La clausola “visto e piaciuto” esclude sempre la responsabilità del venditore?
Il contesto normativo
Il contratto di vendita, disciplinato agli artt. 1470 ss. c.c., ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa, ovvero il trasferimento di un altro diritto, verso il corrispettivo di un prezzo.
Tra le principali obbligazioni, ai sensi dell’art. ;1498 c.c., l’acquirente è tenuto al pagamento del prezzo, mentre il venditore, a sua volta, è tenuto alla consegna della cosa, o a procurarne la proprietà, qualora l’acquisto non rappresenti un effetto immediato del contratto, come nella cosa futura o altrui.
Il venditore deve inoltre garantire, nei confronti della parte acquirente, che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso cui è destinata, ovvero ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore.
L’art. 1490 c.c., rubricato «Garanzia per i vizi della cosa venduta», stabilisce che: «Il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore.
Il patto con cui si esclude o si limita la garanzia non ha effetto se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa».
Va inoltre precisato che la garanzia per vizi può essere contrattualmente esclusa: il compratore acquista il bene nello stato in cui si trova al momento della vendita e, in virtù degli artt. ;1940 e 1491 c.c., il patto non ha effetto se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa.
Le clausole negoziali che limitano la garanzia dovuta dal venditore, ai sensi dell’art. 1490 c.c., rivestono carattere vessatorio e, di conseguenza, per essere valide, devono essere specificamente approvate per iscritto, conformemente alla prescrizione di cui all’art. 1341 c.c. (Cass. civ., Sez. II, 23 dicembre 1993, n. 12759).
Ulteriore distinzione concerne il confine tra la garanzia per i vizi della cosa venduta, disciplinata dall’art. 1490 c.c. e la garanzia per buon funzionamento, prevista dall’art. 1512 c.c.: quest’ultima fa gravare in capo all’acquirente l’onere di dimostrare il cattivo funzionamento del bene venduto, mentre la prima impone al compratore anche l’onere di dimostrare la sussistenza dello specifico vizio che rende la cosa venduta non idonea all’uso cui essa è destinata.
Garanzia per vizi di beni usati: diversità tra codice civile e disciplina consumeristica valutata in maniera molto rigorosa dalla giurisprudenza.
Il Codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), plurime volte aggiornato, prevede una disciplina speciale, in deroga a quella ordinaria del codice civile, applicabile quando uno dei contraenti è un consumatore, ossia una persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta. Il codice civile, operativo pure in ambito di rapporti tra professionisti (business to business), non distingue tra beni nuovi e usati in tema di responsabilità per vizi della cosa venduta (art. 1490 c.c.). Il Codice del consumo prevede, invece, una garanzia biennale per i beni nuovi e, specificamente per i beni usati, consente alle parti di concordare una riduzione della durata della garanzia a non meno di un anno (art. 134, comma 2), in conformità all’art. 7 della direttiva europea 1999/44/CE, recepita nel nostro ordinamento. Inoltre, l’art. 128 del Codice del consumo stabilisce che la garanzia per i beni di consumo usati si applica tenendo conto del pregresso utilizzo, limitatamente ai difetti non derivanti dall’uso normale del bene. Diversamente dal codice civile, il Codice del consumo vieta in modo espresso (art. 134) qualsiasi patto, anteriore alla comunicazione al venditore del difetto, preordinato a escludere o limitare i diritti del consumatore relativi alla garanzia. La normativa vigente impone quindi che la garanzia per i beni usati, benché possa essere ridotta, non possa essere esclusa totalmente nei contratti con consumatori. La disciplina del codice civile sulle garanzie rimane in ogni modo rilevante, in particolare per quanto afferisce ai rapporti tra professionisti o gli accordi con consumatori non coperti dal Codice del consumo. L’art. 1490 c.c. infatti prevede l’esclusione della garanzia se il compratore conosceva o avrebbe potuto facilmente riconoscere i vizi, salvo che il venditore abbia dichiarato che il bene era esente da vizi. Tale esclusione si applica anche alla clausola “visto e piaciuto”, che tuttavia risulta inefficace se il venditore ha in mala fede occultato i vizi. La giurisprudenza attuale interpreta questa malafede in senso estensivo, ritenendo il venditore professionalmente responsabile anche per i vizi che avrebbe dovuto conoscere in ragione della propria esperienza, ai sensi dell’art. 1494 c.c. che impone al venditore il risarcimento del danno se non prova di aver ignorato senza colpa i vizi. Tali principi si applicano con particolare rigore nei contratti di vendita di beni usati tra professionisti e consumatori, rafforzando la tutela del compratore contro pratiche scorrette e occultamenti dolosi.
La garanzia per vizi nel contratto di vendita di beni usati
La clausola “visto e piaciuto” è tipica dei contratti di acquisto di beni usati, mobili (come veicoli e macchinari) e immobili, e attesta che l’oggetto non tanto è indenne da vizi, bensì è stato verificato ed è risultato indenne da vizi palesi, ovvero riconoscibili attraverso l’impiego dell’ordinaria diligenza. Tale impostazione origina dalla succitata pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ., Sez. II, 3 luglio 1979, n. 3741), dove si afferma l’esclusione della garanzia per i vizi a opera della “clausola vista e piaciuta”, qualora si tratti di vizi riconoscibili e non taciuti in mala fede. In conformità a tale orientamento, la clausola in questione non può, in nessun caso, essere interpretata come rinuncia a far valere qualsiasi azione sulla qualità e sui vizi della cosa venduta, già esaminata (“vista”) dal compratore e dichiarata di sua soddisfazione (“piaciuta”).
La problematica principale riguarda, essenzialmente, l’individuazione dei limiti dell’esclusione della garanzia in essa contenuta, ai sensi dell’art. 1490, comma 2, c.c., laddove, in conformità all’art. ;1491 c.c., deve considerarsi esclusa la garanzia se al momento del contratto l’acquirente conosceva, o anche solo poteva facilmente con diligenza conoscere, i vizi della cosa stessa (cd. vizi riconoscibili), salva l’ipotesi che il venditore abbia espressamente dichiarato, e in tal modo garantito, che il bene era esente da vizi.
La clausola in commento indica la volontà dei contraenti di limitare, ovvero escludere, la garanzia per vizi, e che quindi il bene viene accettato dal nuovo proprietario nello stato in cui si trova al momento del passaggio di proprietà.
Nello stesso modo sarà esclusa la garanzia, in conformità del citato art. 1491 c.c., non solo laddove venga pattuita la clausola “visto e piaciuto” e comunque non vi siano vizi noti o riconoscibili, bensì anche nelle ipotesi ove i vizi non noti derivino in seguito al naturale stato di vetustà del bene, o da circostanze accidentali, e non da vizi occulti ovvero occultati dal venditore.
All’inverso, la garanzia dovrà considerarsi operante laddove il venditore ponga in essere atti o attività, quale a esempio la riparazione del bene, che comportino, seppur tacitamente, il riconoscimento dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1495 c.c., incompatibili con l’intenzione di respingere la pretesa del compratore, ovvero di far valere l’esclusione della garanzia, oppure la decadenza della medesima.
Sempre nell’ambito della vendita di beni usati, il sorgere dell’obbligo di prestare garanzia per i vizi della cosa, pur in presenza di vizi facilmente riconoscibili dall’acquirente, richiede una specifica assicurazione sull’assenza di vizi, con la quale il venditore abbia determinato un particolare affidamento del compratore, indotto a soprassedere all’esame della cosa e, quindi, a non scoprirne gli eventuali vizi (cfr. Cass. civ., Sez. II, 13 settembre 2004, n. 18352).
L’occultamento dei vizi, per assumere rilevanza, deve consistere non nel semplice silenzio serbato dal venditore, bensì in una particolare attività illecita, funzionale, con adeguati accorgimenti, a nascondere il vizio della cosa.
Dall’esame della disciplina, emerge che restano a carico dell’acquirente i vizi noti o anche solo riconoscibili, specie se viene specificata la condizione “visto e piaciuto”, mentre, al contrario, rimangono a carico del venditore i vizi occulti, o non riconoscibili, ovvero volutamente nascosti.
Beni usati: la distinzione tra “vizio” e “usura” o “logorio”
Tra le pronunce sul tema, si evidenzia che il Tribunale di Roma (13 luglio 2016, n. 14133), esaminando una fattispecie concernente la compravendita di un veicolo usato, sul quale furono in seguito riscontrati vizi, che era da destinare al trasporto di persone a titolo oneroso, preliminarmente ha escluso l’applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 128 e ss., D.Lgs. n. 206 del 2005 (cd. codice del consumo), in quanto destinata a operare con limitato riferimento ai contratti conclusi tra professionista e consumatore.
Nella specie, trovando vigenza gli artt. 1490 e ss. c.c., ha accertato che il venditore risulta gravato da un obbligo di diligenza relativo allo stato e alle caratteristiche della merce oggetto del trasferimento, dovendo consegnare all’acquirente beni che siano immuni da vizi che li rendano inidonei all’uso cui sono destinati, ovvero che ne riducano in maniera apprezzabile il valore e, comunque, beni che abbiano le caratteristiche e qualità promesse.
Tali considerazioni, tratte dalla disciplina codicistica della vendita, trovano applicazione anche per quella avente a oggetto beni usati, ancorché sia ipotizzabile un maggior margine di tolleranza da parte del compratore in ordine alla idoneità del bene acquistato, adeguatamente compensato dalla previsione di un prezzo inferiore a quello praticato per le cose nuove.
Nel caso concreto, il vizio occulto preesistente è stato ritenuto integrato da un malfunzionamento di rilievo, tale da richiedere la sostituzione dell’intero apparato del cambio del veicolo, a brevissima distanza dalla stipula del contratto di compravendita.
Inoltre, in relazione all’incidenza dell’usura sulle cose usate, in ordine all’applicabilità delle norme sulla garanzia per vizi, il riferimento al bene come “non nuovo” comporta che la promessa del venditore sia determinata dallo stato del bene stesso conseguente al suo uso, e che le relative qualità si intendano ridotte in ragione dell’usura.
Quest’ultima, ai fini dell’esclusione della garanzia, non va considerata come quella che, astrattamente, presenterebbe il bene utilizzato secondo la comune diligenza, bensì come quella “concreta” che scaturisce dalle reali vicende cui il bene stesso sia stato sottoposto nel periodo precedente la vendita (Corte d’Appello di Roma civ., Sez. II, 18 ottobre 2001).
La distinzione tra vizio e logorio è stata delimitata anche dalla sentenza resa dalla Suprema Corte nell’ottobre 2016 (Cass. civ., Sez. VI, 19 ottobre 2016, n. 21204), la quale ha puntualizzato l’operatività della garanzia per vizi, disciplinata dall’art. 1490 c.c., anche nei casi di vendita di cose mobili usate, dovendo rimanere il vizio della cosa ben distinto dal semplice logorio del bene, dovuto al normale uso dello stesso.
L’indagine ermeneutica
Non trovando, la clausola in commento, analitica previsione normativa e preso atto della scarsa produzione giurisprudenziale sul tema, sarà necessario, per l’interprete, principiare l’indagine dalla regola fondamentale dettata dal codice civile in tema di interpretazione, ancorata alla ricerca della «comune intenzione delle parti», senza «limitarsi al senso letterale delle parole» (in tal senso, l’art. 1362 c.c., comma 1).
Dall’impianto codicistico emerge che il testo del contratto è importante, tuttavia non decisivo per la ricostruzione della volontà delle parti.
Il senso di un testo scritto non rappresenta un a priori rispetto alla ricerca della volontà delle parti, bensì un posterius, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito soltanto al termine del processo interpretativo, il quale non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi.
E infatti un’espressione apparentemente chiara potrebbe cessare di essere tale, se collegata ad altre espressioni contenute nella medesima dichiarazione, ovvero posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.
L’art. 1362 c.c., come plurime volte ribadito in sede nomofilattica dalla Corte di Cassazione (ex multis Cass. civ., Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12954), impone all’interprete del contratto di ricostruire, in primo luogo, la volontà delle parti: per far ciò egli deve muovere dal testo contrattuale, ma deve anche verificare se questo sia coerente con la causa del contratto, le dichiarate intenzioni delle parti, e le altre parti del testo, né può il giudice sottrarsi a tale duplice indagine allegando una pretesa chiarezza del significato letterale del contratto, né tanto meno può limitarsi a prendere in considerazione una sola clausola, o solo una parte di essa, senza inserirla nel corpo del testo contrattuale.
Tanto premesso, in linea generale, nel contesto della pattuizione in commento va rilevata, in particolare, l’importanza dell’operazione ermeneutica nella delimitazione del confine tra quanto emerge, in senso letterale, dalle espressioni utilizzate dai contraenti, e la loro reale intenzione di escludere la garanzia.
Siffatta opera ermeneutica è stata posta in essere, e puntualmente esplicitata, in due recenti casi giudiziari: l’uno si è arresto al primo grado di merito, l’altro, passando per il vaglio del collegio arbitrale, è arrivato fino all’esame della Corte di legittimità.
Tribunale di Perugia 13 maggio 2014, n. 965: il vizio palese
Nella fattispecie esaminata dal Tribunale di Perugia (sentenza n. 965 del 13 maggio 2014), emergevano le seguenti circostanze di fatto: a) la vendita aveva a oggetto un mezzo usato, b) era espressamente pattuita l’esclusione della garanzia di cui agli artt. 1490 e 1497 c.c. in quanto il bene era acquistato “visto e piaciuto”; c) il vizio lamentato veniva contestato a circa 18 mesi di distanza dalla vendita; d) il difetto lamentato era “palese”, trattandosi della riparazione di uno dei componenti principali del bene, visibile al momento della compravendita; e) nel contratto sottoscritto dalle parti non era fatta menzione di specifiche qualità essenziali del mezzo, né di particolari condizioni in cui lo stesso, acquistato “visto e piaciuto”, doveva essere utilizzato.
Pertanto, trattandosi dell’acquisto di un mezzo usato, che presentava la riparazione di un componente principale immediatamente percepibile, la clausola di esonero della garanzia espressamente pattuita in contratto implicava, evidentemente, una limitazione dell’impegno traslativo del venditore, nel senso che all’alienazione del bene non si accompagnava la promessa (proprio perché si trattava di alienazione di un bene usato riparato in modo percepibile) che lo stesso avesse gli stessi requisiti non solo di qualità, ma anche di integrità, di un mezzo nuovo.
Da tali considerazione il giudice di merito ha concluso per la decadenza, da parte dell’acquirente, dell’azione ex artt. 1492 e 1497 c.c., nonché la mancata ricorrenza dell’aliud pro alio, tale da giustificare una domanda di risoluzione sottratta al termine decadenziale prescritto all’art. 1495 c.c.
Cassazione civ. 9 febbraio 2015, n. 2399: il comportamento tenuto dalle parti
La I Sezione civile della Corte di Cassazione (sentenza n. 2399 del 9 febbraio 2015), ha analizzato la fattispecie concernente il contratto di vendita di un complesso industriale dismesso, in relazione al quale le parti avevano convenuto la clausola di disciplina della garanzia per vizi secondo la formula “visto e piaciuto”.
Dopo un anno e mezzo circa, rispetto alla consegna del bene, l’acquirente comunicava all’alienante che, nel corso dei lavori di sbancamento del terreno, erano stati rinvenuti materiali inquinanti e contaminanti, invitando la stessa a provvedere al riguardo.
La venditrice provvide ad asportare, a proprie spese, i materiali inquinanti rinvenuti.
In seguito, trovato ulteriore materiale inquinante, l’acquirente, con missiva raccomandata, invitava nuovamente l’originaria proprietaria a proseguire la bonifica, che, invece, replicò di non essere tenuta a eseguire intervento alcuno.
L’acquirente promosse, quindi, giudizio arbitrale, dove si vide rigettare tutte le domande formulate.
Il collegio privato, in relazione alla clausola “visto e piaciuto”, affermava che la garanzia per vizi e difetti, di cui all’art. 1487 c.c., doveva essere esclusa, perché la comune intenzione delle parti era da intendersi nel senso di escludere l’estensione della clausola anche all’inquinamento del suolo.
L’acquirente impugnò il lodo innanzi alla Corte d’Appello competente, la quale ne dichiarava la nullità, condannando l’alienante al risarcimento dei danni in favore dell’acquirente, nonché all’integrale bonifica del terreno in questione.
Più in dettaglio, il giudice territoriale, con riferimento alla clausola di esonero della venditrice dalla garanzia secondo la formula “visto e piaciuto”, ne ha interpretato l’estensione sia letteralmente che sulla base del comportamento manifestato dai contraenti: ciò in quanto la “lettera” della clausola si riferiva esclusivamente ai fabbricati, alle attrezzature, agli impianti e ai macchinari, sia perché, «in ogni caso, il comportamento tenuto dalla alienante successivamente alla vendita conferma [....] il fatto che intenzione delle parti era escludere la garanzia solo per i manufatti e gli edifici e non anche per i vizi e difetti del suolo».
La Corte di Cassazione, col rigetto del ricorso proposto dall’alienante, avallava il dictum reso dalla Corte d’Appello, ponendo l’accento sul comportamento tenuto dall’alienante: in prima battuta, senza sollevare contestazione alcuna, aveva provveduto ad asportare, a proprie spese, i materiali inquinanti rinvenuti.
L’orientamento giurisprudenziale di merito che esclude la garanzia per vizi occulti
A seguito dell’enunciazione di legittimità formulata nella sopra richiamata sentenza del 1979, tra i giudici di merito, tuttavia, è emerso un orientamento tendente a escludere, tout court, qualsiasi garanzia del venditore sul bene alienato.
Significativa è la pronuncia emanata dal Tribunale di Modena (sentenza n. 1763 del 20 novembre 2012) chiamato a esaminare la pattuizione contenuta in un atto di compravendita immobiliare, ove le parti avevano convenuto che «quanto venduto è trasferito a corpo, nello stato di fatto e di diritto in cui si trova [...]. Parte acquirente dichiara di aver visitato quanto in oggetto, di averlo trovato di completo gradimento».
Nella fattispecie, la clausola “visto e piaciuto”, è stata individuata e trattata, dallo stesso giudice, quale “questione preliminare”, rendendo superfluo, di conseguenza, l’esame di ogni altra questione, sia di fatto che di diritto: «Nel caso di specie, l’individuazione concreta del complessivo regolamento di interessi posto in essere dalle parti, liberamente espresso e in assenza di condizioni di vessatorietà, conduce all’inopponibilità degli eventuali vizi del bene e in definitiva, a respingere la domanda di riduzione del prezzo e anche quella di risarcimento dei danni, in quanto non suscettibili di essere azionate nel rapporto contrattuale oggetto di causa».
Il Tribunale ha quindi aderito all’orientamento di merito che assegna, a simili pattuizioni, la capacità di escludere ogni garanzia per vizi (cfr. Trib. Casale Monferrato civ. 31 luglio 2000).
Solo l’anno precedente la richiamata pronuncia, il giudice territoriale di Firenze aveva avallato tale ermeneutica, ritenendo che la sottoscrizione della clausola contrattuale “visto e piaciuto”, apposta nella domanda di partecipazione a un’asta dove il compratore aveva dichiarato «di accettare integralmente, per il caso di aggiudicazione, la situazione di fatto e di diritto dell’immobile come visto e piaciuto», comportava la totale rinuncia alla garanzia per vizi, e non unicamente quelli visibili, bensì pure quelli occulti (Corte d’Appello di Firenze civ., Sez. I, 26 gennaio 2011, n. 134).
L’orientamento giurisprudenziale prevalente
L’uniforme indirizzo ermeneutico di legittimità, unitamente al prevalente orientamento di merito, si fonda sulla constatazione dell’operatività della garanzia per vizi, ex art. 1490 c.c., anche nelle fattispecie di vendita di beni usati, distinguendo il vizio occulto preesistente alla conclusione del contratto, dal mero logorio o usura del bene, imputabile all’ordinario uso del medesimo.
Per l’indirizzo in commento, inoltre, è pacifico che anche nell’ambito della vendita di beni usati i contraenti, in virtù dell’autonomia contrattuale riconosciuta dall’ordinamento, vantano la facoltà di derogare alla disciplina legale della garanzia per vizi della cosa venduta, inserendo nel contratto un’apposita clausola, consentita dall’art. 1490 c.c., comma 2, e debitamente approvata per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c., comma 2.
Detta clausola, si ribadisce, ha quindi lo scopo di accertare consensualmente che il compratore ha preso visione della cosa venduta (Cass. civ., Sez. II, 3 luglio 1979, n. 3741) e non può riferirsi ai vizi occulti, che si manifestano cioè, a seguito dei normali controlli eseguiti ante acquisto, e soltanto dopo l’utilizzo del bene compravenduto.
Né potrebbe essere diversamente, giacché l’espressione “vista”, se priva di precisazioni rafforzative, inequivocabilmente allude solo ai vizi agevolmente riscontrabili dall’acquirente a primo esame (cfr. Cass. civ., Sez. VI, 19 ottobre 2016, n. 21204).
La buona fede e l’equità del sinallagma contrattuale, principi fondamentali che governano l’istituto del contratto, impongono che la pattuizione in questione non possa sollevare il venditore dalla garanzia per i vizi occulti, bensì inducono a ritenere che quella clausola vada limitata a una accettazione del bene con tutti quegli eventuali vizi riconoscibili ictu oculi, nonché, se vi sia stata la concreta possibilità di farlo, con tutti i vizi che avrebbero potuto essere riconoscibili attraverso una diligente disamina del bene.
Non ricomprende, anche, l’accettazione dei vizi occulti, perché, ove così fosse, si determinerebbe uno squilibrio ingiustificato del sinallagma contrattuale.
Il venditore di un bene usato, pertanto, è tenuto alla garanzia per i vizi occulti, anche se la vendita sia avvenuta nello stato come visto e piaciuto, e a prescindere dalla circostanza che la presenza di essi non sia imputabile a opera del venditore, ma, esclusivamente, a vizi di costruzione del bene venduto.
L’orientamento opposto, interpretando la clausola in commento come l’impegno ad accettare il bene compravenduto senza riserva alcuna, non tiene in considerazione che il visto e piaciuto, di per se stesso, intende riferirsi allo stato apparente in cui si trova il bene compravenduto, vale a dire in quel modo, come possa essere, ragionevolmente, “percettibile e manifesto”.
La clausola “visto e piaciuto” non esonera il venditore che occulta i vizi in mala fede
La Corte di Cassazione, con ordinanza pubblicata il 21 ottobre 2025, ha confermato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la clausola contrattuale “visto e piaciuto” non esclude in modo automatico la responsabilità del venditore per vizi occulti del bene, ove emerga un comportamento doloso volto a occultare tali difetti. (si veda “Vendita: la formula “visto e piaciuto” non esonera il venditore dai vizi per il bene ceduto”, Norme&Tributi Plus Diritto, 21 ottobre 2025, Giampaolo Piagnerelli). Nella vicenda esaminata, un acquirente aveva acquistato un autocarro usato da una società con la clausola “visto e piaciuto”, ma già durante il viaggio di ritorno aveva riscontrato evidenti difetti di marcia, segnalati immediatamente alla venditrice. Successive ispezioni meccaniche avevano rivelato danni strutturali alla portante del veicolo, resi non visibili a un controllo superficiale a causa di un’accurata riverniciatura, chiaramente intesa a mascherare le lesioni preesistenti. Il Tribunale, in primo grado, aveva rigettato la domanda di risoluzione del contratto, ma la Corte d’Appello aveva accolto il ricorso del compratore, ritenendo provata la mala fede del venditore nell’occultamento dei vizi e disponendo la risoluzione del contratto con la restituzione del prezzo e il risarcimento delle spese accessorie per un totale di 12.882,76 euro. La società venditrice aveva quindi impugnato la sentenza in Cassazione, sostenendo, con due motivi, la violazione degli articoli 2699 e 2700 del codice civile relativi all’efficacia probatoria del certificato di revisione e dell’articolo 1490, comma 2, in merito alla validità della clausola “visto e piaciuto”. Il primo motivo è stato rigettato perché la Corte ha chiarito che, nonostante il certificato di revisione abbia valore di prova legale, lo stesso attesta solamente la conformità del veicolo alle prescrizioni tecniche al momento del controllo; tuttavia, non esclude la presenza di vizi non rilevabili nel corso della revisione medesima, in specie se occultati artificialmente. Il secondo motivo è stato anch’esso respinto sulla base del consolidato orientamento della Suprema Corte, secondo cui la clausola “visto e piaciuto” non vale a esonerare il venditore dalla responsabilità qualora abbia agito in mala fede, occultando intenzionalmente vizi che non potevano essere rilevati con un’ispezione normale. In questo caso, la riverniciatura della struttura portante è stata considerata un chiaro indicatore di tale condotta dolosa, legittimando la decisione della Corte d’Appello. La Cassazione ha, per l’effetto, rigettato il ricorso, condannando la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali e a ulteriori somme a titolo di sanzione, ribadendo il principio che la buona fede contrattuale prevale su clausole apparentemente liberatorie, quando vi sia un comportamento fraudolento nel nascondere vizi sostanziali del bene venduto.
Considerazioni conclusive
La soluzione della giurisprudenza di legittimità alla questione in disamina, e in particolare l’incidenza di tale clausola sui vizi occulti, deve ritenersi la più aderente, in particolare all’impianto normativo del contratto di compravendita e, più in generale, ai principi che governano il contratto come negozio giuridico.
L’interpretazione assegnata da alcuni giudici di merito, a tale clausola, come impegno ad accettare il bene compravenduto senza alcuna riserva e rinunciando in toto alla garanzia per i vizi, anche occulti, risulta implicitamente smentita dagli unici due precedenti massimati dalla Corte di Legittimità (Cass. civ., Sez. II, 3 luglio 1979, n. 3741, nonché Cass. civ., Sez. VI, 19 ottobre 2016, n. 21204).
Posto che la clausola “visto e piaciuto” abbia la primaria funzione di accertare consensualmente che il compratore ha preso visione della cosa venduta, l’esclusione della garanzia non potrà riferirsi a vizi occulti, cioè quelli che si manifestano a seguito degli ordinari controlli eseguiti in fase di trattative e, quindi, soltanto dopo l’uso del bene compravenduto.
In caso contrario, ritenere che la clausola possa sollevare il venditore dalla garanzia per i vizi occulti, contrasterebbe coi principi fondamentali, come la buona fede e l’equità del sinallagma contrattuale.
di Laura Biarella sole24ore
28-10-2025 13:36
Richiedi una Consulenza