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Sentenza

 il potere disciplinare del datore di lavoro non è in ogni caso del tutto libero...
il potere disciplinare del datore di lavoro non è in ogni caso del tutto libero, ma soggiace a limiti sia di natura sostanziale (pensiamo ad esempio al principio di proporzionalità dettato dell’art. 2106 c.c., piuttosto che ai limiti in materia di recidiva e dell’estensione massima della multa e della sospensione) quanto di natura procedurale (tra i quali spiccano quelli stabiliti dall’articolo 7 dello statuto dei lavoratori e dalle disposizioni di alcuni CCNL).
Nella articolazione semantica propria del nostro ambito laburistico è considerato prestatore di lavoro subordinato colui che si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.

E’, infatti, quest’ultimo che, nell’ossatura ordinamentale, rappresenta il principale artefice e garante del buon funzionamento dell’organizzazione dei fattori produttivi ed, in ultima istanza, del regolare svolgimento dell’attività di impresa ed è su di lui che si articola il concreto esercizio di quella libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., che, non a caso, trova uno dei propri corollari applicativi proprio nell’attribuzione del potere datoriale di infliggere sanzioni disciplinari in proporzione alla gravità dell’illecito accertato.

Nel combinato disposto del potere direttivo, di controllo e disciplinare, invero, riposa normalmente la tricotomia della natura stessa del rapporto di subordinazione lato senso inteso, ma senza dimenticare una caratteristica essenziale di tale ripartizione sostanziale, ovvero la facoltatività del suo esercizio.

E’, infatti, rimessa alla scelta del datore di lavoro la decisione di procedere, dinanzi ad un inadempimento degli obblighi propri del rapporto di lavoro ad opera del dipendente, con l’irrogazione sanzionatoria o meno, se pur con le dovute eccezioni concernenti le violazioni dei doveri di sicurezza sul luogo di lavoro o la commissione di determinati illeciti (per evitare il datore di poter incorrere, in tali specifiche ipotesi, in fattispecie di concorso con l’autore delle condotte, considerando l’estensione ultra individuale degli interessi coinvolti).

Eppure, a ben vedere, il potere disciplinare del datore di lavoro non è in ogni caso del tutto libero, ma soggiace a limiti sia di natura sostanziale (pensiamo ad esempio al principio di proporzionalità dettato dell’art. 2106 c.c., piuttosto che ai limiti in materia di recidiva e dell’estensione massima della multa e della sospensione) quanto di natura procedurale (tra i quali spiccano quelli stabiliti dall’articolo 7 dello statuto dei lavoratori e dalle disposizioni di alcuni CCNL).

Passiamo, dunque, ad analizzare, nel prosieguo di tale trattazione di sintesi, alcuni dei profili salienti che connotano la disciplina del procedimento disciplinare, partendo proprio dalla disamina, per flash argomentativi, delle principali disposizioni e principi che governano il valido esercizio di tale potere e prerogativa datoriale.

Il codice disciplinare

Il primo comma dell’articolo n. 7 Legge 300/1970 prevede l’obbligo datoriale di affiggere il codice contenente le norme disciplinari, l’indicazione delle infrazioni in relazione alle quali le disposizioni disciplinari possono essere applicate e le procedure di contestazione.

Tale affissione deve avvenire in un luogo accessibile a tutti i lavoratori e, nel caso di aziende con più sedi, in ogni singola unità aziendale; inoltre, parte datoriale è chiamata a garantire la permanenza dell’affissione del codice, che deve certamente essere vigente al momento della commissione dell’infrazione da parte del dipendente.

Ciò in quanto nel codice disciplinare viene riportata la specifica predeterminazione delle sanzioni irrogabili a fronte di ogni singola infrazione, in applicazione di quanto disposto dal CCNL eventualmente adottato in azienda o in ulteriore specifica di condotte di dettaglio ricadenti nell’alveo operativo della previsione pattizia a carattere ampio, con conseguente invalidità di codici disciplinari contenenti indicazioni generiche o divergenti dai range fissati in sede collettiva.

L’importanza di tale previsione, dunque, la si coglie subito, ponendo attenzione alle statuizioni di corredo fornite dalla giurisprudenza intervenuta sul tema, se solo si considera come, ad esempio, per l’orientamento più rigorista non sia affatto consentita nessuna forma di pubblicità equipollente rispetto alla indicata affissione in luogo accessibile a tutti, come potrebbe essere la consegna ai singoli lavoratori di copia del CCNL, o la disponibilità del codice presso i locali della RSU o presso gli uffici aziendali, o la stessa integrale affissione del CCNL (cfr. in tal senso Cass. Sez. Unite 5.2.88 n. 1208).

Vi è poi da considerare come l’assenza del codice possa comportare la nullità stessa del provvedimento adottato.

E pur tuttavia, tale regola, come sempre accade, soffre delle eccezioni, visto e considerato che, secondo parte della giurisprudenza, la mancata e preventiva affissione del codice disciplinare non comporterebbe, di per sé, l’automatica illegittimità della sanzione espulsiva comminata.

Anche in tale evenienza, infatti permarrebbe comunque la validità della sanzione risolutiva del licenziamento per le ipotesi di commissione di fatti gravissimi da parte del dipendente (tali da non consentire la prosecuzione dell’attività lavorativa), traendo tale opzione una derivazione autorizzativa diretta dal disposto codicistico dell’art. 2119 c.c. in materia di giusta causa e dall’art. 3 della legge 604/66 per il giustificato motivo.

Ma non è tutto.

Se il comportamento contestato è, infatti, immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario provvedere alla pubblicità del codice disciplinare.

Pressoché unanime sul punto, l’orientamento giurisprudenziale dominante, da ultimo ribadito dalla Suprema Corte, per cui ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari, non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (cfr. Corte di Cassazione, Sezione Lavoro 01 agosto 2023 n. 23420)

 

La contestazione dell’addebito disciplinare

Il secondo importante limite procedurale posto dall’articolo 7 è rappresentato dal divieto, per il datore di lavoro, di adottare qualsivoglia provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli prima contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa (con l’unica eccezione costituita dal rimprovero verbale per violazioni di tenue entità immediatamente rilevabili), con conseguente nullità di sanzioni disciplinari comminate, come a volte capita, contestualmente alla contestazione degli addebiti.

La ratio sottesa all’intera impostazione della procedimentalizzazione disciplinare appare così incentrata sulla garanzia del contraddittorio tra le parti e sul pieno esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, cui consegue l’articolazione dei seguenti specifici principi che regolano l’intero procedimento.

 

Il principio di specificità

In primo luogo, la contestazione deve contenere una dettagliata descrizione del fatto imputato al lavoratore e di tutti i suoi elementi, dovendo rappresentare le circostanze spazio-temporali in cui si è verificato, dare contezza delle persone coinvolte e riportare ogni altro elemento che permetta allo stesso di comprendere quali addebiti vengono mossi nei suoi confronti, in modo da poter presentare le proprie eventuali difese in maniera puntuale ed ampia.

Non è richiesta, al datore di lavoro, l’adozione di precise formule di stile, né l’osservanza di schemi rigidi e prestabiliti nella redazione della lettera di contestazione disciplinare, posto che, come sottolineato dalla Suprema Corte, la contestazione opera allo stesso modo di “come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa” (Cassazione, 14 maggio 2014, n. 10662).

Certamente, però, la contestazione deve essere effettuata in forma scritta, rilevandosi, in mancanza, la nullità della stessa e dell’intera procedura disciplinare.

Come sancito dalla Suprema Corte, infatti, la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve, a tal fine, rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o, comunque, comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ.

L’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione disciplinare costituisce, dunque, oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (cfr. in tale senso Corte Cassazione, Sez. Lav., sentenza del 02 maggio 2023 n. 11344, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

Inoltre, va rilevato come il principio di specificità della contestazione disciplinare risulti integrato anche attraverso il rinvio a fonti esterne, che consentono comunque ed in concreto al lavoratore di conoscere i fatti contestati (cfr. in tale senso Corte Cassazione, Sez. Lav., sentenza del 18 aprile 2023 n. 10237, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

Tale principio, chiaramente, opera ad ampio raggio in relazione a tutti gli elementi costituivi del fatto contestato, ma anche in relazione agli elementi di richiamo che assumono particolare importanza in sede di connotazione dell’addebito disciplinare.

Pensiamo, ad esempio, al profilo della recidiva, di cui la contestazione deve contenere esplicito riferimento affinché sia possibile dedurne la rilevanza ai fini della determinazione della sanzione finale.

Anche per la recidiva, infatti, vige il principio di specificità, tanto che il datore di lavoro, pena la nullità della sanzione, dovrà chiaramente indicare quali fatti intende contestare nell’arco del biennio (Cass. civ., sez. lav., 25-01-2018, n. 1909), considerando, oltretutto, il principio per cui la recidiva disciplinare, anche specifica (e dunque relativa ai medesimi fatti oggetto di nuova contestazione) non può dar luogo automaticamente al licenziamento disciplinare per giusta causa, essendo comunque sempre necessario il preventivo vaglio di rilevanza e gravità ancorato al caso di specie, valutabile successivamente in sede giudiziale ad opera del Giudice investito della questione.

Inoltre, l’ultimo comma dell’art. 7 St. lav. dispone come non possa tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione, periodo trascorso il quale i comportamenti in precedenza sanzionati perdono autonomo rilievo, pur potendo nondimeno essere citati quali circostanze che confermano la significatività degli addebiti mossi, ai fini di una valutazione complessiva della condotta attuale del dipendente (Cass. 14433/2017).

Il principio di immutabilità

Viene, quindi, in rilievo il secondo principio che caratterizza la contestazione disciplinare, ovvero quella della immutabilità, anch’esso finalizzato “(…) al pari di quello relativo alla necessaria specificità della contestazione, a garantire il diritto di difesa del lavoratore incolpato, diritto che sarebbe compromesso qualora si consentisse al datore di lavoro di intimare il licenziamento in relazione a condotte rispetto alle quali il dipendente non è stato messo in condizione di discolparsi” (cfr. Cass., 9 giugno 2016, n. 11868, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

Ne consegue, dunque, che i fatti posti a fondamento della contestazione effettuata nei confronti del lavoratore devono corrispondere a quelli posti a base del successivo provvedimento disciplinare, non potendo il datore di lavoro modificare le imputazioni addebitate al dipendente in sede di avvio del procedimento disciplinare e, così, ledere il diritto di difesa (anche potenziale) del lavoratore, pena l’illegittimità della sanzione applicata.

Non va, nondimeno, sottaciuto come l’interpretazione applicativa di tale principio vada temperata con le effettive peculiarità della condotta rilevata nel caso concreto, essendo ammessa, ad esempio, la modifica o la correzione datoriale di circostanze non rilevanti rispetto al fatto fondante la contestazione, così come la possibilità di una differente valutazione giuridica sotto il profilo qualificatorio degli elementi materiali posti a fondamento dell’addebito e rimasti identici nella loro fisionomia.

Ecco che, allora, il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, che vieta di infliggere una sanzione sulla base di fatti diversi da quelli contestati, può ritenersi violato qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa, implicano una diversa valutazione dei fatti addebitati.

La violazione del principio in esame non si verifica, invece, nel caso opposto in cui, a fronte della contestazione di plurime e autonome condotte di rilievo disciplinare, che anche singolarmente considerate costituiscono, secondo la prospettazione datoriale, una gravissima violazione dei doveri di diligenza e fedeltà, il giudice prenda in esame solo alcune di esse, connotate da maggiore gravità, e le reputi esaustive ai fini della integrazione della giusta causa di recesso.

Né, ancora, integra violazione del principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento del provvedimento sanzionatorio la diversa qualificazione giuridica, nella lettera di contestazione disciplinare e nella sanzione, del medesimo fatto materiale (cfr. in tale senso Corte Cassazione, Sez. Lav., sentenza del 07 settembre 2023 n. 26043, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

Ciò che conta, dunque, è che parte datoriale non utilizzi circostanze diverse rispetto a quelle inizialmente indicate così da variare, nella sostanza, la contestazione avanzata nei confronti del proprio dipendente, con la logica conseguenza che la sanzione non potrà per ciò solo basarsi su un fatto totalmente estraneo rispetto a quello contestato.

 

Il principio di tempestività

La contestazione disciplinare deve rispettare, infine, il principio di tempestività o immediatezza, che mira a garantire l’esistenza di un intervallo di tempo quanto più esiguo possibile tra la commissione del fatto da parte del lavoratore e l’avvio del procedimento disciplinare.

La ratio sottesa all’elaborazione di tale principio sostanziale, infatti, riposa sul profilo per cui il decorso di un periodo considerevole rispetto alla commissione del fatto da parte del lavoratore potrebbe ledere il diritto di difesa di quest’ultimo o quantomeno renderne più difficoltosa la realizzazione, perché il dipendente potrebbe trovarsi nella spiacevole situazione di non riuscire a ricostruire la corretta dinamica dei fatti oggetto di contestazione ovvero a non reperire più fonti di prova a sostegno della propria tesi difensiva.

Al contrario, appare evidente come tanto più la contestazione venga effettuata a ridosso dei fatti tanto più efficacemente il dipendente incolpato potrà difendersi in ordine agli stessi.

Ma non è tutto.

Vi è, invero, un altro profilo sostanziale che opera in stretta connessione con l’applicazione del principio di tempestività ed è quello che attiene all’affidamento del lavoratore nell’intervenuta rinuncia all’esercizio del potere disciplinare, da parte datoriale, rispetto alla condotta contestata.

Il decorso di un periodo di tempo troppo lungo tra la contestazione del fatto e la reazione datoriale potrebbe, infatti, legittimamente indurre il prestatore a ritenere che il datore di lavoro abbia implicitamente abbandonato la propria volontà di applicazione della conseguente sanzione disciplinare, con contestuale esaurimento della potestà punitiva concessa dall’ordinamento.

Eppure, va sin da subito sottolineato come il requisito della tempestività della contestazione non possa che essere inteso in senso relativo, siccome influenzabile da diversi elementi e certamente compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo in relazione alle diverse casistiche.

Non è, infatti, possibile ritenere automaticamente violato il principio di tempestività sulla base del solo decorso di un intervallo temporale, ancorché lungo, tra l’illecito commesso e la contestazione disciplinare.

Va, invero, al riguardo evidenziato come, in primo luogo, la tempestività nell’apertura del procedimento disciplinare debba essere valutata in relazione al momento in cui il datore di lavoro ha avuto effettiva conoscenza del fatto e non a quello in cui lo stesso è stato commesso né a quello dell’astratta percettibilità o conoscibilità dello stesso (cf. Cass., n. 10356/2016), potendo intercorrere anche diverso tempo tra le due circostanze niente affatto sovrapponibili.

Vi è, inoltre, da considerare come, in determinati casi, possa capitare che la complessità della struttura organizzativa dell’impresa o la particolare difficoltà della ricostruzione dei fatti e dell’accertamento delle condotte oggetto di contestazione possano determinare un ritardo nell’instaurazione del procedimento disciplinare da parte del datore di lavoro.

Dunque, la tempestività della contestazione (e, poi, della sanzione, come vedremo) la cui ratio riflette l’esigenza di osservanza della regola di buona fede e correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, deve essere intesa in senso relativo, potendo essere compatibile, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati, così come per la valutazione delle giustificazioni fornite dal dipendente.

Resta in ogni caso riservata al giudice di merito, come sancito dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, la valutazione delle circostanze di fatto che, in concreto, giustificano il ritardo, essendo del resto la compiuta valutazione insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (cfr. Cass., S.U., 27 dicembre 2017, n. 30985).

 

Le conseguenze nei casi di contestazione tardiva

Vi è a questo punto da segnalare, in stretta connessione e consequenzialità con le considerazioni espresse in relazione al punto che precede, la contrapposizione giurisprudenziale registratasi, negli anni, in relazione alle conseguenze giuridiche derivanti dalla violazione del principio di tempestività nel procedimento disciplinare, potendosi ricondurre le diverse pronunce intervenute in materia a due orientamenti di base.

Il fulcro dibattimentale sul tema, infatti, ha tratto origine dalla novella apportata dalla c.d. Legge Fornero (L. 92/2012) sull’impianto sostanziale dell’art. 18 St. Lav. (L. 300/70), considerando la profonda diversificazione di disciplina connessa alla ampia divaricazione delle conseguenze sanzionatorie connesse alla sussistenza di vizi formali o sostanziali del licenziamento, a differenza di quanto previsto nel testo normativo precedente, nel quale la tutela reale costituiva la sanzione applicabile per tutti i casi di illegittimità di natura sia sostanziale che formale.

Ebbene, secondo parte della giurisprudenza la mancanza di tempestività rappresenterebbe un vizio di natura sostanziale dell’atto di recesso, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18 St. Lav.

La Suprema Corte, nell’indicata pronuncia, ha infatti evidenziato come “Un fatto non tempestivamente contestato ex art. 7, L. n. 300/70 non può che essere considerato come ‘insussistente’ non possedendo l’idoneità ad essere verificato in giudizio. Si tratta in realtà di una violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro a carattere radicale che, coinvolgendo i diritti di difesa del lavoratore, impedisce in radice che il Giudice accerti la sussistenza o meno del ‘fatto’, e quindi di valutarne la commissione effettiva, anche a fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori” (Cass., 31 gennaio 2017, n. 2513, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

Secondo altro orientamento, invece, la mancanza di tempestività sarebbe da ricondurre nell’alveo applicativo dell’art. 18, comma 5 dello Statuto dei Lavoratori, con la conseguente applicazione della c.d. tutela indennitaria forte.

Ed è proprio tale secondo indirizzo che è stato suggellato dall’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, nel risolvere il rappresentato contrasto giurisprudenziale, hanno chiarito come “la violazione derivante dalla tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare è sanzionabile alla stregua del citato all’art. 18, comma 5 da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale, secondo il quale il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità (…)”. (Cfr. Cass. S.U. sentenza n. 30985 del 27 dicembre 2017, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

Ed è proprio tale secondo indirizzo che è stato suggellato dall’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, nel risolvere il rappresentato contrasto giurisprudenziale, hanno chiarito come “la violazione derivante dalla tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare è sanzionabile alla stregua del citato all’art. 18, comma 5 da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale, secondo il quale il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità (…)”. (Cfr. Cass. S.U. sentenza n. 30985 del 27 dicembre 2017, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

Il termine a difesa

E veniamo ora alla disamina dell’opzione difensiva del lavoratore destinatario della contestazione disciplinare.

Ebbene, l’art. 7 St. Lav. al quinto comma stabilisce che i provvedimenti disciplinari (fatta eccezione per il rimprovero verbale) non possono essere adottati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione scritta dell’addebito, ovvero prima che sia decorso il più lungo termine eventualmente indicato dal contratto collettivo di lavoro applicato al rapporto in questione, così da consentire al lavoratore destinatario dell’addebito disciplinare di presentare, eventualmente, le proprie giustificazioni avvalendosi, se lo ritiene opportuno, dell’assistenza di un rappresentante sindacale.

Si tratta del c.d. termine a difesa, il cui mancato rispetto determina l’illegittimità della sanzione eventualmente comminata per violazione del diritto di difesa del lavoratore, sempre non dimenticando come le giustificazioni costituiscano un atto recettizio e debbano, dunque, pervenire nella sfera di conoscenza del datore di lavoro entro detto termine, non rilevando il momento dell’invio pur se antecedente al compimento dei 5 giorni, da considerarsi di calendario e non lavorativi, come tali comprensivi anche dei giorni festivi intermedi (Cass. 7097/2001).

Eppure, ci si chiede se il datore di lavoro sia sempre tuto al rispetto di tale periodo computazionale a carattere sospensivo, ovvero possa, in determinati casi, procedere alla comminazione del provvedimento prima che siano trascorsi i termini a difesa del lavoratore.

Ebbene, la positiva risposta a tale quesito arriva dall’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, che hanno avuto modo di evidenziare come la sanzione può essere legittimamente irrogata prima della scadenza del termine di 5 gg. quando il lavoratore abbia esercitato il proprio diritto di difesa facendo pervenire le proprie giustificazioni, senza manifestare riserve su ulteriori difese (Cass. S.U. 6900/2003).

Va, inoltre, sottolineato come, nell’ambito del procedimento di contestazione disciplinare regolamentato dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970, ove il lavoratore, pur dopo la scadenza del termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito, richieda un supplemento di difesa, anche se la stessa si sia svolta con l’audizione personale o con la presentazione di giustificazioni scritte, l’obbligo del datore di lavoro di dar seguito alla richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad esigenze di difesa non altrimenti tutelabili, in quanto non sia stata possibile la piena realizzazione della garanzia apprestata dalla legge.

Conseguentemente, la presentazione di ulteriori difese dopo la scadenza del tempo massimo deve essere consentita solo nell’ipotesi in cui entro questo termine il lavoratore non sia stato in grado di presentare compiutamente la propria confutazione dell’addebito e la valutazione di questo presupposto va operata alla stregua dei principi di correttezza e buona fede che devono regolare l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro. (cfr. in tale senso Corte Cassazione, Sez. Lav., sentenza del 01 agosto 2023 n. 23420, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

In ogni caso, va ricordato come il lavoratore che non si avvale del diritto alla difesa non vede pregiudicato il diritto ad impugnare il provvedimento disciplinare, trattandosi di una mera facoltà ade esso riservata, da cui consegue che l’eventuale silenzio non inibisce future impugnazioni giudiziali né la possibilità di giustificare, in tale sede, le proprie condotte.

L’audizione orale del lavoratore

Se però il lavoratore, nel termine dei 5 giorni previsti dal citato art. 7 dello St. lav. chiede un’audizione per rendere le proprie giustificazioni oralmente, anche ove tale richiesta sia contenuta nella comunicazione contenente le proprie difese scritte e queste ultime appaiano già di per sé ampie ed esaustive, il datore di lavoro non può omettere di ascoltare il dipendete, pena la illegittimità della successiva sanzione disciplinare, siccome comminata in lesione del suo diritto di difesa.

Ed invero, il datore di lavoro è tenuto a provvedere all’audizione senza poter sindacare la necessità o opportunità della integrazione difensiva, non sussistendo ragioni per limitare il diritto di difesa, preordinato alla tutela di interessi fondamentali del lavoratore, in assenza di un apprezzabile interesse contrario della parte datoriale, che riceve comunque adeguata tutela dalla stringente cadenza temporale che regola il procedimento disciplinare (cfr. in tale senso Corte Cassazione, Sez. Lav., sentenza del 06 marzo 2023 n. 6555, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

Vanno a tal riguardo evidenziate alcune direttrici operative di base, partendo dalla considerazione, ad esempio, per cui non sono necessarie particolari formalità di svolgimento dell’audizione orale del lavoratore, risultando comunque opportuna, anche se non obbligatoria, la redazione di un verbale delle dichiarazioni rese, al fine di dimostrare l’effettivo svolgimento dell’incontro e cristallizzare la narrazione del dipendente intervenuto.

Vi è, poi, da rilevare come il lavoratore abbia diritto di farsi assistere da un rappresentante sindacale ma non dal proprio avvocato (Cass.6994/2018) e come, qualora lo stesso abbia richiesto di essere ascoltato e abbia poi domandato il differimento della fissata audizione attestando un impedimento per motivi di salute, il datore di lavoro non possa omettere la convocazione in questione, salvo che risulti prima facie il carattere pretestuoso e meramente dilatorio della richiesta di differimento proposta dal dipendente.

L’obbligo datoriale di procedere all’audizione del dipendente raggiunto da una contestazione disciplinare, invero, non corrisponde un incondizionato diritto di quest’ultimo al differimento dell’incontro in cui deve essere sentito, atteso che la violazione del predetto obbligo dà luogo alla nullità della sanzione solo ove sia dimostrato dall’interessato un pregiudizio al concreto esercizio del diritto di difesa.

E’, dunque, onere del dipendente provare di non avere potuto presenziare all’audizione a causa di una patologia così grave da risultare ostativa in assoluto all’esercizio di quel diritto, dovendosi ritenere che altre malattie non precludano all’incolpato diverse forme partecipative (quali, ad es., l’invio di memorie esplicative o di delega difensiva ad un avvocato) tali da consentire al procedimento di proseguire nel rispetto dei termini perentori finali che lo cadenzano (cfr. in tale senso Corte d’Appello Catanzaro, Sez. Lav., sentenza del 12 ottobre 2023 n. 1034, riportata nella selezione giurisprudenziale in calce).

La sospensione cautelare

Un brevissimo accenno, nondimeno, merita di essere rivolto con riferimento allo strumento della sospensione cautelare del lavoratore dal servizio, quale facoltà attribuita al datore di lavoro durante lo svolgimento del procedimento disciplinare.

Ed invero, parte datoriale può sospendere cautelarmente il dipendente dal lavoro nel caso in cui la permanenza in azienda del lavoratore costituisca pericolo di inquinamento delle prove, oppure per impedire il compimento di azioni e fatti che possono comportare danni all’incolumità fisica dei lavoratori o alla sicurezza degli impianti.

Per l’adozione di tale atto datoriale è, dunque, richiesta la ricorrenza di gravi motivi, tenendo sempre ben presente la fondamentale distinzione tra tale misura cautelare rispetto alla differente figura della sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.

La sospensione cautelare, che non costituisce sanzione disciplinare, infatti, si caratterizza per l’essere retribuita (dovendo, comunque, il datore di lavoro corrispondere il compenso al prestatore sospeso dal servizio, in quanto tale forma di sospensione evita la presenza in azienda del lavoratore fino all’adozione della sanzione ma non lo priva del diritto alla retribuzione) e per la possibilità di essere disposta per un periodo più ampio di quello consentito in sede di sospensione disciplinare dall’art. 7 della Legge 300/1970, oltre al fatto che non si applicano le garanzie del procedimento disciplinare (Cass. 3076/2016).

L’adozione del provvedimento sanzionatorio

Una volta concluso l’iter di notifica della contestazione disciplinare e di ricezione delle eventuali giustificazioni (scritte o orali) del lavoratore, la parte conclusiva del procedimento disciplinare si incentra sull’adozione del provvedimento sanzionatorio ad opera del datore di lavoro.

Anche in questo caso, appare importante sottolineare come la stessa concretizzazione della scelta punitiva datoriale sia soggetta al rispetto di alcuni principi fondanti, articolati per regolarne la corretta attuazione con opportuno bilanciamento degli interessi in gioco.

Viene così in rilievo:

La tempestività del provvedimento sanzionatorio

E bene, al riguardo, subito precisare come l’art. 7 Legge 300/1970 non indichi un termine espresso per l’irrogazione della sanzione disciplinare, se pure appare indubbio come anche l’adozione del provvedimento sanzionatorio inevitabilmente soggiaccia al criterio della necessaria tempestività, specie, ad esempio, in ipotesi di licenziamento del dipendente per giusta causa, in quanto una eccessivo lasso di tempo tra la contestazione e la sanzione contrasterebbe con il presupposto stesso sancito dall’art. 2119 c.c. della impossibilità della prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto di lavoro.

Senonché, a supplire tale carenza espressa di circoscrizione validante a carattere temporale intervengono, molto spesso, i contratti collettivi nazionali di lavoro, all’interno dei quali, solitamente, le parti sociali prevedono l’esplicitazione di un termine per l’irrogazione della sanzione disciplinare, oltre il quale si presume che il datore abbia accettato tacitamente le giustificazioni fornite dal lavoratore.

Ne consegue, allora, come il mancato rispetto dei termini stabiliti dalla contrattazione, così come l’ingiustificabile intempestività, comportino, a caduta, la nullità della sanzione disciplinare, con ogni conseguenza di legge.

E trattandosi, anche in questo caso, di atto recettizio (così come indicato con riferimento alla formalizzazione delle giustificazioni prima della scadenza del termine a difesa), al fine di evitare l’illegittimità derivante dalla violazione del principio di tempestività della sanzione, si è a lungo discusso in merito all’efficacia conseguente ai tempi di trasmissione degli atti per il tramite del servizio postale.

Sul punto, nonostante la non sempre concordanza delle pronunce giurisprudenziali, sembra possibile sottolineare come, costituendo gli atti della procedura disciplinare tipici “atti unilaterali di carattere ricettizio”, gli stessi acquisiscono valore non quando vengono consegnati al servizio postale o semplicemente elaborati dall’emittente, ma quando giungono a conoscenza del destinatario, con ogni conseguente derivazione civilistica in termini di effettiva entrata nella sfera conoscitiva del soggetto ricevente.

La proporzionalità della sanzione

La sanzione, tuttavia, non deve solo essere tempestiva ma deve anche essere proporzionale alla gravità del fatto, alla luce di tutte le circostanze che caratterizzano la vicenda disciplinare, sotto il profilo soggettivo, oggettivo ed in relazione alla gradazione prevista dalle fonti collettive di matrice pattizia, in uno al rispetto dei canoni di correttezza e buona fede che, comunque, contribuiscono a qualificare la valutazione complessiva del rapporto in essere.

Va però ricordato come la valutazione della condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà deve essere compiuta tenendosi conto anche del disvalore ambientale che la condotta stessa assume e, viceversa, della funzione di dissuasione contro il ripetersi di mancanze dello stesso tipo, peculiarmente svolta dal procedimento disciplinare.

Chiaramente, una volta irrogata e portata a conoscenza del lavoratore la sanzione disciplinare è immediatamente efficace, con la conseguente successiva traslazione della potestà accertativa in sede giudiziale, posto che il giudizio sull’accertamento del fatto, sulla gravità del medesimo, sulla proporzionalità della reazione sanzionatoria rispetto alla condotta appartiene al giudice di merito ed è sindacabile in Cassazione solo per vizio di motivazione.

Considerazioni conclusive

Come abbiamo visto, l’esercizio del potere disciplinare rappresenta, nel sistema giuslavoristico nostrano, una tipica prerogativa datoriale, esercitabile nei confronti dei dipendenti che abbiano agito senza il rispetto o in violazione delle direttive impartite, ovvero abbiano contravvenuto agli obblighi di diligenza, di obbedienza, di fedeltà e, più in generale, agli obblighi contrattuali di matrice lavorativa in senso lato, ovvero ancora abbiano adottato condotte contrarie al c.d. minimo etico o alle più comuni norme di legge, ordine pubblico e del corretto vivere sociale.

È, infatti, rimessa alla scelta del datore di lavoro la decisione di procedere, dinanzi ad un inadempimento degli obblighi propri del rapporto di lavoro ad opera del dipendente, con l’irrogazione sanzionatoria o meno, senza però dimenticare come, per le ragioni esaminate, appare comunque evidente che tale esercizio non è del tutto libero, restando il potere disciplinare soggetto a limiti di natura sostanziale e procedurale, stabiliti, in primo luogo, dall’articolo 7 dello statuto dei lavoratori e delle disposizioni di alcuni CCNL.

In tale contesto, la stessa ratio sottesa all’intera impostazione della procedimentalizzazione disciplinare risulta incentrata sulla garanzia del contraddittorio tra le parti e sul pieno esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, essendo oltremodo chiari i principi fondanti che regolano l’intero procedimento e che appaiono riconducibili ai requisiti di specificità e immutabilità della contestazione, alla tempestività dell’addebito ma anche dell’adozione del provvedimento sanzionatorio, alla proporzionalità della reazione datoriale ed al generale rispetto dei criteri di correttezza e buona fede che connotano l’esecuzione dell’intera fase procedurale.

La specifica indicazione delle condotte sanzionabili e dei provvedimenti irrogabili a fronte di ogni singola infrazione viene rimessa alla pubblicazione e pubblicizzazione del codice disciplinare, la cui assenza può comportare la nullità stessa del provvedimento adottato, ma non nei casi di commissione di fatti gravissimi da parte del dipendente (tali da non consentire la prosecuzione dell’attività lavorativa), traendo tale opzione una derivazione autorizzativa diretta dal disposto codicistico dell’art. 2119 c.c. in materia di giusta causa e dall’art. 3 della legge 604/66 per il giustificato motivo, così come quando il comportamento contestato è immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale.

Certamente. nel tempo intercorrente tra la contestazione disciplinare ed il provvedimento sanzionatorio parte datoriale potrà ricorrere anche allo strumento della sospensione cautelare del dipendente, nel caso in cui la permanenza in azienda del lavoratore costituisca pericolo di inquinamento delle prove, oppure per impedire il compimento di azioni e fatti che possono comportare danni all’incolumità fisica dei lavoratori o alla sicurezza degli impianti.

Ciò in quanto, nell’ossatura ordinamentale, il datore di lavoro rappresenta il principale artefice e garante del buon funzionamento dell’organizzazione dei fattori produttivi ed, in ultima istanza, del regolare svolgimento dell’attività di impresa ed è su di lui che si articola il concreto esercizio di quella libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., che, non a caso, trova uno dei propri corollari applicativi proprio nell’attribuzione del potere datoriale di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell’illecito accertato.
Avv. Antonino Sugamele

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