indicate non sia “in nessun modo e in nessun punto incisa dalla presente pronuncia, conservando quindi perdurante validità ed efficacia”).
Il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale, di regola posta appunto a presidio di beni giuridici fondamentali. Vengono qui in rilievo la dignità umana - costituzionalmente tutelata - della gestante e l'istituto dell'adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l'ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato.
Le aperture, registrate in dottrina, verso alcune forme di maternità surrogata solitamente non riguardano la surrogazione eterologa, quella cioè realizzata mediante ovociti non appartenenti alla donna committente, che è priva perciò anche di legame genetico con il nato, com'è pacifico nel caso in esame; né tantomeno riguardano le ipotesi in cui neppure il gamete maschile appartiene alla coppia committente, come nella specie è risultato all'esito degli accertamenti disposti dal Tribunale. E nemmeno rileva qui domandarsi se siano configurabili (e come reagiscano, eventualmente, sul divieto penale di surrogazione di maternità ora previsto dalla legge), fattispecie di maternità surrogata caratterizzate da intenti di pura solidarietà e perciò tali da escludere qualsiasi lesione della dignità della madre surrogata, come pure in dottrina si è sostenuto, inerendo interrogativi siffatti a problematiche non attinenti alla fattispecie in esame.
Neppure può sostenersi che il divieto in discussione si pone in contrasto con la tutela del superiore interesse del minore, da considerare preminente “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi” ai sensi dell'art. 3 della Convenzione di New York richiamata nel ricorso. Il legislatore italiano, invero, ha considerato, non irragionevolmente, che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando, come detto, all'istituto dell'adozione, realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo della parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico. E si tratta di una valutazione operata a monte dalla legge, la quale non attribuisce al giudice, su tale punto, alcuna discrezionalità da esercitare in relazione al caso concreto.
Il richiamo, poi, pure fatto dai ricorrenti, all'art. 23 reg. CE n. 2201/2003 (che consente il non riconoscimento di decisioni straniere relative alla responsabilità genitoriale “se, tenuto conto dell'interesse superiore del minore, il riconoscimento è manifestamente contrario all'ordine pubblico dello Stato membro richiesto”) è fuori luogo, riguardando detto regolamento le decisioni giudiziarie, mentre nella specie viene in considerazione un atto amministrativo (il certificato di nascita ucraino del piccolo C. , sul quale i ricorrenti basano il loro rapporto di filiazione). Inoltre lo stesso regolamento esclude espressamente dal proprio campo di applicazione le decisioni relative “alla determinazione o all'impugnazione della filiazione” e “all'adozione, alle misure che la preparano o all'annullamento o alla revoca dell'adozione” (art. 1, par. 3, lett. a) e b).
Né, infine, è esatta l'affermazione, contenuta nella seconda memoria depositata dai ricorrenti ai sensi dell'art. 378 c.p.c., secondo cui la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Quinta Sezione, avrebbe, nelle sentenze gemelle emesse il 26 giugno 2014 nei confronti della Francia sui ricorsi n. 65192/11 (Mennesson c. Francia) e n. 65941/11 (Labassee c. Francia), affermato il diritto del nato mediante surrogazione di maternità ad essere riconosciuto come figlio legittimo della coppia committente. Vero è, invece, che in dette sentenze la Corte ha riconosciuto un ampio margine di apprezzamento discrezionale ai singoli Stati sul tema della maternità surrogata, in considerazione dei delicati interrogativi di ordine etico posti da tale pratica, disciplinata in maniera diversa nell'ambito dei paesi membri del Consiglio d'Europa, e ha ravvisato il superamento di detto margine nel difetto di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il nato e il padre committente allorché quest'ultimo sia anche padre biologico (difetto di riconoscimento che, rileva la Corte, viola il diritto al rispetto della vita privata del figlio, ai sensi dell'art. 8 della Convenzione, comprendente il diritto all'identità personale sotto il profilo del legame di filiazione).
4. - Con il quarto motivo, denunciando vizio di motivazione e violazione degli artt. 248 e 263 c.c., si censura il rigetto dell'eccezione di difetto di legittimazione attiva del pubblico ministero all'azione di contestazione di legittimità, motivato in base alla mancanza di valore del certificato di nascita ucraino per la legge italiana e al conseguente difetto dello status di figlio dei coniugi P. in capo al piccolo C. . I ricorrenti ribadiscono invece la piena validità di quel certificato e la contestazione della legittimazione del pubblico ministero alle azioni di cui ai richiamati artt. 248 e 263 c.c., non rientranti tra quelle che il medesimo può esperire ai sensi dell'art. 69 c.p.c., e aggiungono che alla declaratoria del difetto della qualità di loro figlio legittimo in capo al minore e, conseguentemente, all'eventuale accertamento del reato di alterazione di stato non potrebbe neppure conseguire la perdita della potestà genitoriale, come statuito da Corte cost. n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012.
4.1. - Il motivo è infondato alla luce di quanto appena osservato riguardo al terzo motivo. Il certificato di nascita ucraino (sul quale soltanto i ricorrenti basano il rapporto di filiazione con il piccolo C. ) e la stessa legge ucraina in materia di maternità surrogata sono contrari all'ordine pubblico italiano, onde al primo non può riconoscersi efficacia, ai sensi dell'art. 65 l. n. 218 del 1995, e la seconda non può trovare applicazione, ai sensi dell'art. 16 l. cit., in Italia; pertanto di uno status del minore quale figlio dei ricorrenti non può, nel nostro paese, parlarsi perché ne difetta in radice l'attribuzione, ossia il titolo, che dunque non occorre sia contestato mediante le apposite azioni giudiziarie previste dalla legge.
Né viene qui in rilievo la perdita della potestà (oggi responsabilità: art. 93, comma 1, lett. n), d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154) genitoriale quale conseguenza della condanna per un delitto contro lo stato di famiglia, ai sensi dell'art. 569 c.p., il cui automatismo è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla giurisprudenza costituzionale richiamata nel ricorso: infatti la responsabilità genitoriale nei confronti del piccolo C. non è stata mai assunta dai ricorrenti, non avendo gli stessi mai assunto la qualità di genitori.
5. - Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 8 l. n. 184 del 1983 e vizio di motivazione. Ribadito che il piccolo C. è, allo stato, figlio legittimo dei coniugi P. e conseguentemente non versa in situazione di abbandono essendo assistito dai genitori e dai parenti tenuti a provvedervi, si censura conseguentemente l'affermazione della Corte d'appello secondo cui, avendo i predetti coniugi violato la legge italiana perché neppure il sig. P. è padre biologico del bambino, quest'ultimo versa in stato di abbandono e dunque è adottabile. Peraltro, osservano i ricorrenti, pure qualora fosse disconosciuta la loro "legittimazione genitoriale" e non fosse ritenuta provata la nascita per surrogazione di maternità, il pubblico ministero avrebbe dovuto allertare le autorità ucraine per la ricerca dei genitori biologici del piccolo C. , piuttosto che limitarsi ad aprire un procedimento penale per alterazione di stato e chiedere la dichiarazione dello stato di adottabilità del minore.
5.1. - Quanto chiarito a confutazione dei motivi terzo e quarto comporta l'infondatezza anche della prima parte del presente motivo, basata sull'assunto che i ricorrenti siano, per la legge, genitori del minore.
Poiché tali essi non sono, né risulta la presenza di altri parenti del minore stesso, l'accertamento dello stato di abbandono da parte del Tribunale per i minorenni s'imponeva ai sensi dell'art. 8 l. n. 184 del 1983, cit., a mente del quale versano in tale stato “i minori [...] privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi”. Né ha pregio la deduzione finale del motivo in esame, relativa alla necessità di ricercare i genitori biologici del piccolo C. : deduzione inammissibile non soltanto perché nuova, ma soprattutto perché gli stessi ricorrenti hanno fatto presente, nel ricorso e nella memoria, che secondo la legge ucraina la donna che partorisce in sostituzione non è madre del nato e che inoltre la donna che aveva partorito il piccolo C. (della quale i ricorrenti indicano il nome) non volle essere indicata nel certificato di nascita, con ciò rifiutando comunque la maternità.
6. - Il ricorso va in conclusione respinto, con condanna dei ricorrenti alle spese processuali.
Queste ultime sono liquidate come in dispositivo in favore del tutore di P.C. ; quanto invece al curatore speciale, che si è avvalso del patrocinio a spese dello Stato, questa Corte deve limitarsi a condannare la parte soccombente a versare all'Amministrazione Finanziaria dello Stato l'importo delle spese a lui relative, ai sensi dell'art. 113 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, senza procedere ad alcuna liquidazione, spettante invece, ai sensi della corretta lettura degli artt. 82 e 83 d.P.R. cit., al giudice di merito (cfr., da ult., Cass. Sez. Un. 22792/2012), individuato, nell'ipotesi di rigetto del ricorso, nel giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, ossia nella specie nella Corte d' appello di Brescia.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese processuali in favore del tutore di P.C. , liquidate in Euro 3.200,00, di cui e 3.000,00 per compensi di avvocato, oltre spese forfettarie ed accessori di legge, nonché in favore dell'Amministrazione Finanziaria dello Stato quanto alle spese processuali del curatore del medesimo P.C. , da liquidarsi a cura della Corte d'appello di Brescia.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003.
12-11-2014 23:13
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