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Sentenza

L’evoluzione della disciplina in materia di licenziamento per giusta causa...
L’evoluzione della disciplina in materia di licenziamento per giusta causa

Ora, l’art. 3 della legge n. 604/1966 identifica la nozione di giustificato motivo soggettivo come «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro» che legittima il recesso unilaterale del datore di lavoro, nel rispetto dei termini di preavviso contrattualmente previsti.

Anche il giustificato motivo soggettivo, come la giusta causa, costituisce, dunque, ragione giustificativa del licenziamento disciplinare, che il datore di lavoro può far valere a fronte di un comportamento del lavoratore contrario ai propri doveri contrattuali, sempre nel rispetto dei dettami procedurali vigenti in materia e, dunque, delle tutele che caratterizzano il procedimento disciplinare, come sancite dal disposto dell’art. 7 st. lav., integrato secondo le regole e tempistiche previste dal contratto collettivo che regola il rapporto.

Posto, allora, come nella nozione di licenziamento “ontologicamente” disciplinare rientrino sia il licenziamento per giusta causa sia quello per giustificato motivo soggettivo, l’ancoraggio differenziale di una determinata condotta, con la conseguente riconducibilità della stessa nell’alveo della giusta causa piuttosto che del giustificato motivo soggettivo, è stato determinato con riferimento alla valorizzazione del c.d. aspetto “quantitativo”, ritenendo dirimente il diverso grado di gravità del fatto contestato al lavoratore.

Giusta causa e giustificato motivo soggettivo, infatti, possono essere ritenute qualificazioni giuridiche di comportamenti che, pur egualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro (in quanto mancanze “non di scarsa importanza”, secondo le regole generali in tema di inadempimento, cfr. art. 1453 c.c. e ss.), incidono con un diverso grado di intensità sul vincolo fiduciario.

Ecco allora che giusta causa e giustificato motivo soggettivo potrebbero essere a buon diritto qualificate come due species dello stesso genus (i.e.: causa giustificativa del licenziamento disciplinare), differenziate solo per la gravità delle mancanze poste in essere dal prestatore di lavoro (Cass. 13 aprile 2011, n. 8456).

In tal senso, quindi, il giudice ben può “derubricare” la “giusta causa” di licenziamento in “giustificato motivo soggettivo”, laddove il fatto addebitato al lavoratore sia considerato di minore gravità, anche d’ufficio (Cass. 17 dicembre 2010 n. 25587; Cass. 14 giugno 2005 n. 12781; nello stesso senso, Cass. 27 febbraio 2004, n. 4050; Cass. 6 giugno 2000, n. 7617).

Per altro orientamento, invece, il discrimen tra le due nozioni dovrebbe essere individuato in termini “qualitativi”, in quanto il giustificato motivo soggettivo attiene solo all’inadempimento degli obblighi contrattuali, mentre la giusta causa può consistere anche in comportamenti tenuti al di fuori del rapporto di lavoro purché idonei a ledere il vincolo fiduciario.

Posizione del lavoratore nell’organizzazione aziendale come elemento di valutazione

A prescindere dalla differenza, qualitativa o quantitativa, tra le nozioni di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, nella valutazione del giudice rileva in ogni caso la posizione che il lavoratore riveste all’interno dell’organizzazione aziendale, siccome incidente non solo sul grado di fiducia del datore di lavoro e sull’aspettativa circa il corretto adempimento della prestazione, ma anche sulla valutazione della gravità dell’inadempimento (Cass. 4 giugno 2019, n. 15168).

Una medesima condotta del lavoratore, invero, può acquisire maggiore o minore gravità a seconda della sua inerenza alle mansioni e alle responsabilità attribuite al lavoratore.

A fronte di un licenziamento per giusta causa intimato al dipendente che aveva utilizzato la rete web e gli strumenti aziendali per scopi estranei all’azienda, in favore di terzi e con impegno personale parallelo a quello lavorativo, ad esempio, la Suprema Corte ha attribuito particolare rilevanza - così ritenendo legittima la decisione datoriale - al ruolo dallo stesso ricoperto nell’organizzazione aziendale, di responsabile dei trattamenti di manutenzione delle apparecchiature hardware e software installate in azienda (Cass. 28 gennaio 2013, n. 1813).

Allo stesso modo, la Suprema Corte ha valorizzato il “grado di fiducia che il datore di lavoro deve porre rispetto ad una attività svolta dal dipendente al di fuori della sfera di sorveglianza diretta di chi sia addetto al controllo”, relativamente a un caso di un viaggiatore piazzista licenziato per irregolarità per rimborsi spese da pranzi di lavoro nell’arco di un periodo di diversi mesi (cfr. Cass. 23 agosto 2018, n. 21045), così come, ad esempio, in ambito bancario, è stato ritenuto giustificato il licenziamento di un capo filiale a cui era stata contestata l’apertura irregolare di 30 conti correnti in virtù della sua «posizione di elevata responsabilità» (Cass. 30 ottobre 2017, n. 25762).

Parimenti, la Cassazione (Cass. 28 settembre 2018, n. 23605) ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente di banca «considerata la delicatezza insita nella concessione di un fido e la rilevante violazione dei doveri di diligenza».

Come evidenziato dagli Ermellini, infatti, la condotta di istruire, con firme apocrife del cliente, un secondo contratto di apertura di credito, così modificando in modo sostanziale un dato essenziale del sinallagma contrattuale ed esponendo la banca al pericolo concreto di disconoscimento delle firme, costituisce una violazione così intensa dei doveri di diligenza e fedeltà che connotano il rapporto di lavoro subordinato, da incidere in modo irreversibile sull’elemento fiduciario dello stesso.

Non può, invero, non esser adeguatamente considerato come la violazione di tali doveri risulti ancor più grave considerato il ruolo di responsabilità affidato al dipendente e, quindi, la pretesa ancor più forte del datore di lavoro di poter contare sull’esatto adempimento da parte del dipendente delle obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro.

E si badi che tale rilievo assume peculiare importanza proprio con riferimento al rapporto dirigenziale, ove, ferma la nozione di giusta causa, il recesso è legittimo se fondato su qualunque fatto idoneo a ledere il vincolo fiduciario, in ragione del ruolo del dirigente nell’organizzazione aziendale e della peculiarità del rapporto che intercorre tra lo stesso e il datore di lavoro.

Vero è che siamo nell’abito della cd. giustificatezza del recesso datoriale (quale caratterizzazione propria della regolazione giuslavoristica dell’ambito dirigenziale), ma nondimeno l’accostamento è utile per sottolineare, in via rafforzativa del profilo sulla rilevanza della posizione lavorativa ai fini valutativi della condotta contestata, come l’inquadramento apicale di un soggetto comporti la costituzione di un vincolo fiduciario particolarmente inteso, cui consegue la rilevanza disciplinare di condotte che, per altri lavoratori privi della qualifica dirigenziale, non integrerebbero motivo di licenziamento.
Avv. Antonino Sugamele

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