Lavoro pubblico contrattualizzato. Procedimento disciplinare. Rapporti con il giudizio procedimento penale. Sentenza definitiva di
assoluzione ex art. 653, comma 1, c.p.p. Obblighi conformativi del giudice e della P.A. Vincolatività nel giudizio civile. Limiti.
Corte di Cassazione Sezione Civile Sent. Sez. L Num. 20109 Anno 2024
Presidente: TRIA LUCIA
Relatore: ROLFI FEDERICO VINCENZO AMEDEO
Data pubblicazione: 22/07/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 25399/2023 R.G. proposto da:
COMUNE DI SANREMO, in persona del Sindaco Pro tempore ed
elettivamente domiciliato in GENOVA, VIA ASSAROTTI 48/6, presso lo
studio dell’avvocato BARILATI MARCO che lo rappresenta e difende,
PEC marco.barilati@ordineavvgenova.it
– ricorrente –
contro A.M. domiciliato elettivamente presso PEC
luigialberto.zoboli@ordineavvgenova.it, rappresentato e difeso dagli
avvocati ZOBOLI LUIGI ALBERTO e MORONI ALESSANDRO
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 206/2023 della Corte d'appello di Genova,
depositata il 28/10/2023 R.G.N. 225/2022;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
05/06/2024 dal Consigliere Dott. Federico Rolfi;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RITA
SANLORENZO che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l'Avvocato MARCO BARILATI;
udito l'Avvocato LUIGI ALBERTO ZOBOLI.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 206/2023, pubblicata in data 28 ottobre 2023,
la Corte d’appello di Genova, nella regolare costituzione dell’appellato
COMUNE DI SANREMO, ha accolto il reclamo ex art. 1, comma 58,
Legge n. 92/2012 proposto da A.M. avverso la
sentenza del Tribunale di Imperia n. 76/2022, pubblicata in data 15
giugno 2022, e, per l’effetto, ha annullato “tanto l’originario
provvedimento di licenziamento disciplinare datato 22.1.2016 che il
provvedimento di conferma del 15.5.2023”, condannando il COMUNE
DI SANREMO a reintegrare lo stesso A.M. nel posto di
lavoro ed a corrispondergli a titolo di risarcimento del danno la
retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello
dell’effettiva reintegra.
2. A.M. aveva impugnato il licenziamento per
giusta causa intimatogli dal COMUNE DI SANREMO in data 22 gennaio
2016 per la violazione degli artt. 55-quater e 55-quinquies, D. Lgs. n.
165/2001, sulla base di elementi emersi nel corso di una inchiesta
penale nella quale venivano addebitati al lavoratore episodi di:
allontanamenti dal posto di lavoro senza effettuare la timbratura del
cartellino in uscita; esecuzione di timbratura da parte di soggetti terzi;
omissione di timbratura seguita di dichiarazione di orari di servizio non
veritieri.
3. Respinta l’impugnazione sia all’esito della fase sommaria sia
all’esito del giudizio a cognizione piena e proposto pertanto reclamo, la
Corte d’appello di Genova ha, in primo luogo, disatteso l’eccezione,
sollevata dal reclamato COMUNE DI SANREMO all’udienza di
discussione, con la quale era stata dedotta la sopravvenuta carenza di
interesse del reclamante, essendo stato adottato in data 15 maggio
2023 - a seguito di riapertura del procedimento disciplinare su richiesta
del lavoratore in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza
di assoluzione della Corte d’Appello di Genova – un ulteriore
provvedimento di licenziamento, confermativo del precedente.
La Corte territoriale, infatti, ha ritenuto che alla luce della
unitarietà del procedimento disciplina, l’impugnazione proposta
avverso l’originario provvedimento disciplinare dovesse ritenersi estesa
anche al provvedimento successivamente adottato a seguito della
riapertura del procedimento disciplinare.
Passando alla decisione sul reclamo, la Corte d’appello ha
rilevato, in primo luogo, che il COMUNE, nel provvedimento del 15
maggio 2023, aveva “con argomentazioni confuse” introdotto “nuovi
addebiti mai contestati prima e peraltro incongrui rispetto all’accusa di
falsa attestazione di servizio”, concludendo che tale profilo si poneva
“in evidente contrasto con i limiti alle facoltà riconosciute alla P.A. in
sede di riapertura del procedimento disciplinare (…) non essendo
possibile l’aggiunta di fatti nuovi implicanti un disvalore diverso da
quello già oggetto di contestazione”.
La Corte territoriale, quindi, ha ribadito che sul piano disciplinare,
al reclamante era stata contestata la falsa attestazione della presenza
in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della
presenza o con altra modalità fraudolenta, mentre altre condotte - la
timbratura “in abiti succinti” e la timbratura demandata a terzi –
costituivano condotte di cui il COMUNE DI SANREMO non aveva
“compiutamente evidenziata la rilevanza disciplinare in sé”.
La Corte d’appello, quindi, dopo avere concluso che “la vicenda
oggetto di procedimento disciplinare è identica a quella sottoposta alla
cognizione del giudice penale, come identici sono gli elementi istruttori
posti alla base della sanzione disciplinare”, ha attribuito valenza
dirimente alla circostanza del passaggio in giudicato della sentenza
della Corte d’appello di Genova, la quale aveva confermato la sentenza
del Giudice per le Indagini Preliminari di Imperia che aveva assolto
A.M. “perché il fatto non sussiste”.
La Corte d’appello, infatti, dopo aver ricostruito i rapporti tra
procedimento disciplinare e procedimento penale, ha ritenuto che il
giudicato penale – che aveva escluso la sussistenza degli episodi
ascritti a A.M. – presentasse valenza vincolante anche
nel giudizio civile di impugnazione del licenziamento, concludendo,
quindi, per l’accoglimento del reclamo.
4. Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di
Genova ricorre il COMUNE DI SANREMO
Resiste con controricorso A.M..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è affidato a tre motivi, risultando indicato un quarto
motivo che tuttavia si sostanzia nella richiesta di riformare la decisione
della Corte d’appello di Genova anche nelle statuizioni da quest’ultima
adottate come conseguenza della declaratoria di annullamento del
licenziamento.
1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art.
360, n. 3, c.p.c., “(e per quanto possa occorrere, anche ex art. 360, n.
4 c.p.c.)” la violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 100 c.p.c.;
653 c.p.p.; 55-ter, commi 2 e 4, D. Lgs. n. 165/2001.
Il COMUNE ricorrente impugna la decisione della Corte d’appello
di Genova nella parte in cui quest’ultima ha respinto l’eccezione di
inammissibilità dell’appello per sopravvenuta carenza di interesse del
reclamante a seguito del sopravvenire del provvedimento di
licenziamento datato 15 maggio 2023 ed ha anzi esteso la propria
cognizione anche a tale atto ritenendolo – erroneamente –
confermativo del precedente provvedimento.
Argomenta il ricorrente che oggetto del giudizio di reclamo era
unicamente il provvedimento di licenziamento del 22 gennaio 2016, e
che la Corte d’appello, nel portare la propria cognizione al successivo
provvedimento, avrebbe violato gli artt. 112 e 100 c.p.c.; 653 c.p.p.;
55-ter, commi 2 e 4, D. Lgs. n. 165/2001, nonché i “principi che
governano l’ordinamento processuale che consentono/impongono
l’impugnazione dell’atto in questione su tre gradi di giudizio”.
1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art.
360, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 653
c.p.p.; 55-bis e 55-ter, commi 2 e 4, D. Lgs. n. 165/2001.
Argomenta, in particolare, il ricorso che la decisione impugnata
avrebbe erroneamente ritenuto che la vicenda oggetto di procedimento
disciplinare fosse identica a quella sottoposta alla cognizione del
giudice penale, ritenendo altresì che il sopravvenuto giudicato penale
coprisse integralmente sia i fatti storici sia l’elemento soggettivo alla
base del provvedimento adottato all’esito della riapertura del
procedimento disciplinare e sia pertanto vincolante anche nel presente
giudizio.
Invocando la decisione di questa Corte n. 28943/2022, il
ricorrente deduce che “la Corte d’Appello ha confuso i fatti dandone
una ricostruzione/rappresentazione che non corrisponde agli elementi
istruttori che aveva a disposizione, non considera la differenza che
intercorre tra i “fatti-reato”, i soli ad essere oggetto del giudizio penale
e dell’art. 653 c.p.p., ed i “fatti materiali naturalisticamente
considerati”, e non fa, quindi, corretta applicazione dell’art. 653 c.p.p.”.
1.3. Con il terzo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360,
nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 653 c.p.p.
e 55-ter, commi 2 e 4, D. Lgs. n. 165/2001.
Argomenta il ricorrente che, anche ipotizzando che la Corte
d’appello di Genova fosse vincolata dalla sentenza di assoluzione in
sede penale, la decisione impugnata sarebbe comunque erronea
perché avrebbe omesso di valutare che la decisione assunta in sede di
appello penale “aveva ritenuto pienamente legittime le sanzioni
disciplinari irrogate a ciascuno degli imputati e, dunque, anche quella
irrogata al Sig. Muraglia”, riproducendo tali considerazioni in modo
parziale ed incompleto.
2. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Questa Corte, pur se in relazione al diverso - ma correlato -
profilo del rispetto del principio del ne bis in idem, ha già
reiteratamente operato una ricostruzione del meccanismo di cui all’art.
55-ter, D. Lgs. n. 165/2001, chiarendo che tale ultima previsione –
operando effettivamente una parziale deroga al principio generale del
ne bis in idem – presenta la finalità di adeguare, in ragione delle
peculiari esigenze pubblicistiche, l’esito disciplinare, in melius o in
peius, alla statuizione penale (Cass. Sez. L - Sentenza n. 25901 del
23/09/2021).
Da tale premessa è stata tratta la conclusione per cui, anche nel
caso di riapertura del procedimento disciplinare disposta ai sensi
dell'art. 55-ter, D. Lgs. n. 165/2001, il procedimento disciplinare resta
comunque unitario sin dall'inizio, seppur articolato in due fasi, e
termina solo all'esito di quello penale, di talché la sanzione inflitta nella
fase iniziale ha natura provvisoria e non esaurisce il potere della P.A.
la quale, dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale, in base
agli identici fatti storici può infliggere una sanzione diversa e finale, che
non si aggiunge alla prima, ma la sostituisce retroattivamente (Cass.
Sez. L - Sentenza n. 36456 del 13/12/2022).
Non si può, quindi, parlare di riedizione del potere disciplinare, in
quanto, concludendosi il procedimento disciplinare successivamente
all’esito di quello penale e restando il medesimo unitario dall’inizio, la
sanzione inflitta in principio dalla P.A. rientra nella fase iniziale di un
procedimento unico articolato in due fasi, la seconda delle quali, per
conseguire un adeguato raccordo tra disciplinare e penale, presuppone
il rinnovo della contestazione dell’addebito, che deve avvenire in
ragione dei medesimi fatti storici alla base di quella originaria, in
relazione ai quali è, in tutto o in parte, intervenuta sentenza penale
irrevocabile (Cass. Sez. L, Sentenza n. 37322 del 2022).
Come già affermato da questa Corte, “In pratica, nel pubblico
impiego privatizzato la sanzione inflitta, eventualmente, per prima
dalla P.A., che non si avvalga del potere di sospendere il procedimento
disciplinare, non esaurisce il correlato potere perché non conclude il
procedimento. La sanzione che viene irrogata dopo la sentenza penale
passata in giudicato, in base agli identici fatti storici, è, invece, quella
finale, che porta a termine detto procedimento. Il procedimento
disciplinare, quindi, termina solo all’esito di quello penale e resta
unitario dall’inizio; la sanzione inflitta in principio dalla P.A. rientra nella
fase iniziale di un procedimento unitario articolato in due fasi, la
seconda delle quali, per conseguire un adeguato raccordo tra
disciplinare e penale, presuppone il rinnovo della contestazione
dell’addebito, che deve avvenire in ragione dei medesimi fatti storici
alla base di quella originaria, in relazione ai quali è, in tutto o in parte,
intervenuta sentenza penale irrevocabile.” (Cass. Sez. L - Sentenza n.
36456 del 13/12/2022)
Dall’unitarietà del procedimento, quindi, questa Corte ha tratto
la conclusione per cui la determinazione di conferma o modifica della
sanzione già irrogata ha effetto ex tunc e l'accertamento in sede
giurisdizionale dell'illegittimità non può che operare ex tunc (Cass. Sez.
L - Sentenza n. 29376 del 14/11/2018).
Alla luce di questi principi, quindi, si deve ritenere che,
impugnata l’originaria sanzione disciplinare in sede giurisdizionale,
qualora, nelle more del giudizio, sopravvenga la definitiva
determinazione della sanzione medesima sulla scorta degli esiti del
giudizio penale, il giudice innanzi al quale la sanzione originaria risulta
impugnata, ben possa portare la propria cognizione anche sulla
sanzione definitiva, e ciò per la semplice ragione che ad essere
impugnato è un unico provvedimento disciplinare, sia pure adottato
nell’ambito di una procedura bifasica, di talché anche la decisione finale
– quand’anche riferita formalmente a due provvedimenti, come nel
caso in esame – viene ad investire un solo provvedimento.
Una diversa ricostruzione, del resto, oltre a determinare un
effetto deteriore sulle possibilità di difesa dell’incolpato – costretto,
dopo aver già impugnato un primo provvedimento, a proporre una
nuova impugnazione del provvedimento che del primo costituisce solo
conferma o modifica senza basarsi su fatti nuovi – risulta logicamente
inconciliabile con quell’effetto finale retroattivo di tale conferma o
modifica che è stato affermato da questa Corte.
Giustamente, quindi, la sentenza della Corte d’appello di Genova
ha escluso che il provvedimento di conferma della sanzione del
licenziamento adottato nei confronti dell’odierno controricorrente
potesse determinare il cumulativo effetto di privare il controricorrente
medesimo dell’interesse ad impugnare l’originario provvedimento di
licenziamento ma, nel contempo, di escludere la possibilità di
contestare in quella sede il provvedimento successivo alla riapertura
del procedimento disciplinare.
Altrettanto giustamente, quindi, la Corte genovese -
richiamando, del resto, l’orientamento di questa Corte - ha ritenuto che
l’impugnazione originariamente proposta si estendesse al
provvedimento “definitivo”, costituendo quest’ultimo il provvedimento
di cui, a quel punto, veniva ad essere definitivamente sindacata la
legittimità.
3. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Il venir meno della c.d. “pregiudiziale penale” nella disciplina del
procedimento disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato (Cass.
Sez. L - Sentenza n. 33979 del 17/11/2022; Cass. Sez. L - Sentenza
n. 21193 del 27/08/2018; Cass. Sez. L - , Sentenza n. 5284 del
01/03/2017), non ha comportato l’elisione della regola di cui all’art.
653 c.p.p., la quale attribuisce efficacia di giudicato, nel giudizio per
responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità, alla sentenza
penale irrevocabile di assoluzione e a quella di condanna,
rispettivamente, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o non
costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso,
da un lato, e quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della
sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso,
dall’altro.
Si è quindi reso necessario regolare per legge il possibile conflitto
tra gli esiti dei due procedimenti, pur rimanendo l'Amministrazione
libera di valutare autonomamente la rilevanza disciplinare dei fatti
accertati.
A tale esigenza di coordinamento deve ritenersi rispondano l’art.
55-ter, comma 2 (riapertura per modificare o confermare l'atto
conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale), e comma 4
(rinnovo della contestazione dell'addebito), D. Lgs. n. 165/2001, e il
più complesso quadro normativo di disciplina dei rapporti tra
procedimento disciplinare e procedimento penale, in cui la previsione
si colloca, avendo questa Corte individuato la ratio del citato art. 55-
ter nella volontà del legislatore di prevedere un meccanismo di
raccordo per regolare possibili conflitti tra l'esito dei due procedimenti,
pur nella rispettiva autonomia (Cass. Sez. L - Sentenza n. 29376 del
14/11/2018).
Non è inutile sottolineare che detto coordinamento, nel caso in
cui intervenga sentenza penale di assoluzione, non si traduce in alcun
modo in un automatico “ribaltamento” degli esiti del giudizio penale sul
procedimento disciplinare e ciò in virtù dell’evidente diversità di ambito
sia fattuale sia giuridico che caratterizza il giudizio penale, da un lato,
ed il procedimento disciplinare dall’altro lato.
In sintesi, quindi, il disposto di cui all’art. 653 c.p.p. non può e
non deve essere letto nei termini di una grossolana equazione
“assoluzione in sede penale = insussistenza dell’illecito disciplinare”
perché lo scopo della previsione, ben lungi dallo stabilire un simile
automatismo, è quello semplicemente di consentire una valorizzazione
degli esiti del procedimento penale ma non di procedere ad una sua
acritica trasposizione sugli esiti del procedimento disciplinare.
È per questo motivo che l’art. 55-ter, comma 2, D. Lgs. n.
165/2001 si limita a prevedere che se il procedimento disciplinare, non
sospeso, si conclude con l'irrogazione di una sanzione e,
successivamente, il procedimento penale viene definito con una
sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto
addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale
o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l'ufficio
competente per i procedimenti disciplinari deve procedere, ad istanza
di parte, alla riapertura del procedimento disciplinare “per modificarne
o confermarne l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio
penale”.La formulazione della previsione è, quindi, chiara nell’escludere
qualsiasi effetto automatico di integrale traslazione degli esiti della
decisione in sede penale sugli esiti del procedimento disciplinare –
ipotesi nella quale, invero, la regola sarebbe stata quella
dell’automatica caducazione del provvedimento disciplinare già
adottato – contemplando, invece, la mera ripresa del procedimento allo
scopo di consentire all’Amministrazione una nuova valutazione della
fondatezza dell’originaria contestazione disciplinare, la quale – ed è la
previsione a stabilirlo espressamente – ben può essere comunque
confermata o rimodulata, senza essere revocata.
Le ragioni sono evidenti e sono di (almeno duplice) ordine: 1) la
formula assolutoria “perché il fatto non costituisce illecito penale” non
vale ad elidere la sussistenza in sé delle condotte, le quali, pur se
penalmente neutre, ben potrebbero avere invece rilevanza disciplinare;
2) la statuizione penale di assoluzione “perché il fatto non sussiste”
potrebbe non investire la totalità dei fatti oggetto della contestazione,
conservando, quindi, i fatti rimasti al di fuori del giudizio penale
autonoma valenza disciplinare.
Esempi di tali ipotesi sono decisioni di questa Corte (non
massimate ma richiamate dalla difesa del ricorrente anche in sede di
discussione), come Cass. Sez. L, Sentenza n. 8410 del 2023 – in un
caso in cui in sede penale la materialità delle condotte non era stata
radicalmente esclusa, essendone stata esclusa solo la rilevanza penale,
avendo quindi questa Corte affermato che dette condotte potevano
essere autonomamente valutate in sede disciplinare – o Cass. Sez. L,
Sentenza n. 28943 del 2022 – in un caso in cui la stessa decisione
impugnata aveva evidenziato che gli episodi alla base del
provvedimento disciplinare erano in parte diversi da quelli oggetto del
procedimento penale, sicché la decisione di assoluzione in quest’ultimo
non si estendeva agli altri episodi – ma anche, in linea generale, Cass.
Sez. L - Sentenza n. 3659 del 12/02/2021, la quale ha chiarito che
l'accertamento contenuto nella sentenza penale passata in giudicato
non preclude una nuova valutazione dei fatti in sede disciplinare, attesa
la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, con il solo
limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità
- e dunque, della ricostruzione dell'episodio posto a fondamento
dell'incolpazione - operato nel giudizio penale.
L’assenza di effetti di automatismo derivanti dalla sentenza
penale di assoluzione deriva, ulteriormente, dalla considerazione (su
cui il ricorrente insiste) per cui – come da questa Corte chiarito sia in
relazione ai procedimenti disciplinari in genere (Cass. Sez. U, Sentenza
n. 14344 del 09/07/2015; Cass. Sez. U, Sentenza n. 5448 del 2012),
sia in relazione alla specifica materia del pubblico impiego (Cass. Sez.
L - Sentenza n. 431 del 10/01/2019) - il giudicato penale non vale a
precludere, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti
accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle
rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell'immutabilità
dell'accertamento dei fatti nella loro materialità - e dunque, della
ricostruzione dell'episodio posto a fondamento dell'incolpazione -
operato nel giudizio penale, e ciò in quanto la medesima condotta, pur
non costituendo reato, ben potrebbe integrare gli estremi dell’illecito
disciplinare.
Tali puntualizzazioni non risultano in alcun modo infirmate dal
recente precedente di questa Corte che ha enunciato il principio per cui
se, da un lato, il giudice civile, investito dell'impugnazione della
sanzione disciplinare, non è vincolato né alla valutazione degli elementi
istruttori compiuta in sede penale, né al dictum della sentenza di
assoluzione non definitiva, quand'anche pronunziata con la formula
"perché il fatto non sussiste", dall’altro lato, l'assoluzione ai sensi
dell'art. 653, comma 1, c.p.p., se passata in giudicato, impone al
giudice del lavoro di conformarsi ad essa e consente, a richiesta, la
riapertura del procedimento disciplinare, il cui esito, del pari, deve
adeguarsi alla statuizione penale (Cass. Sez. L - Ordinanza n. 6660 del
06/03/2023).
In primo luogo, infatti, la decisione – al di là della formulazione
della relativa massima – ha enunciato come regula iuris effettiva quella
per cui alla sentenza penale di assoluzione non ancora passata in
giudicato non possono essere ricondotti gli effetti di cui all’art. 653
c.p.p., la cui applicazione – è la puntualizzazione finale della decisione
– viene in rilievo solo nell’ipotesi in cui la sentenza penale sia passata
in giudicato, senza che, tuttavia, a tale affermazione di principio abbia
poi fatto concretamente seguito la ben diversa affermazione – non
contenuta nella decisione – per cui la sentenza definitiva di assoluzione
varrebbe ad escludere ipso facto (e ipso iure) la sussistenza dell’illecito
disciplinare.
In secondo luogo, la decisione in esame risulta assunta in
fattispecie affine a quella oggetto di Cass. Sez. L, Sentenza n. 28943
del 2022 - e cioè in una ipotesi nella quale la contestazione disciplinare
concerneva fatti ulteriori - ed anche sotto tale profilo risulta non
difforme da quest’ultima.
Si deve, semmai, osservare che l’analisi di Cass. Sez. L -
Ordinanza n. 6660 del 06/03/2023 vale anche a rendere evidenti le
ragioni dell’assenza di alcun rischio di dissonanza tra la presente
statuizione e quella assunta da questa Corte con la decisione Cass. Sez.
L, Sentenza n. 8453 del 2023, relativa a provvedimento disciplinare
adottato dall’odierno ricorrente nei confronti di altro dipendente ma
nell’ambito della stessa vicenda.
In quella sede, infatti, ben lungi dall’essere stato escluso un
riflesso della sentenza penale sul giudizio civile (come afferma il
ricorso), la produzione della sentenza penale di assoluzione passata in
giudicato è stata dichiarata inammissibile da questa Corte perché
avvenuta solo nel giudizio di Cassazione, peraltro ribadendo il principio
per cui la sentenza avrebbe potuto assumere rilevanza ove avesse
escluso la materialità dei fatti ed in tal modo allineandosi al principio
fondamentale affermato da Cass. Sez. L, Sentenza n. 28943 del 2022,
costituito dall’assenza di un effetto vincolante derivante dalla sentenza
di assoluzione in sede penale, fino a quando la stessa non risulti
definitiva, ma sempre escludendosi che il giudicato di assoluzione (con
qualunque formula) determini automaticamente l’archiviazione del
procedimento disciplinare.
In sintesi, la regola di cui all’art. 653 c.p.p. deve essere intesa
nel senso che l’incidenza del giudicato sulla statuizione di assoluzione
in sede penale sul giudizio civile avente ad oggetto il provvedimento
disciplinare non è assoluta ed automatica, in quanto: 1) la sentenza
penale deve avere escluso la materialità delle condotte e non la sola
rilevanza penale delle stesse, con la conseguenza che, anche nel caso
di assoluzione perché il fatto non sussiste la esclusione della rilevanza
penale delle condotte può assumere effetti diretti nell’ambito del
procedimento disciplinare solo se la materialità delle condotte è
sovrapponibile nei due procedimenti; 2) in altri termini, l’esclusione
della materialità delle condotte di cui al giudicato penale deve avere
ampiezza tale da non lasciar residuare elementi fattuali che comunque
possano avere autonoma rilevanza disciplinare, dovendo in sostanza la
fattispecie penale coincidere in tutti i suoi elementi con quella
disciplinare oggetto della contestazione e senza, quindi, che
quest’ultima costituisca un più ampio genus rispetto alla species della
fattispecie penale; 3) gli episodi oggetto della sentenza penale devono
quindi integralmente coincidere con quelli che sono stati oggetto della
originaria contestazione disciplinare.
In conclusione, il giudicato penale di assoluzione (qualunque ne
sia la formula) non determina automaticamente l’archiviazione del
procedimento disciplinare e, anche nel caso di assoluzione perché il
fatto penale non sussiste, la P.A. datrice di lavoro, nel rispetto del
principio della immutabilità della contestazione, può sicuramente
procedere disciplinarmente per fatti, magari rivelatisi inidonei alla
condanna penale, che siano contenuti nell’ambito della originaria
contestazione disciplinare e ciò in quanto, come da tempo affermato
da questa Corte (Cass. 9 giugno 2016, n. 11868), in tema di
licenziamento disciplinare, il principio della immutabilità della
contestazione non impedisce al datore di lavoro in tema di
licenziamento disciplinare, nei casi di sospensione del procedimento
disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai
medesimi fatti, di utilizzare, all’atto della riattivazione del
procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per
circoscrivere meglio l’addebito, sempre nell’ambito di quello originario,
sempre che al lavoratore, nel rispetto del diritto di difesa, sia consentito
di replicare alle accuse così precisate.
A tali principi la decisione impugnata risulta essersi pienamente
conformata, in quanto ha verificato sia che la sentenza penale di
assoluzione era stata adottata con la formula “perché il fatto non
sussiste” e veniva quindi ad incidere sulla stessa materialità dei fatti (e
non sulla sola non rilevanza penale degli stessi); sia che gli episodi
oggetto della originaria contestazione disciplinare coincidevano
integralmente con quelli oggetto dell’accertamento in sede penale; sia
che degli elementi fattuali valorizzati nel successivo provvedimento del
15 maggio 2023 non era stata adeguatamente evidenziata l’autonoma
rilevanza disciplinare rispetto all’originaria contestazione; sia che
l’esclusione degli elementi costituitivi della fattispecie di reato non
lasciava residuare altri elementi fattuali che consentissero di affermare
un’autonoma rilevanza disciplinare delle condotte (cfr. pagg. 25-26
della motivazione: “non essendovi ulteriori condotte od elementi di
residua rilevanza disciplinare (…)”), concludendo, pertanto, che “il
sopravvenuto giudicato penale copre integralmente tanto i fatti storici
che l’elemento soggettivo cui il Comune di Sanremo ha attribuito
rilevanza disciplinare” e che, conseguentemente, sussistevano i
presupposti per ritenere sussistente il carattere vincolante
dell’accertamento in sede penale anche in quella civile ex art. 653
c.p.p.
Tali conclusioni, ampiamente e congruamente argomentate,
vengono contestate nel motivo di ricorso deducendo - come visto in
precedenza - che la Corte d’appello avrebbe “confuso i fatti dandone
una ricostruzione/rappresentazione che non corrisponde agli elementi
istruttori che aveva a disposizione” e non avrebbe considerato ”la
differenza che intercorre tra i “fatti-reato”, i soli ad essere oggetto del
giudizio penale e dell’art. 653 c.p.p., ed i “fatti materiali
naturalisticamente considerati”, concludendo che la decisione non
farebbe corretta applicazione dell’art. 653 c.p.p.
La fondatezza delle deduzioni deve tuttavia essere esclusa, in
quanto:
1) nonostante le diffuse deduzioni del ricorrente sul punto, non
emerge in alcun modo che vi sia una difformità tra gli episodi
oggetto del procedimento disciplinare – e della decisione
impugnata - e gli episodi oggetto del procedimento penale;
2) le deduzioni del ricorrente, quindi, non hanno dato alcun
modo di apprezzare una eventuale diversa natura dei fatti o
di apprezzarne una specifica valenza disciplinare:
3) la Corte d’appello risulta avere comunque compiuto una
valutazione degli episodi “naturalisticamente considerati”,
giungendo tuttavia alla conclusione per cui, escluse in sede
penale le condotte contestate, non risultava residuare alcuna
condotta di rilevanza disciplinare idonea a fondare un
provvedimento di licenziamento;
4) risulta persino non chiaro in quali termini verrebbe a
consistere la confusione dei fatti (peraltro non specificati) che
avrebbe indotto la Corte territoriale a dare “una
ricostruzione/rappresentazione che non corrisponde agli
elementi istruttori che aveva a disposizione”, elementi
istruttori, anch’essi lasciati nel vago dal ricorso.
Si deve, del resto, richiamare il principio per cui, con la
proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere
in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in
fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di
valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l'apprezzamento
dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal
momento che, nell'ambito di quest'ultimo, non è conferito il potere di
riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di
controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica,
l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato
di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare
le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le
risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in
discussione (Cass. n. 9097 del 07/04/2017).
In conclusione, deve ritenersi che la decisione impugnata abbia
operato una corretta applicazione degli artt. 653 c.p.p. e 55-ter, D.
Lgs. 165/2001 e che le doglianze formulate col motivo di ricorso siano
invece infondate.
4. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
Esclusa la sussistenza del vizio di cui all’art. 360, n. 5), c.p.c. -
in quanto il profilo ora in rilievo è stato espressamente esaminato e
valutato dalla decisione impugnata – si deve osservare che nessuna
rilevanza poteva e può assumere, ai fini della decisione della Corte
genovese, l’osservazione svolta incidenter tantum dal giudice penale in
ordine alla sicura rilevanza disciplinare delle condotte esaminate in
quella sede e, conseguentemente, alla legittimità delle sanzioni
irrogate.
Il motivo di ricorso, infatti, si riferisce ad una argomentazione
della sentenza penale di assoluzione che risulta ultronea, perché priva
dello scopo di sorreggere la decisione già basata su altre decisive
ragioni, quindi improduttiva di effetti giuridici e, come tale,
insuscettibile di gravame o di censura in sede di legittimità (Cass. 11
giugno 2004, n. 11160; Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 10
dicembre 2019, n. 32257).
A rilevare, invero, è la considerazione che al giudice penale non
era devoluto alcun accertamento sulla rilevanza disciplinare delle
condotte o sulla legittimità dei provvedimenti disciplinari adottati,
dovendosi quindi ritenere che tali affermazioni costituiscano mero
obiter dictum che in nessun modo poteva risultare vincolante in sede
di impugnazione del licenziamento, rilevando, invece, unicamente la
decisione assunta in ordine alla fondatezza o meno dei capi di
imputazione.
5. Il ricorso deve quindi essere respinto, con conseguente
condanna del ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in
dispositivo.
6. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell'art.
13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della "sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello
previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto", spettando all'amministrazione giudiziaria verificare la
debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause
originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez.
U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020 - Rv. 657198 - 05).
P. Q. M.
La Corte:
respinge il ricorso;
condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del
giudizio di Cassazione, che liquida in € 4.000,00 per compensi, oltre €
200,00 per esborsi ed accessori di legge.Corte di Cassazione - copia non ufficiale
Sez. S4/L - R.G. 25399/2023 – UD 05/06/2024 PU- Pagina nr. 21 di 21
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-
quater, nel testo introdotto dal L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello
stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro
17-08-2024 23:12
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